Minime. 533



NOTIZIE MINIME DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO
Numero 533 del 31 luglio 2008

Notizie minime della nonviolenza in cammino proposte dal Centro di ricerca
per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Sommario di questo numero:
1. Enrico Piovesana: Ptsd (Post traumatic stress disorder)
2. Emanuele Giordana: Fare fuoco sui civili
3. Peppe Sini: La guerra e noi
4. Osvaldo Caffianchi: Il silenzio e il suo silenzio
5. Benito D'Ippolito: Alla deriva e sotto il riflettore
6. Carlo Federico Quarantotti: Riti pagani alla Torre di settentrione della
Citta' vecchia
7. Mao Valpiana: Militari e mendicanti
8. Roberto Silvestri ricorda Youssef Chahine
9. Giulio Giorello ricorda Ludovico Geymonat
10. Letture: Roberto Dulio, Introduzione a Bruno Zevi
11. Riedizioni: Mariateresa Fumagalli Beonio Brocchieri, Cristiani in armi
12. Edizioni Qualevita: Disponibile il diario scolastico 2008-2009 "A scuola
di pace"
13. La "Carta" del Movimento Nonviolento
14. Per saperne di piu'

1. AFGHANISTAN. ENRICO PIOVESANA: PTSD (POST TRAUMATIC STRESS DESORDER)
[Dal sito di "Peacereporter" (www.peacereporter.net) riprendiamo il seguente
articolo del 29 luglio 2008 col titolo "La guerra negata" e il sommario
"Nessuna assistenza per i reduci afflitti da Ptsd".
Enrico Piovesana, giornalista, lavora a "Peacereporter", per cui segue la
zona dell'Asia centrale e del Caucaso; e' stato piu' volte in Afghanistan in
qualita' di inviato]

La vicenda dei due elicotteristi dell'esercito italiano, rimpatriati
dall'Afghanistan in quanto affetti da stress post-traumatico da
combattimento - si erano rifiutati di aprire il fuoco durante un
combattimento per timore di colpire dei civili - solleva anche in Italia una
questione molto spinosa: quella del riconoscimento, da parte dello Stato,
della sindrome da Ptsd (Post traumatic stress disorder) per i reduci di
guerra.
*
Tartaglia: "Nessuna assistenza garantita ai reduci con Ptsd".
Nel nostro paese - spiega l'avvocato Angelo Tartaglia, esperto di diritto
militare - lo Stato non ha mai riconosciuto questa sindrome. Manca
completamente una normativa a riguardo ed e' sempre mancata la volonta'
politica del ministero della Difesa, di qualsiasi colore politico esso
fosse, di affrontare questa realta'. I militari che tornano dal fronte
psicologicamente traumatizzati da eventi bellici, con tanto di diagnosi da
Ptsd, possono ottenere il riconoscimento della causa di servizio, quindi un
risarcimento, o il congedo con pensione di invalidita', ma non ricevono
dallo Stato nessuna forma di assistenza terapeutica post-traumatica. Questa
e' demandata all'iniziativa del singolo, che deve provvedere da solo a
rivolgersi a strutture sanitarie specializzate. Il problema - conclude
l'avvocato - e' tutto politico, legato al fatto che i nostri governi
continuano a parlare di 'missioni di pace' negando la vera natura di queste
missioni militari".
*
Gaiani: "Lo Stato ha sempre negato che i nostri militari fanno la guerra"
E' proprio questo, anche secondo Gianandrea Gaiani, esperto di questioni
militari, il punto centrale di questa faccenda. "Solo ora si inizia ad
ammettere che i nostri soldati in missione di pace fanno anche la guerra. Ma
per anni questa realta' e' stata sistematicamente negata: il fatto che i
nostri militari partecipano regolarmente ad azioni di combattimento e' stato
nascosto all'opinione pubblica. Quindi non stupisce che lo Stato non abbia
mai voluto affrontare e gestire il problema dei reduci che tornano dal
fronte con traumi mentali dovuti ad azioni belliche. E' stato cosi' per la
Somalia, per l'Iraq e per l'Afghanistan. Ora pero' - dice Gaiani - se si
riconosce che i nostri militari combattono, bisogna anche garantire
un'adeguata assistenza terapeutica per i casi di Ptsd, come accade negli
Stati Uniti d'America e in Gran Bretagna, dove la guerra e i suoi effetti
non sono tabu'".

2. AFGHANISTAN. EMANUELE GIORDANA: FARE FUOCO SUI CIVILI
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 29 luglio 2008 col titolo "Afghanistan.
Bambini e scuole coraniche nel mirino, e due soldati italiani 'si
ribellano'" e il sommario "Elicotteristi rimpatriati dopo essersi rifiutati
di sparare. Statunitensi e truppe Nato sparano su qualsiasi cosa si muova".
Emanuele Giordana, giornalista, fa parte dell'esperienza di "Lettera 22"]

Le vittime civili sono il punto piu' dolente dell'intero conflitto afghano.
Ieri, come nei giorni scorsi, le notizie che si sono rincorse dal Sud del
paese al Pakistan sino all'Italia, dove proprio il dramma dei civili afghani
sarebbe all'origine del rientro di due elicotteristi italiani che si
sarebbero rifiutati di sparare nel mucchio.
Un'opacita' diffusa circonda comunque tutte le notizie che riguardano la
guerra nel paese centroasiatico. Cosi' che non e' chiaro quanto e' successo
nelle aree tribali pachistane dove almeno sei persone, fra cui alcuni
stranieri, sono state uccise ieri in una scuola coranica colpita da missili
che sarebbero stati lanciati dalle forze americane dispiegate in
Afghanistan. Il condizionale resta d'obbligo perche' la fonte e' per ora
solo pachistana. I missili "intelligenti" avrebbero avuto come obiettivo
un'abitazione vicina a una madrasa nei pressi del villaggio di Azam Warsak,
una ventina di chilometri a Ovest di Wana, la principale citta' del Sud
Waziristan nella cosiddetta cintura tribale pachistana che confina con
l'Afghanistan ed e' ritenuta il santuario neotalebano oltre confine.
Fonti dell'intelligence pachistana hanno detto alla Reuters che la scuola
coranica era in realta' una base di jihadisti e che il proprietario della
casa bombardata, Malik Sallat Khan, e' legato ai militanti islamici.
Un'altra fonte anonima ha detto alla France Presse che l'attacco ha ucciso
sei persone tra cui tre combattenti stranieri, forse arabi, e tre ragazzi,
probabilmente studenti della madrasa (l'attacco ha preceduto di qualche ora
l'incontro alla Casa Bianca tra Bush e il premier pachistano Gilani).
Nessuna conferma Usa.
Un'altra notizia riguarda invece l'ammissione della Nato dell'uccisione
domenica di due bambini che si trovavano a bordo di un'auto contro cui la
forza multinazionale ha aperto il fuoco dopo che questa non si e' fermata ad
un posto di controllo nella provincia di Kandahar. Episodio che ne ricorda
uno simile verificatosi sabato scorso, nel quale alcuni soldati britannici
hanno ucciso quattro civili che anche in quel caso si trovavano a bordo di
un'auto che non si era fermata a un posto di controllo nel distretto di
Sangin, nell'Helmand.
Quanto agli elicotteristi italiani, i due militari sono stati rimpatriati
nei giorni scorsi da Herat "esclusivamente per motivi sanitari", ossia per
stress psico-fisico diagnosticato al termine di un impegnativo ciclo
operativo. "Nei loro confronti - hanno spiegato all'Ansa fonti militari -
non e' stato preso alcun provvedimento".
Ma secondo il quotidiano di Roma "Il Tempo" la decisione sarebbe stata
invece adottata perche' i due si sarebbero rifiutati di sparare durante uno
scontro a fuoco in cui erano coinvolti anche militari italiani. La loro
giustificazione e' stata - secondo il quotidiano della capitale - che sulla
linea di tiro c'erano anche civili. "Il Tempo" aggiungeva inoltre che i due
militari, piloti di elicotteri Mangusta, erano stati "immediatamente
rimpatriati" e che, sul fatto, era stata aperta un'inchiesta che invece,
stando a fonti militari ufficiali, non sarebbe in corso in quanto i due
sarebbero stati riportati a casa esclusivamente per motivi di salute.
Entro l'estate proprio il comando di Herat diventera' la piu' importante
base operativa italiana in Afghanistan. Quasi l'intero contingente di stanza
a Kabul, oltre 1.200 soldati, verra' trasferito nella citta' occidentale una
volta che il comando della capitale, in mano italiana, passera' interamente
agli afgani. L'operazione e' gia' iniziata. L'aeroporto di Herat e' infatti
chiuso per i voli civili salvo una finestra l'11 e il 12 agosto. Riaprira' a
settembre.

3. LE ULTIME COSE. PEPPE SINI: LA GUERRA E NOI

In Afghanistan e' in corso una guerra. Tutti lo sappiamo.
Una guerra terrorista e stragista, imperialista e razzista.
Una guerra alla quale l'Italia partecipa in violazione della legalita'
costituzionale e del diritto internazionale.
Una guerra alla quale il popolo italiano ha il dovere di opporsi: chiedendo
che cessi la partecipazione militare italiana e che anzi l'Italia si adoperi
per far cessare la guerra, per salvare le vite, per costruire la pace con
mezzi di pace.
E' il nostro compito, il nostro dovere.
Essere stati ed essere ancora acquiescenti con la guerra e' un crimine e
un'infamia.

4. EDITORIALE. OSVALDO CAFFIANCHI: IL SILENZIO E IL SUO SILENZIO

Quei pacifisti che per ben due anni
hanno applaudito all'empia guerra afgana
e agli assassini reso omaggio e ricevuto
dagli assassini l'obolo previsto
per chi degli assassini si fa complice,
certo che tacciono ora
certo che ora anche se gridassero
sarebbe come se tacessero, la loro
parola ormai per sempre e' solo nulla.

5. LE ULTIME COSE. BENITO D'IPPOLITO: ALLA DERIVA E SOTTO IL RIFLETTORE

Morivano tra i flutti e sotto l'occhio
gelido ed empio delle telecamere.
Morivano tra i flutti e sotto l'occhio
vacuo e lubrico delle telecamere.

Chi a sopravvivere s'era azzardato
veniva posto in gabbia per la colpa
di essere ancor vivo, di aver volto
e voce e cuore e fiele e carne umana.

Chi poi riusciva tra i piu' crudi stenti
ad arrivare a terra ed a sfuggire
ai mastigofori delle galere
ridotto a fame e a preda, alla paura
ed alla schiavitu' veniva. Questo
in quel paese detto del tramonto
in quegli anni accadeva.

In quel paese in cui l'umanita'
vaniva in cieco carcere, in oscura
selva d'orrore, coro di fantasime.

6. LE PAROLE E LE COSE. CARLO FEDERICO QUARANTOTTI: RITI PAGANI ALLA TORRE
DI SETTENTRIONE DELLA CITTA' VECCHIA

La lama di ossidiana ostesa al sole
e al popolo in ginocchio, l'officiante
ministro proclamava che gradito
il sacrificio era agli alti dei
degli operai gia' morti nel cantiere
e il sacrificio ancora che verra'
della plebaglia etrusca che il veleno
inalera' negli anni che saranno.

7. EDITORIALE. MAO VALPIANA: MILITARI E MENDICANTI
[Ringraziamo Mao Valpiana (per contatti: mao at nonviolenti.org) per questo
intervento.
Mao (Massimo) Valpiana e' una delle figure piu' belle e autorevoli della
nonviolenza in Italia; e' nato nel 1955 a Verona dove vive ed opera come
assistente sociale e giornalista; fin da giovanissimo si e' impegnato nel
Movimento Nonviolento (si e' diplomato con una tesi su "La nonviolenza come
metodo innovativo di intervento nel sociale"), e' membro del comitato di
coordinamento nazionale del Movimento Nonviolento, responsabile della Casa
della nonviolenza di Verona e direttore della rivista mensile "Azione
Nonviolenta", fondata nel 1964 da Aldo Capitini. Obiettore di coscienza al
servizio e alle spese militari ha partecipato tra l'altro nel 1972 alla
campagna per il riconoscimento dell'obiezione di coscienza e alla fondazione
della Lega obiettori di coscienza (Loc), di cui e' stato segretario
nazionale; durante la prima guerra del Golfo ha partecipato ad un'azione
diretta nonviolenta per fermare un treno carico di armi (processato per
"blocco ferroviario", e' stato assolto); e' inoltre membro del consiglio
direttivo della Fondazione Alexander Langer, ha fatto parte del Consiglio
della War Resisters International e del Beoc (Ufficio Europeo dell'Obiezione
di Coscienza); e' stato anche tra i promotori del "Verona Forum" (comitato
di sostegno alle forze ed iniziative di pace nei Balcani) e della marcia per
la pace da Trieste a Belgrado nel 1991; nel giugno 2005 ha promosso il
digiuno di solidarieta' con Clementina Cantoni, la volontaria italiana
rapita in Afghanistan e poi liberata. Con Michele Boato e Maria G. Di Rienzo
ha promosso l'appello "Crisi politica. Cosa possiamo fare come donne e
uomini ecologisti e amici della nonviolenza?" da cui e' scaturita
l'assemblea di Bologna del 2 marzo 2008 e quindi il manifesto "Una rete di
donne e uomini per l'ecologia, il femminismo e la nonviolenza". Un suo
profilo autobiografico, scritto con grande gentilezza e generosita' su
nostra richiesta, e' nel n. 435 del 4 dicembre 2002 de "La nonviolenza e' in
cammino"; una sua ampia intervista e' nelle "Minime" n. 255 del 27 ottobre
2007]

La presenza dei 75 militari nel centro di Verona con funzione di ordine
pubblico (appiedati, accompagnati da polizia e carabinieri), e' insieme
tragica e ridicola.
Tragica per lo stravolgimento delle funzioni costituzionali; ridicola
perche' e' evidente che questo provvedimento e' del tutto inutile.  Eppure
tale operazione da sola immagine costera' a tutti noi 31,2 milioni di euro.
L'ordinamento istituzionale affida alla Polizia le funzioni di ordine
pubblico e sicurezza dello Stato, mentre alle Forze armate e' affidata la
difesa della Patria. Questi sono fondamenti costituzionali che non
dovrebbero essere ignorati con tanta disinvoltura, come invece hanno fatto i
ministri La Russa e Maroni.
Il sindaco Tosi ha caldeggiato l'arrivo dei militari in citta'. Ma per fare
cosa? Non possono girare con il mitra (ci mancherebbe altro...), non possono
perquisire, ne' arrestare, non sono addestrati a prevenire reati perche'
hanno ricevuto solo una formazione al combattimento (ma non e' questo il
loro ingaggio, almeno lo speriamo). Si limiteranno a passeggiare per le
strade, come potrebbe fare una qualsiasi "ronda" di padani (ma almeno loro
lo farebbero volontariamente, a costo zero, e senza la pretesa di
rappresentare la Repubblica).
I militari in citta' hanno una funzione esclusivamente estetica. Il sindaco
pensa che i veronesi, vedendo dei giovani in divisa mimetica girare per le
vie del centro, si sentiranno piu' sicuri. Ma e' solo un'illusione. La
realta' e' che le vere forze di polizia avranno una carico di lavoro
maggiore, dovendo anche prendersi cura di questi soldatini da passerella
mostrati all'opinione pubblica come fossero delle modelle. La conseguenza
psicologica che ne derivera' sara' quella di un'assuefazione alla
militarizzazione del territorio. Stupisce, ancora una volta, che il
Presidente della Repubblica (che e' anche il capo delle Forze armate) abbia
dato via libera a un'operazione che deborda macroscopicamente dalle funzioni
assegnate all'esercito (articoli 11 e 52 della Costituzione).
Negli stessi giorni dell'arrivo dei militari scattera' a Verona anche la
delibera antimendicanti. Non sara' piu' possibile chiedere l'elemosina
davanti alle chiese o agli angoli delle strade. E' facile immaginare che i
soldatini, addestrati alla Rambo ma obbligati all'inerzia, sceglieranno come
gustosa ed unica preda proprio gli accattoni. Pensate che bella scenetta: il
militare che brandisce l'arma corta ed intima allo storpio di sloggiare
subito... e il pubblico applaude!
Penosa deriva dopo duemila anni di cristianesimo. Gesu' guariva e miracolava
i mendicanti, li lasciava davanti al tempio mentre scacciava i mercanti;
oggi, nel nome della sicurezza e della padania cristiana, si usa l'esercito
contro chi chiede la carita' (che era una delle tre virtu' teologali, oggi
vietata per delibera di Giunta!). Mala tempora currunt...

8. LUTTI. ROBERTO SILVESTRI RICORDA YOUSSEF CHAHINE
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 29 luglio 2008 col titolo "Il destino di
Chahine. Il caos perfetto? E' la lotta di classe"]

Mi piaceva perche' suscitava entusiasmo nel pubblico, dal set e dal palco, e
perche' non e' mai stato un regista "di centro". Diceva infatti: "Ho fatto i
miei peggiori film non all'inizio della mia carriera, ma nel mezzo". E poi
perche' ci ha ipnotizzato con i suoi film seducenti a non farci mai
ipnotizzare da nessuno. Neanche dalla paura della morte.
Dopo un primo attacco cardiaco aveva gia' raccontato la sua (quasi) morte
nel film autobiografico La memoria, del 1982. Prefigurando come sarebbe
stato impossibile per chiunque, e anche nell'aldila', arrestare, tenere
ferma quella forza della natura swinging, espressiva e vitalissima, chiamata
Youssef Chahine. Un corpo danzante e canterino, una personalita' "a cuore
aperto", affamata di vita, amore, poesia e piaceri, che, come Jacques Demy o
Vincente Minnelli, era capace di trovare leggiadramente l'anello di
congiunzione tra coreografia e lotta di classe, divertimento e serieta',
coraggio e salto della morte. Basterebbe rivedere Silenzio... si gira
(2001), omaggio al musical classico hollywoodiano per comprendere come
l'"artista nasseriano tipico", la leggenda vivente degli arabi oppressi,
fosse proprio unico e imprendibile. Anche nell'insegnare come incastrare e
beffare la morte attraverso un labirinto complesso, quel caos, che restera'
eternamente affascinante, composto da piu' di una quarantina di
lungometraggi, d'ogni genere e specie, realizzati dal 1950, due anni prima
della cacciata di re Farouk, a oggi.
*
La rivoluzione interrotta
E che ci hanno raccontato la ricchezza e l'intollerabilita' della poverta',
il mondo operaio, le rivolte contadine, l'indipendenza tortuosa dal Regno
Unito, lo scandalo di Suez, l'appoggio popolare perenne a Nasser, tradito
dai suoi fedeli (Il passero, 1973), il doppio shock per il maschio arabo
dell'umiliazione militare (la guerra dei sei giorni) e politica (Saddam e
Camp David), le contraddizioni della borghesia egiziana, la sua schizofrenia
e follia, e quella "rivoluzione perennemente interrotta", senza rinchiudersi
mai nella nicchia del narratore d'elite. Anzi, dopo il fiasco commerciale
del suo primo capolavoro neorealista, Stazione Centrale (1958), Chahine
aveva voluto imporre una svolta ancora piu' popolare alla sua ricerca. E
l'avrebbe replicata anche nel 1985, realizzando un kolossal storico, Adieu
Bonaparte, che fece storcere il naso ai puristi del basso costo e anche al
suo amico Jean-Marie Straub, ma tendeva a frenare il crollo dell'industria
cinematografica locale. Era davvero speciale Chahine. E rispetto agli altri
grandi cineasti dei tre mondi, piu' vicino al fraseggio popolare di Atif
Guney e Sembene Ousmane che a quello, piu' difficile e oscuro, di Glauber
Rocha, Ritwik Ghatak o Satyajit Ray. Forse perche' era un poliglotta oltre
che un intellettuale transculturale drastico. Forse perche' proveniva da una
famiglia di minoranza cristiana. E non solo perche' aveva la sensibilita' di
Mahfuz (conosceva bene e amava piu' che altro i bassifondi, e sapeva parlare
ai proletari d'Egitto), ma anche perche' aveva avuto la fortuna di nascere
ad Alessandria d'Egitto, ed era involontariamente l'erede spirituale di quel
quartetto eccentrico, anche sessualmente, formato da Kostantinos Petrou
Kavafis, Lawrence Durrell, E. M. Forster e da quell'"anarchico" di Giuseppe
Ungaretti. Li' era nata anche l'industria del cinema egiziano. Grazie anche
ad altri immigrati italiani, come italiano, e ebreo in fuga da Mussolini,
oggi dimenticato da tutti, sara' il romano Togo Mizrahi, gigante del musical
sul Nilo, un maestro di Chahine.
*
Postmodern dal basso
Il motto del regista alessandrino era: "ogni giorno io mi aspetto di
piangere, ridere, ballare, cantare e... di finire in prigione. Ecco, un film
dovrebbe contenere tutte queste cose". Lo affermo' molto prima di Quentin
Tarantino, perche' il postmodern viene dal basso Egitto. Piacevano i suoi
melo' buffi, i suoi film storici trattati alla Fellini, i suoi musical sui
piani quinquennali, perfino all'Europa. Nel 1997 a Chahine fu assegnato il
premio del cinquantenario del festival di Cannes, ma aveva vinto il premio
speciale della giuria di Berlino, nel 1979, per Alessandria, perche'?.
Locarno gli dedico', durante la direzione di Marco Muller una sontuosa
retrospettiva. Ma i suoi film sono ancora pressoche' sconosciuti al grande
pubblico italiano, perfino dalla Rai prodiana, derubato di tutte le cose
belle da vedere, se non in orari televisivi da rapinatori.
Invece il medio Oriente e tutta l'Africa lo adorava. Quando saliva Chahine
sul palco del Colisee di Tunisi, il cuore del festival di Cartagine, dove
ogni due anni si celebra a ottobre il cinema panafricano e panarabo,
l'applauso diventava boato commuovente di uomini e di donne senza velo,
tutti in piedi esultanti. Youssef Chahine, osannato dai colleghi, dalle
maschere e dai proiezionisti della sala, prima ancora che dall'agiato
pubblico neodesturiano, non era solo il regista egiziano piu' cosmopolita,
libero e profondo, il filmaker radicale e illuminista corteggiato dai
maggiori festival del mondo, il fondatore e istigatore della nouvelle vague
maghrebina e mashrequina (l'occidente e l'oriente arabo), l'artista che
aveva sconvolto, dall'interno, gli stereotipi della Hollywood sul Nilo,
traghettandola dall'incantata perfezione glaciale dell'arabesque fino alla
responsabilita' spirituale, etica e politica delle immagini - certo,
religiosamente pericolose, ma solo per certe caste sacerdotali. Chahine era
quel che si chiama lo spirito libertario di quel mondo. E gli arabi e le
arabe solo per la superficialita' dei media occidentali, e per gli effetti
devastanti delle politiche della globalizzazione, sono istigati a essere
oscurantisti, retrogradi, medievali, dogmatici, maschilisti...
*
La sinistra nell'Islam
Il cineasta che piu' ha compreso lo slogan femminista "il personale e'
politico" ha ben rappresentato i sogni, le vittorie e i fallimenti di quelle
classi medie progressive del Medio Oriente che si sono sempre collocate
nell'ambito di una tradizione di sinistra, socialista o nazionalista. E'
parte di quella storia centenaria, gia' ottocentesca, di una sinistra che
vive nell'Islam pur essendo essenzialmente laica. E proprio negli anni '50
del secolo scorso, parallelamente al tentativo populista di Mossadeq in Iran
e all'utopia panaraba nasseriana era nelle moschee che si formavano i quadri
rivoluzionari, comunisti e della sinistra ancora piu' estrema, che avrebbero
fatto il Sessantotto in Medio Oriente e che poi furono sterminati con zelo
speciale da Usa, Europa, regimi dispotici e wahabiti sauditi riuniti
(distruttori doc dei tessuti sociali pericolosi) che riempirono d'oro le
casse dei reazionari fascistoidi "islamisti", dai Fratelli Musulmani a Al
Qaeda, per fargli fare lavori sporchi. Proprio sulla questione democratica,
e sulla separazione tra stato e chiesa, Chahine si e' battuto con piu'
forza, sia contro la "umma" che contro Hosni Mubarack (finendo anche in
galera e sfiorando una dura condanna per offesa alla religione dopo
l'anteprima shock del suo film L'emigrante, nel 1994), anche se non e' mai
mancata da parte sua la presa di distanza dai limiti dalla democrazia
americana (che conosceva bene, fin da studente del Pasadena Playhouse). La
pensava proprio come Toni Negri, quando scrive in Goodbye Mr Socialism: "dal
punto di vista della riproduzione delle elites, della distribuzione della
ricchezza e della qualita' della vita, ho molti dubbi che, nella situazione
attuale, possa essere presentata come un grande modello. Questo
evidentemente non significa che i regimi religiosi e le teocrazie siano meno
ributtanti".
Youssef Chahine, infatti, ha sempre messo nella giusta posizione la macchina
da presa, rispetto a una inquadratura da realizzare, a una costituzione
d'oggetto e di spazi da far muovere. La posizione preferita di una
inquadratura e' infatti troppo spesso inestetica, inclinata com'e' dalla
parte del potere e delle classi dominanti... Mettersi, invece, sempre dalla
parte del popolo che lotta per gli interessi di tutti, e non di una parte,
allarga il nostro spazio visuale e vitale. Per questo chi fabbrica immagini
e non parole d'ordine e' malvisto dai potenti e dai loro servi. Lui invece
scelse il punto di vista indipendente, cioe' parzialmente imparziale, dei
contadini contro i latifondisti che non mollano la loro rendita (La terra,
del 1969); dei palestinesi, anche contro l'Olp e Hamas fondamentalisti
(L'emigrato, 1994, ispirato alla vita del patriarca biblico Giosue'); delle
femministe e degli omosessuali contro lo sciovinismo maschilista di destra e
di sinistra (tutti i suoi film, a cominciare da Djamila l'algerina, 1958,
che e' gia' una riflessione critica sull'Fnl) e degli artisti perseguitati
in tutti gli stati arabi dalla censura, dalla burocrazia e dalle diavolerie
fondamentaliste (nel Destino del 1997 Chahine ricorda come il motorino
d'avviamento del processo illuminista in Occidente debba essere retrodatato
al medioevo islamico-andaluso, tra i filosofi come Averroe' che
rielaborarono nel XIII secolo la grande cultura greca utilizzandola come
clave contro i fondamentalismi religiosi, primi tra tutti quello
imperialista cristiano).
*
Un umorismo devastante
Youssef Chahine, il marxista alessandrino festivo, che ci spiego' come solo
chi e' cosmopolita e' patriota, perche' una comunita' e' sana se sa
confondersi con le altre, sapeva comunicare poi in modo speciale, per la sua
sincerita' e per il suo umorismo devastante, con il grande pubblico, e a
tutti i livelli, intellettuale, emozionale, sentimentale. In questo e' stato
un precursore della nuova sinistra, un rivoluzionario moderno, antidogmatico
e antifondamentalista. Perche' aveva messo al centro del suo processo
artistico se stesso, raccontava sempre in prima persona singolare maschile
(mai per conto di una fazione del partito unico o di una ideologia), perche'
era un perenne esploratore del mondo, macchina in soggettiva e via, proprio
come i suoi alter ego dello schermo (da quando, ex attore, preferi'
ritirarsi dietro la cinepresa) a cominciare dalla sua prima grande scoperta,
Omar Sharif (Guerra nella valle, 1953; Il demonio nel deserto, 1954; Acque
nere, '56), e poi Dalida, Chereau, Yousra. E questo anche prima del suo
"quartetto di Alessandria", iniziato nel 1978 con Alessandria... perche'?,
Proseguito ne La memoria (1982), e terminato con Alessandria ancora e per
sempre (1990) e Alessandria... New York (2004), e spiegato in termini
gramsciani puri: "Racconto di una Alessandria dove c'era una straordinaria
intelligenza di vivere tra differenti etnie e religioni. Come abbiamo potuto
perderla? Abbiamo vissuto questa intelligenza. A chi giovava distruggerla?
Chi e' che collabora a farci subire questa tragedia? Quali sono le classi
che dominano e quelle che dirigono?".
Erede della grande tradizione del realismo sociale dei Tafiq Salah e Salah
Abu Seif, nei suoi film, e anche nel colossal semiapologetico dedicato a
Gamal Abdel Nasser, Saladino (1963), Chahine metteva nei suoi film, piccoli
o colossali, quella grande perizia artigianale appresa negli studi fin da
quando aveva 24 anni.
E ha combattuto molto per i suoi principi rivoluzionari, cioe' di piena
democrazia, fino alla censura, al carcere, all'autoesilio (in Libano e in
Francia), alle incomprensioni (gli algerini del Palazzo odiarono Djamila, ma
gli finanziarono alcuni film invisi al Cairo), alla persecuzione, alle
minacce di morte. Perche', erede di una potente industria dello spettacolo,
con 70 anni di studio-system alle spalle, divi, cantanti, danzatrici del
ventre e caratteristi adorati, i generi, dal melo' al musical, dall'epico al
noir, di qualita' visuale e artigianale altissima, aveva saputo
reinterpretarla all'estrema sinistra e piegarla, ancor piu' modernamente di
Nasser, alla sensibilita' panafricana. Da Rabat a Damasco, da Citta' del
Capo a Ouagadougou, Chahine voleva dire l'amore per il cittadino arabo e
africano, fiero e degno di rispetto. Quello che il '68 aveva voluto
inventare.
Il "Sessantotto arabo", notava Michel Foucault che insegnava a Tunisi
proprio in quei frangenti, fu identico nello scandalo, nella potenza e
nell'entusiasmo delle donne, degli studenti e dei proletari che combatterono
per la loro soggettivita' desiderante e contro regimi autoritari, ma fu
molto piu' radicale, coraggioso e represso di quello europeo. Sul corpo del
neotrotskista Nouri Bouzid, futuro regista e uno dei piu' sensibili eredi di
Chahine, i torturatori di Burghiba lasciarono segni a tutt'oggi indelebili.
Ma segni ancora piu' indelebili li lasceranno i grandi cineasti della
nouvelle vague araba, i cento, mille allievi di Chahine, diretti come
Nasrallah, o indiretti come Khleifi, Mahmoud Ben Mahmoud, Malas, el Manouni,
che hanno imparato come terrorizzare il potere dispotico. Una piroetta, una
risata, un gioco di parole, una canzone, una tensione dionisiaca che
ammazzera' sul colpo, per lo scandalo, qualunque fanatico dei testi sacri.
*
Una postilla biografica. Quell'esistenza antidogmatica
Youssef Chahine e' morto a 82 anni, dopo essere stato per settimane in coma
a causa di una emorragia cerebrale. Nato nel 1926 ad Alessandria d'Egitto,
figlio di un avvocato siriano, di famiglia cristiana, Chahine dopo gli studi
di recitazione e regia a Los Angeles, torno' in patria per debuttare nella
regia nel 1950 con "Papa' Amin". Il 1954 e' l'anno di "Lotta nella valle"
(con Omar Sharif), contadini contro latifondisti. Seguirono poi "Stazione
centrale" e il biopic "Jamila", che fiancheggiava il movimento di
liberazione nazionale algerino. Nel 1978 vinse l'Orso d'Argento con
"Alessandria... Perche'?", primo capitolo di un quartetto, sviluppato nel
1982 e nel 1990, conclusosi nel 2004 ("Alessandria, New York"). Il 1997 e'
l'anno de "Il destino". A Cannes (dove era stato il primo cineasta egiziano
ad approdare, negli anni '50) venne insignito del premio alla carriera.
L'ultimo suo film, presentato al Lido, e' stato "Caos".

9. MEMORIA. GIULIO GIORELLO RICORDA LUDOVICO GEYMONAT
[Dal "Corriere della sera" del 12 maggio 2008 col titolo "Geymonat, la
scienza come pensiero" e il sommario "1908-2008. Cent'anni fa nasceva il
fondatore dell'epistemologia italiana. Fu antifascista e comunista. Supero'
lo steccato tra le due culture per un sapere rigoroso"]

Cio' che caratterizza la scienza come si e' venuta definendo da Galileo
Galilei in poi e' la consapevolezza che "la conquista della conoscenza e'
opera non del singolo uomo, ma della comunita' degli scienziati, i quali
costituiscono una societa' aperta di spiriti liberi, insofferente a ogni
controllo esterno". Cosi' Ludovico Geymonat nel 1979.
Aveva ben presente che le maggiori difficolta' per una filosofia che si
confrontasse seriamente con il patrimonio tecnico-scientifico stavano sia
nello specialismo dei ricercatori sia in una sorta di analfabetismo
scientifico di cui spesso si compiacevano in un misto di ignoranza e di
supponenza non pochi dotti pensatori italiani. Ovviamente, Ludovico amava la
cultura di quegli umanisti che sapevano capire come l'impresa scientifica
stesse cambiando radicalmente le nostre vite: scrittori come Carlo Emilio
Gadda, Italo Calvino o Primo Levi. Amava anche quegli scienziati che non si
erano accontentati di conquiste specifiche ma avevano osato cercare la
filosofia nelle pieghe delle singole discipline: illustri matematici come
Federigo Enriques e Bruno de Finetti o maestri della fisica come Enrico
Persico o, infine, biologi come Giuseppe Montalenti.
Non sopportava, invece, gli accademici che si trinceravano dietro una
qualche formula come la celebre battuta di Benedetto Croce per cui la
scienza non sarebbe altro che un "mero libro di cucina offerto agli uomini
perche' se ne valgano per produrre i tanti oggetti a loro utili nella vita".
Geymonat, che era ben lontano dal negare la rilevanza teorica della
tecnologia, considerava atteggiamenti del genere come una vera e propria
fuga dalle responsabilita', a cominciare da quelle politiche. Detestava
soprattutto "la timidezza di chi non osa affrontare direttamente i grandi
problemi o cerca mediazioni equivoche tra concezioni antitetiche", specie
quando diventava il tratto distintivo delle burocrazie di partito o dei
velleitarismi pseudorivoluzionari. Era disposto a pagare il prezzo di
qualsiasi "societa' aperta di spiriti liberi", accettando lo scontro piu'
duro purche' emergessero con la massima chiarezza le divergenze e fossero
analizzate con rigore spietato tutte le prove a favore e tutte le
difficolta' dei programmi in competizione.
A suo tempo Norberto Bobbio ha ricordato proprio sulle pagine di questo
giornale (2001) la forza, talvolta caparbia, con cui Ludovico difendeva le
sue idee, "sino a suscitare avversione da parte di persone meno concitate".
A mio parere, quell'impeto era non solo la manifestazione di una
"personalita' fiera", ma anche una componente ineliminabile della sua
"disperata sete di chiarezza". Per Ludovico il rinnovamento autentico della
cultura non esclude il conflitto, lo promuove: in fisica, che si tratti di
relativita' o di meccanica quantistica, come in politica, quando si cerchi
di modellare le istituzioni di una societa' libera e giusta. Antifascista
convinto e coerente, militante del Pci e poi dissidente, democratico
appassionato, amava ripetere: "Le idee sono pericolose, i fanatici di
qualsiasi totalitarismo lo sanno bene". Ed erano davvero pericolose la
cosmologia degli infiniti mondi di Giordano Bruno, arso in Campo dei Fiori,
o la nuova astronomia di Galileo Galilei, costretto all'abiura
dall'Inquisizione; ma anche la concezione evoluzionistica di Charles Darwin,
attaccata dai bigotti dell'Intelligent Design, per non dire della
"sovversiva" fisica di Albert Einstein, messa al bando dai nazisti, o della
genetica "borghese" umiliata dagli stalinisti.
Oggi appaiono tali i traguardi raggiunti dalle biotecnologie come le
insidiose concezioni della neurofisiologia che cominciano a gettare luce
sulle basi materiali della coscienza. Per Geymonat "pericoli" del genere
erano occasioni per sbarazzarsi di superstizioni e pregiudizi, intesi come
veri e propri ostacoli sia alla crescita della conoscenza sia a una completa
fioritura umana. Ostacoli prodotti talvolta dal vecchio senso comune che le
nuove audaci concezioni non cessano mai di sfidare. Diceva David Hume che
era bastato Galileo a insinuare il dubbio la' dove prima c'erano solo solide
certezze. Per Ludovico, quella rivoluzione non era ancora finita - e forse
era questa sorta di rivoluzione permanente l'unica che valesse la pena di
perseguire fino in fondo.

10. LETTURE. ROBERTO DULIO: INTRODUZIONE A BRUNO ZEVI
Roberto Dulio, Introduzione a Bruno Zevi, Laterza, Roma-Bari 2008, pp. X +
180, euro 12. Una bella monografia introduttiva su un indimenticabile
maestro.

11. RIEDIZIONI. MARIATERESA FUMAGALLI BEONIO BROCCHIERI: CRISTIANI IN ARMI
Mariateresa Fumagalli Beonio Brocchieri, Cristiani in armi. Da Sant'Agostino
a papa Wojtyla, Laterza, Roma-Bari 2006, 2007, pp. XIV + 212, euro 7,50. Una
lettura indispensabile.

12. STRUMENTI. EDIZIONI QUALEVITA: DISPONIBILE IL DIARIO SCOLASTICO
2008-2009 "A SCUOLA DI PACE"
[Dalle Edizioni Qualevita (per contatti: Edizioni Qualevita, via
Michelangelo 2, 67030 Torre dei Nolfi (Aq), tel. 0864460006 oppure
3495843946, e-mail: info at qualevita.it oppure qualevita3 at tele2.it, sito:
www.qualevita.it) riceviamo e diffondiamo]

E' pronto il diario scolastico 2008-2009 "A scuola di pace".
Se ogni mattina, quando i nostri ragazzi entrano in classe con i loro
insegnanti e compagni, potessero avere la percezione che, oltre che andare a
scuola di matematica, di italiano, di musica, di lingua straniera, vanno "a
scuola di pace", certamente la loro giornata diventerebbe piu' colorata,
piu' ricca, piu' appassionante, piu' felice.
Queste pagine di diario sono state pensate per fornire una pista leggera ma
precisa sulle vie della pace. Abbiamo sparso dei semi. Spetta a chi usa
queste pagine curarli, annaffiarli, aiutarli a nascere, crescere e poi
fruttificare. Tutti i giorni. Non bisogna stancarsi ne' spaventarsi di
fronte all'impegno di costruire una societa' piu' umana, in cui anche noi
vivremo sicuramente meglio.
Lo impariamo - giorno dopo giorno - a scuola di pace.
Preghiamo chi fosse intenzionato a mettere nelle mani dei propri figli,
nipoti, amici, questo strumento di pace che li accompagnera' lungo tutto
l'anno scolastico, di farne richiesta al piu' presto. Provvederemo entro
brevissimo tempo a spedire al vostro indirizzo le copie del diario. Grazie.
I prezzi sono uguali a quelli dell'agenda "Giorni nonviolenti" perche', a
fronte di un numero inferiore di pagine, trattandosi di ragazzi, la stampa
dovra' essere piu' rispondente alla loro sensibilita' (verranno usati i
colori) e pertanto piu' costosa.
Per ordini del diario scolastico 2008-2009:
- 1 copia: euro 10 (comprese spese di spedizione)
- 3 copie: euro 9,30 cad. (comprese spese di spedizione)
- 5 copie: euro 8,60 cad. (comprese spese di spedizione)
- 10 copie: euro 8,10 cad. (comprese spese di spedizione)
- Per ordini oltre le 10 copie il prezzo e' di euro 8: costo dovuto al fatto
che quest'anno ci limitiamo ad effettuarne una tiratura limitata.
Per informazioni e ordinazioni: Edizioni Qualevita, via Michelangelo 2,
67030 Torre dei Nolfi (Aq), tel. 0864460006 oppure 3495843946, e-mail:
info at qualevita.it, sito: www.qualevita.it

13. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.

14. PER SAPERNE DI PIU'
* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per
contatti: azionenonviolenta at sis.it
* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia:
www.miritalia.org; per contatti: mir at peacelink.it, luciano.benini at tin.it,
sudest at iol.it, paolocand at libero.it
* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per
contatti: info at peacelink.it

NOTIZIE MINIME DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO
Numero 533 del 31 luglio 2008

Notizie minime della nonviolenza in cammino proposte dal Centro di ricerca
per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

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