Nonviolenza. Femminile plurale. 188



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NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE
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Supplemento settimanale del giovedi' de "La nonviolenza e' in cammino"
Numero 188 del 5 giugno 2008

In questo numero:
1. Anna Simone: Judith Butler a Parigi
2. Rete nazionale femminista e lesbica: Una lettera aperta alla Ministra per
le pari opportunita'
3. Igiaba Scego presenta "Umalali"
4. Manuela Camponovo intervista Luciana Tufani (2003)

1. RIFLESSIONE. ANNA SIMONE: JUDITH BUTLER A PARIGI
[Dal quotidiano "Liberazione" del 29 febbraio 2008 col titolo "Judith
Butler: Piu' laicita'? Diventiamo piu' queer" e il sommario "La teorica
femminista e lesbica, tra le maggiori allieve di Foucault, interviene da
Parigi e dice ai movimenti antiautoritari come non cadere nella rete
dell'omologazione: rinuncia delle identita' e fine della contrapposizione
tra occidente e oriente".
Anna Simone (Altamura, 1971), ricercatrice nell'ambito delle scienze umane,
saggista; collabora con l'Istituto di sociologia del dipartimento di Scienze
storiche e sociali dell'Universita' di Bari. Opere di Anna Simone: L'oltre e
l'altro, Besa, Lecce 2000; Divenire sans papier. Sociologia dei dissensi
metropolitani, Mimesis, Milano 2002.
Judith Butler, pensatrice femminista americana, nata nel 1956, insegna
attualmente retorica e letteratura comparata all'Universita' di Berkeley,
California; e' figura di primo piano del dibattito contemporaneo su
sessualita', potere e identita'; le sue ricerche rappresentano uno dei
contributi piu' originali all'interno dei cultural studies e della queer
theory. Dal quotidiano "Il manifesto" del 24 marzo 2003 riprendiamo questa
presentazione di Judith Butler scritta da Ida Dominijanni: "Judith Butler e'
una delle massime figure di spicco nel panorama internazionale della teoria
femminista. Docente di filosofia politica all'universita' di Berkeley in
California, ha pubblicato nell'87 il suo primo libro (Subjects of Desire) e
nel '90 il secondo, Gender Trouble, testo tuttora di culto nei campus
americani, cruciale per la messa a fuoco delle categorie del sesso, del
genere e dell'identita'. Del '93 e' Bodies that matter (Corpi che contano,
Feltrinelli, Milano 1995), del '97 The Psychic Life of Power. Filosofa di
talento e di solida formazione classica, Butler appartiene a quello stile di
pensiero post-strutturalista che intreccia la filosofia politica con la
psicoanalisi, la linguistica, la critica testuale; e a quella generazione
del femminismo americano costitutivamente attraversata e tormentata dalle
differenze sociali, etniche e sessuali fra donne e dalla frammentazione
dell'identita' che ne consegue. Decostruzione dell'identita', analisi del
corpo fra materialita' e linguaggio, critica della norma eterosessuale e dei
dispositivi di inclusione/esclusione che essa comporta, critica del potere e
del biopotere sono gli assi principali del suo lavoro, che sul piano
politico sfocia in una strategia di radicalita' democratica basata sulla
destabilizzazione e lo shifting delle identita'. Fin da subito attenta ai
nefasti effetti dell'11 settembre e della reazione antiterrorista sulla
democrazia americana, Butler e' fra gli intellettuali americani maggiormente
imegnati nel movimento no-war. 'La rivista del manifesto' ha pubblicato sul
n. 35 dello scorso gennaio il suo Modello Guantanamo, un atto d'accusa del
passaggio di sovranita' che negli Stati Uniti si va producendo all'ombra
dell'emergenza antiterrorista: fine della divisione dei poteri, progressivo
svincolamento del potere politico dalla soggezione alla legge, crollo dello
stato di diritto con le relative conseguenze sul piano del diritto penale
(demolizione delle garanzie processuali) e del diritto internazionale
(violazione di trattati e convenzioni). A dimostrazione di come la guerra in
nome della liberta' e la soppressione delle liberta' si saldino in un'unica
offensiva di abiezione dei 'corpi che non contano', per le strade di Baghdad
e nelle gabbie di Guantanamo". Opere di Judith Butler disponibili in
italiano: Corpi che contano, Feltrinelli, Milano 1995; La rivendicazione di
Antigone, Bollati Boringhieri, Torino 2003; Vite precarie. Contro l'uso
della violenza in risposta al lutto collettivo, Meltemi, Roma 2004; Scambi
di genere. Identita', sesso e desiderio, Sansoni, Firenze 2004; Critica
della violenza etica, Feltrinelli, Milano 2006. Da "Alias" del 7 ottobre
2006 riprendiamo anche la seguente scheda: "Di Judith Butler, filosofa
californiana fra le piu' amate e discusse del panorama femminista
internazionale, sono disponibili in italiano Scambi di genere (Sansoni 2004,
opinabile traduzione di Gender Trouble, il libro del 1990 che l'ha resa
famosa, consacrandola come teorica queer), Corpi che contano (Feltrinelli
1996), La rivendicazione di Antigone (Bollati Borighieri 2003), Vite
precarie (Meltemi 2003), La vita psichica del potere (Meltemi 2005). Critica
della violenza etica testimonia la piu' recente curvatura del percorso di
Butler, che la porta ben oltre il dirompente inizio di Gender Truble, come
lei stessa argomenta in Undoing Gender (Routledge 2004) di prossima uscita
(Meltemi): la sua ricezione italiana, troppo legata alla sua immagine di
partenza, dovrebbe giovarsene. Per un confronto fra posizioni diverse
all'interno di una comune matrice femminista poststrutturalista, cfr. Il
resoconto di un recente incontro in Polonia fra Butler e Rosi Braidotti in
www.metamute.org". Dal sito della Libreria delle donne di Milano riprendiamo
la seguente recentissima scheda: "Judith Butler e' Maxine Elliot Professor
nel Dipartimento di Retorica e Letterature comparate all'Universita' della
California di Berkeley. Ha insegnato in precedenza a Princeton e tiene
frequentemente corsi e conferenze a Parigi e Francoforte. Di formazione
post-strutturalista, e' una figura-ponte fra la filosofia europea
continentale e la filosofia e le scienze umane nordamericane: fra gli autori
piu' ricorrenti nei suoi scritti: Hegel, Nietzsche, Foucault, Derrida,
Freud, Lacan, De Beauvoir, Irigaray, J. L. Austin. Nota in tutto il mondo
per il contributo decisivo che ha dato al pensiero femminista con la teoria
della performativita' del genere (Gender Trouble, 1990), lavora al confine
fra filosofia politica, psicoanalisi e etica. Muovendo, fin dai primi libri,
dalla teoria della sessualita', dalla critica della nozione di identita' e
dal rapporto fra costituzione della soggettivita', desiderio e norme, negli
scritti piu' recenti si interroga sullo statuto dell'umano e delinea una
"ontologia della fragilita'" in risposta alla crisi del soggetto sovrano e
della sovranita' statuale. Per Gender Trouble, tradotto in venti lingue, e'
stata annoverata dal magazine britannico "The Face" fra le cinquanta
personalita' di maggiore influenza sulla cultura popolare negli anni
Novanta. Con Precarious Life si e' affermata come una delle piu' impegnate
voci critiche del pensiero politico americano del dopo 11 settembre.
Attualmente sta lavorando sulla critica della violenza di stato nel pensiero
ebraico pre-sionista. Quasi tutta la sua opera e' disponibile in italiano e
la sua visita a Roma coincide con la traduzione italiana del suo primo
libro, Subjects of Desires, e dell'ultimo, Who Sings the Nation State?,
scritto con Gayatri Chakravorty Spivak. Opere di Judith Butler: Subjects of
Desire: Hegelian Reflections in Twentieth-Century France, Columbia
University Press, New York 1987 (di prossima traduzione presso Laterza);
Gender Trouble. Feminism and the Subversion of Identity, Routledge, London
1990 (trad. it. Scambi di genere. Identita', sesso e desiderio, Sansoni,
Milano 2004); Bodies that Matter. On the Discoursive Limits of "Sex",
Routledge, London 1993 (trad. it. Corpi che contano. I limiti discorsivi del
"sesso", Feltrinelli, Milano 1996); Exitable Speech: A Politics of the
Performative, Routledge, London-New York 1997; The Psychic Life of Power:
Theories in Subjection, Stanford University Press, Stanford 1997 (trad. it.
La vita psichica del potere, Meltemi, Roma 2005); Antigone's Claim. Kinship
between Life and Death, Columbia University Press, New York 2000 (trad. it.
La rivendicazione di Antigone. La parentela fra la vita e la morte, Bollati
Boringhieri, Torino 2003); Precarious Life. The Power of Mourning and
Violence, Verso, London 2004 (trad. it. Vite precarie. Contro l'uso della
violenza in risposta al lutto collettivo, Meltemi, Roma 2004); Undoing
Gender, Routledge, London-New York 2004 (trad. it. La disfatta del genere,
Meltemi, Roma 2006); Giving an Account of Oneself, Fordham University Press,
New York 2005 (trad. it. Critica della violenza etica, Feltrinelli, Milano
2006)"]

Parigi. Dinanzi alla politica di Sarkozy centrata sull'identita' nazionale e
sulla moltiplicazione delle iniziative ministeriali tese alla valorizzazione
delle religioni, il quotidiano "Liberation" titola: "Et la laicite', nom de
Dieu!", dichiarando tutto il suo sostegno all'appello lanciato dagli
insegnanti francesi per salvaguardare la laicita' della Repubblica. Un
appello che, tra l'altro, ha gia' raccolto piu' di centomila firme.
Ma che vuol dire laicita' repubblicana? E' sufficiente contrapporla all'idea
di uno stato confessionale o pluriconfessionale per capire le matrici del
razzismo, del sessismo o dell'omofobia? In un mondo ormai globale come il
nostro ha senso contrapporre una delle identita' statuali piu' laiche della
storia occidentale, come quella francese, all'idea sarkozyana di
un'identita' che, anziche' passare attraverso i valori dell'eguaglianza,
della fratellanza e della liberta', passa attraverso la valorizzazione delle
religioni? E se provassimo a spostare l'asse della contrapposizione sugli
effetti perversi che contiene il concetto stesso di identita'? Oggi il
problema della composizione sociale della societa' francese, ma anche di
tutte le altre societa' occidentali, non e' "quale identita'" assumere, ma
l'idea stessa di "identita'" nella misura in cui quest'ultima si traduce in
rapporti di forza assunti come dispositivi attraverso cui consolidare vecchi
e nuovi poteri. Che rapporto intercorre tra neoliberalismo, democrazia,
liberta' e movimenti sociali? Come contrastare il progetto di
disumanizzazione dell'umanita' delle politiche globali contemporanee viste
ad Abu Ghraib o a Guantanamo? A queste e ad altre domande cerca di
rispondere Judith Butler attraverso un ciclo di seminari organizzati a
Parigi da Eric Fassin dell'Ecole normale superieure e da Rose-Marie Lagrave
dell'Ecole des hautes etudes dal titolo piuttosto esplicativo: "La politica
al di la' dell'identita'. La sessualita', la secolarizzazione e le
soggettivita' dei movimenti sociali".
Dopo aver discusso i limiti normativi dell'ideologia multiculturale, la
disumanizzazione dell'umano esplicitata attraverso l'uso della tortura ad
Abu Ghraib, Judith Butler si e' soffermata su un tema piuttosto complesso e
cioe' sul rapporto che intercorre tra minoranze sessuali e minoranze
religiose (ebraiche e musulmane) presenti in occidente, nonche' su come la
produzione dei "discorsi" dell'occidente tende a contrapporre entrambe le
minoranze strumentalizzandole nell'ottica di fomentare una contrapposizione,
sempre piu' feroce, tra laici repubblicani e religiosi.
Per minoranza si possono intendere piu' cose, a dire il vero mai del tutto
chiare nei testi e nelle conferenze tenute da Butler. C'e' l'idea di
"minoranza" intesa foucaultianamente come lotta ai dispositivi della norma e
della "condotta delle condotte", che a partire dal '68 ha saputo incarnarsi
nei movimenti femministi, gay, queer, dell'antipsichiatria (in poche parole
in tutti i movimenti antiautoritari) mostrando come la "lotta di classe" non
puo' essere l'unico orizzonte di riferimento, pena costruire una
soggettivita' rivoluzionaria monologica, astratta e tendenzialmente
conservatrice sul piano delle condotte, e l'idea di "minoranza" legata ai
cosiddetti post-hegeliani o post-francofortesi. Questi ultimi, Honneth in
primis, tendono infatti a fare della minoranza un progetto politico
identitario che tende al "riconoscimento" pubblico sulla scia della famosa
metafora del servo che vuole diventare padrone. In poche parole mentre
l'idea di minoranza diviene in Foucault una pratica di resistenza che si
sottrae alla logica della contrapposizione dialettica e dualistica fondata
su basi identitarie, per i post-francofortesi avviene l'esatto contrario: le
minoranze devono rivendicare un riconoscimento per entrare come gli altri
all'interno dello spazio pubblico.
Se nei testi di Butler appare poco chiara la sua propensione per l'una o
l'altra teoria, nella conferenza sembra essersi delineata una propensione
maggiore verso l'impianto di Michel Foucault. Piu' che parlare delle
minoranze religiose - intendendo con esse solo cio' che eccede la norma
occidentale e cioe' l'Islam - e delle minoranze sessuali, lei ha cercato di
rovesciare il problema ponendosi in primis la seguente domanda: a partire da
queste soggettivita' solitamente considerate "anormali" come possiamo
pensare oggi la liberta' e la democrazia radicale? Solitamente quando si
pensa la politica in relazione alle rivendicazioni delle minoranze si pensa
anche al progetto riformista che dovrebbe elargire nuovi diritti a gruppi
specifici di persone, mentre quando si pensa alla liberta' sessuale delle
donne, dei gay, delle lesbiche etc. si pensa sempre alla modernita' e
all'illuminismo da contrapporre all'Islam, che cosi' appare sempre come
l'Altro assoluto tendenzialmente barbaro e premoderno. Butler si chiede: il
discorso dell'occidente, nel momento in cui comincia a stabilire chi sono i
migranti accettabili e chi no, nel momento in cui si pone nell'ottica della
risoluzione di problemi come quello dei simboli religiosi o
dell'infibulazione non finisce con il costruire sempre dei processi di
normalizzazione delle condotte altrui sulla base di norme culturali prima
decise per se' e poi imposte al resto dell'universo? Inoltre la
normalizzazione delle differenze culturali, nel momento in cui diventa la
pre-condizione della cittadinanza, non finisce con l'essere paradossale? Il
principio del paradosso e' chiaro: concedere la cittadinanza e i diritti ad
essa connessi, tra cui il diritto alla liberta', a condizione che la tua
condotta diventi come la mia. Inoltre la liberta' si puo' decidere a priori
o, invece, va compresa a partire dai singoli "posizionamenti" incarnati? E'
evidente che Butler propende per un'idea di liberta' "posizionata" anche
perche' e' un dato oggettivo delle societa' contemporanee quello secondo cui
qualsivoglia progetto di integrazione o di pluralismo culturale si traduce
irrimediabilmente in un progetto di assimilazione coercitiva.
Altro problema. Solitamente l'eurocentrismo di certo femminismo e delle
politiche statuali o europee che dir si voglia tende a sostenere la tesi
secondo cui le lotte dei movimenti lgbtq vanno lette in un'ottica
anti-islamica. Errore grossolano, ci dice Judith Butler. Queste lotte non
sono anti-islamiche perche' assai simili alle lotte del femminismo
contemporaneo e dei movimenti lgbtq rispetto al punto di partenza: agire
affinche' vengano decostruite le matrici del potere di normalizzazione delle
condotte avendo, tra l'altro, come nemico comune proprio i dispositivi di
sicurezza e quell'idea di liberta' compassionevole elargita dal
neoliberalismo. Quest'ultimo non lavora nell'ottica dell'accesso alle
liberta' individuali ma tende, invece, a controllare e a produrre eccedenze
e scarti da punire o da normalizzare nel momento in cui gli si rivoltano
contro o si sottraggono, resistendo, ai suoi diktat. Non c'e' nesso alcuno
cioe' tra neoliberalismo e liberta'. Anzi. Tanto e' vero che l'universalismo
della misoginia sembra essere del tutto innervato all'interno di questo
progetto su scala globale. Ma il liberalismo, si sa, non e' solo di destra.
Al liberalismo de gauche, politically correct rispetto al multiculturalismo,
ai movimenti lgbtq, al femminismo etc., Judith Butler consiglia di
riguardare le modalita' attraverso cui si costruiscono i "discorsi" che, a
loro volta, "producono" i soggetti. Modalita' sempre dettate da un'idea di
emancipazione intesa come civilizzazione delle abitudini altrui, come se le
proprie lo fossero sempre state o lo siano oggi. La storia coloniale
dell'occidente ne e' l'esempio piu' paradigmatico.
Anche quando ci interroghiamo sulla violenza partendo dal presupposto
secondo cui l'Islam e' sempre piu' violento dei nostri discorsi sbagliamo.
La domanda va in questo caso posta in modo differente e a tutto tondo: in
nome di chi e di cosa produciamo violenza? E allora che fare? Judith Butler
suggerisce due ipotesi, una vecchia e una nuova. Ritorna sul concetto di
"agency" intendendo con cio' una pratica politica di resistenza al progetto
neoliberista che, contemporaneamente, ci mette su un piano di
soggettivazione e di azione in grado di costruire un progetto globale di
democrazia radicale al di la' degli Stati nazionali e al di la' di certo
marxismo autistico nei confronti delle pratiche di resistenza di altre
soggettivita' come, per esempio, il femminismo (si veda anche a tal
proposito un bellissimo pamphlet scritto insieme a Gayatri Spivak appena
tradotto in Francia, L'Etat global, Payot, pp. 108, euro 12). E un'ipotesi
nuova. La costruzione da parte dei movimenti di contestazione della norma e
di controcondotta di una nuova idea di liberta' "posizionata" in grado di
criticare tutte le forme di strumentalizzazione per fini astratti e
bellicisti della stessa idea di liberta', cosi' come ci viene propinata a
partire dall'illuminismo, passando per il repubblicanesimo sino al
neoliberalismo.
La conferenza finisce e comincia il dibattito. Una giovane studente
interviene e dice: d'accordo, pero' come facciamo per "aiutare" le donne
islamiche a togliersi il velo o a non praticare l'infibulazione? Judith
Butler sorride e risponde: noi non dobbiamo "aiutare" le donne islamiche, ma
dobbiamo lavorare affinche' il femminismo diventi un progetto transnazionale
in grado di decostruire la presunta superiorita' della donna bianca.
Impossibile darle torto.

2. DOCUMENTI. RETE NAZIONALE FEMMINISTA E LESBICA: UNA LETTERA APERA ALLA
MINISTRA PER LE PARI OPPORTUNITA'
[Dal sito della Libera universita' delle donne di Milano
(www.universitadelledonne.it) riprendiamo la seguente lettera aperta della
Rete nazionale femminista e lesbica alla ministra delle pari opportunita']

Egregia Ministra Carfagna,
abbiamo letto con attenzione la Sua "lettera al direttore" del quotidiano
"La Repubblica" nella quale descriveva le Sue considerazioni sulla questione
della violenza alle donne.
Di queste considerazioni non condividiamo quasi nulla. Il contenuto della
lettera ci ha invece indotto a scriverLe per introdurLa ad una differente
lettura dei dati statistici sulle violenze contro le donne che certamente Le
sono noti.
Una lettura che trova d'accordo le 150.000 donne, femministe e lesbiche che
hanno partecipato al corteo contro la violenza maschile dello scorso 24
novembre.
La causa delle violenze degli uomini non risiede nella presunta fragilita'
delle donne e di sicuro non va ricercata nel minore interesse a realizzare
"la famiglia, quale cellula primaria della societa' italiana".
Noi sappiamo che la famiglia e' effettivamente il luogo all'interno del
quale si realizzano le piu' atroci violenze.
Sembra invece piu' credibile quanto Lei afferma circa il fatto che la
famiglia, in quanto "ammortizzatore sociale" necessiterebbe di tutela.
E' infatti noto che il welfare italiano chiede alla famiglia di supplire
alle carenze di uno Stato che non provvede alla risoluzione della
precarieta' di tante persone non in grado di emanciparsi dal bisogno ed
essere autosufficienti.
Il fatto che la famiglia sia eletta ufficialmente al ruolo di
"ammortizzatore sociale" ci rende molto chiaro quale sia il ruolo che viene
attribuito alle donne in un contesto che richiede surrogati di servizi,
figure palliative obbligate ad assolvere ai ruoli di cura che altrimenti
nessuno svolgerebbe.
Sappiamo che le scelte economiche del nostro paese in relazione al lavoro
hanno come immediata conseguenza quella di riportare a casa le donne
obbligandole ad una dipendenza che di sicuro non le aiuta a sottrarsi a
situazioni di violenza. Invece crediamo che la famiglia, qualunque essa sia
e da chiunque sia composta, debba essere una "scelta" e non un obbligo. Di
sicuro non riteniamo che la famiglia sia "un luogo di realizzazione".
Lei non puo' negare che la famiglia sia il luogo per eccellenza, a parte
poche eccezioni, in cui le donne subiscono violenze. Cio' e' possibile per
una distorsione di quella stessa cultura della quale Lei si fa portatrice.
Promuovere una politica familista all'interno della quale e' ammesso un
unico modello di sessualita' - secondo quanto da millenni qui in Occidente
la Chiesa cattolica impone, e altrove analogamente fanno altre religioni -
e' il modo migliore per legittimare una mentalita' discriminatoria e
sessista di per se' veicolo di violenza.
E' poi estremamente pericoloso che Lei assegni alle separazioni, ai divorzi
e all'affidamento dei figli e delle figlie la causa delle tensioni che
determinano gravissime tragedie all'interno dei nuclei familiari.
Una simile considerazione non tiene conto dei dati storici che dimostrano
proprio che la maggior parte delle violenze da ex coniugi avviene in
occasione degli incontri tra padre e madre per lo scambio del figlio. Stiamo
parlando di quei tanti casi in cui l'affido condiviso e' stato concesso
nonostante la presenza di denunce per violenze e maltrattamenti nei
confronti del coniuge e si permette cosi' all'ex di avere l'opportunita' di
continuare a fare del male a moglie e figlio.
Lei evidentemente non sa che se e' vero che l'umore degli uomini violenti si
appesantisce in presenza di fattori di stress e' anche vero che questi non
derivano di sicuro soltanto dalle separazioni e dagli affidi di figli e
figlie. Ha Lei forse intenzione di semplificare la vita di queste persone in
ogni aspetto?
Gli uomini non picchiano perche' fremono dal desiderio di vedersi affidato
il figlio dopo una separazione. Sapra' certamente che il padre troppo spesso
non versa gli alimenti ne' adempie al proprio ruolo di genitore nonostante
vi sia ampia disponibilita' da parte delle madri.
Capita anzi che i bambini e le bambine vengano uccisi assieme alle loro
mamme proprio da quei padri che intendono l'intera famiglia quale
proprieta'. Ed e' questo l'aspetto fondamentale sul quale la cultura non
interviene: il possesso.
Non sono passati molti anni da quando e' stata eliminata la figura del
capofamiglia. Non e' trascorso molto tempo neppure dal momento in cui il
padre e' stato privato dello ius corrigendi, il diritto di correzione di
ogni membro della famiglia.
E' di quella modalita' che stiamo parlando, prima legalizzata e ora
culturalmente legittimata.
Bisogna intervenire sulla cultura. Bisogna impedire che vi sia una
attribuzione di ruoli alle donne che devono poter autodeterminare le proprie
esistenze. Ed e' a questo punto che siamo obbligate a ricordarLe che e' Lei
per prima a dare un messaggio distorto sul ruolo e le funzioni delle donne.
Siamo certe che e' in grado di capire che sostenere la Sua posizione
contraria all'interruzione di gravidanza equivale a dire che le donne non
possiedono il proprio corpo e non hanno il diritto di autodeterminarsi.
Delegittimare le donne nelle proprie scelte rafforza quella visione che le
immagina bisognose di tutori che decidano per loro quasi non fossero in
grado di intendere e volere.
Il messaggio che Lei trasmette e' che le uniche donne che non meritano di
essere picchiate o, peggio, uccise, sono quelle che si dedicano alla
famiglia come luogo primario di realizzazione e che accettano supinamente di
fare dei figli. Secondo questi parametri e' facile che gli uomini si sentano
in diritto di dover esercitare su di noi una sorta di controllo sociale,
come fossero aguzzini che ci tengono a bada mentre adempiamo ai nostri
ruoli, o che si sentano autorizzati a dover reintrodurre il loro sistema di
correzione per insegnarci ad essere ben educate, protese alla cura delle
esigenze familiari e mai in contraddizione con i ruoli che proprio questa
cultura patriarcale ci assegna.
Bisogna anche intervenire praticamente, siamo d'accordo, ma non nel modo che
intende Lei. Di sicuro non ci sembra un gran segno di "concretezza" il fatto
che il governo tagli il fondo di 20 milioni di euro per la prevenzione e il
sostegno alle vittime della violenza sessuale. Anzi questo ci dimostra che
avevamo ragione: il governo usa i nostri corpi per legittimare la propria
politica razzista e poi ci sottrae fondi indispensabili per attuare una
politica contro la violenza.
Ecco invece quanto noi intendiamo per "concretezza":
1. E' necessario puntare su una politica che rafforzi le possibilita' di
autodeterminazione delle donne. Non serve un sistema di leggi che rafforzino
il modello securitario. Dentro le nostre case serve che noi siamo in grado
di difenderci, di individuare i pericoli per prevenirli, di avere luoghi ai
quali poter fare riferimento per andare via prima che si possano verificare
mille tragedie, di avere diritto ad una abitazione e ad un lavoro che ci
permettano di vivere autonomamente senza dover restare piegate alla
dipendenza economica dai mariti.
2. Abbiamo bisogno che i centri antiviolenza non dipendano dagli umori degli
amministratori locali ma che vengano stanziati fondi nazionali che ne
garantiscano l'operativita'.
3. Abbiamo bisogno di interventi strutturali che stabiliscano delle
priorita' difficili, certamente non plateali come l'adozione di eserciti o
centinaia di poliziotti che in ogni caso non saranno mai in grado ne'
avranno mai il diritto di pattugliare le nostre case.
4. Abbiamo bisogno che i genitori non siano prescrittivi nei confronti delle
preferenze sessuali delle proprie figlie e dei propri figli. Non ci deve
essere nessun genitore autorizzato ad accoltellare una figlia perche' e'
lesbica.
Il suo obiettivo come Ministro per le pari opportunita' e' garantire che le
opportunita' siano veramente "pari" per tutte le donne.
Le azioni del Ministero delle pari opportunita' devono essere improntate a
riconoscere e promuovere le nostre reali necessita'.
Sia garante della concreta promozione dei diritti umani delle donne, primo
tra tutti il diritto ad una vita libera dalla violenza, il diritto alla
scelta su cosa fare della nostra vita e dei nostri corpi, cosi' come voluto
dalle principali convenzioni internazionali.
Cordiali saluti
Rete nazionale femminista e lesbica

3. MUSICA. IGIABA SCEGO PRESENTA "UMALALI"
[Dal quotidiano "Il manifesto" del primo giugno 2008, col titolo "Umalali,
il ritmo e' donna" e il sommario "Nei segreti del popolo garifuna. Un disco
che travalica l'aspetto musicale e si mette sulle tracce di una cultura
orale fatta di sangue e speranza. Cinquanta le voci femminili coinvolte nel
progetto".
Igiaba Scego, "somala di origine, italiana per vocazione", figlia di Ali
Omar Scego, ex-ministro degli esteri somalo, e' nata a Roma nel 1974, dopo
che i suoi genitori si sono rifugiati in Italia, fuggendo del colpo di stato
di Siad Barre. Laureata in letterature straniere presso la Sapienza di Roma,
divide il suo tempo fra la scrittura e la ricerca (dottorato in pedagogia
all'Universita' Roma Tre). Le sue opere, come proprio la sua stessa
identita', sono sempre in equilibrio sullo sfumato confine tra le sue due
culture, quella materna e quella adottiva, che le permettono di guardare
tutte e due dalla distanza e dalla vicinanza allo stesso tempo. Nel 2003
vince il premio Eks&Tra di scrittori migranti con il suo racconto
'Salsiccia' e pubblica il suo romanzo di esordio. Opere di Igiaba Scego: La
nomade che amava Alfred Hitchcock, Sinnos, 2003; Rhoda, Sinnos, 2004; (con
Gabriela Kuruvilla, Ingy Mubiayi), Pecore nere. Racconti. Laterza, 2005. Da
"Il manifesto" del 29 luglio 2007 riprendiamo la seguente breve scheda:
"Alla diaspora somala appartiene anche Igiaba Scego, nata a Roma nel 1974,
dopo che i suoi genitori si erano rifugiati in Italia, in seguito al colpo
di stato di Siad Barre. Dopo avere vinto nel 2003 il premio letterario
Eks&Tra dedicato agli scrittori migranti con il racconto 'Salsiccia', ha
pubblicato con l'editore romano Sinnos il suo romanzo di esordio, La nomade
che amava Alfred Hitchcock, seguito da Rhoda per la stessa casa editrice. Il
suo terzo romanzo uscira' all'inizio del 2008 per Donzelli. Sui temi
dell'immigrazione collabora a diverse testate, fra cui 'Nigrizia',
'Latinoamerica' e 'Carta'"]

Umalali in lingua garifuna significa voce. Umalali e' anche il nuovo
progetto discografico (targato Cumbancha e Stonetree records), tutto al
femminile, di storie e suoni della cultura garifuna. Il progetto segue il
grande exploit dell'album Watina di Andy Palacio, morto il 19 gennaio scorso
a soli 47 anni. Vincitore del prestigioso Womex Award 2007 e del Bbc Radio 3
Awards 2008, Watina e' stato considerato uno degli album piu' suggestivi e
commoventi del 2007. Andy Palacio attraverso la sua voce onirica ha ridato
dignita' a un popolo che ha sempre difeso strenuamente la propria identita'
meticcia e il proprio percorso di lotta.
*
La storia di questo popolo solare e battagliero parte da una nave portoghese
salpata dal porto di Goree nel 1635. Non era una nave qualsiasi, da Goree
non si partiva certo per fare una villeggiatura. Nelle stive uomini e donne
neri in catene pronti per essere venduti nei mercati di Nord e Sud America.
Un carico di carne umana che i portoghesi volevano far fruttare a loro
beneficio. Ma una tempesta arrivo' a sconquassare i piani e a portare la
liberta' agli incatenati. Gli africani infatti approfittarono della
situazione per uccidere gli schiavisti.
Approdarono nella vicina San Vicente, un'isola delle Antille minori davanti
al Venezuela, dove vivevano indios, dediti alla pesca, chiamati Callipona.
Gli indios, da tempo in lotta con i colonizzatori francesi e inglesi,
accolsero i nuovi arrivati. Anche perche' erano assai debilitati dalle
malattie e avevano bisogno di alleati in forze. Inizio' cosi' una convivenza
che porto' ad un mix di sangue nero e auraco, un popolo nuovo che chiamo' se
stesso Garinagu o Garifuna. Un popolo che si dipingeva il corpo alla maniera
callipona, che coltivava la yuca, che mangiava il casabe, ma che conservava
dell'Africa il culto per los antepasados, la gestione collettiva della terra
e l'uso del tamburo nelle funzioni religiose. San Vicente ben presto divenne
anche il rifugio degli schiavi che scappavano dalle piantagioni delle
Barbados in cerca di liberta'.
Le autorita' coloniali non potevano accettare che ci fosse una societa' nera
e libera, per questo i garifuna, come succedera' ai quilombos in Brasile,
furono strenuamente combattuti.
Soprattutto gli inglesi furono tra gli acerrimi nemici di questo popolo.
Imposero loro trattati umilianti e li osteggiarono in tutti i modi. La data
che cambio' (in peggio) la storia dei garifuna fu il 1795. Joseph Chatoyer,
uomo dalle idee libertarie e influenzato dal giacobinismo della rivoluzione
in corso in Francia, fu ucciso e il suo popolo disperso. I garifuna furono
cacciati come lepri: demolite le case, distrutta la cultura, uccisi,
torturati. Dopo questo genocidio, i pochi rimasti furono deportati prima
nell'isola di Balliceaux, dove molti morirono per le febbri, e
successivamente nell'isola di Roatan. Da allora hanno popolato quasi tutta
la costa atlantica dell'Honduras, del Guatemala e parte dell'attuale Belize,
mantenendo la propria autonomia, vivendo in armonia con la madre terra e
gestendo le risorse della natura secondo la cosmovisione tradizionale.
Ancora oggi la vita dei garifuna non e' facile. Minacce di tutti i tipi li
assediano. Lottano soprattutto per salvare da un turismo selvaggio le loro
terre incontaminate e la gestione collettiva delle medesime. Leader garifuna
come Alfredo Lopez hanno pagato con sette anni di carcere il proprio
impegno. Anche l'Italia ha contribuito a rendere impossibile la vita di
questo popolo. Come non ricordare le polemiche che creo' la scelta del set
dell'Isola dei famosi edizione 2005. Set che si trovava a Cayo Palma una
delle isole dell'arcipelago nord dell'Honduras, zona di pesca dei garifuna.
Il reality con la sua troupe rischiava di mettere a repentaglio il fragile
ecosistema dell'arcipelago.
*
Oggi i garifuna stanno lavorando per preservare la propria cultura e
soprattutto la propria musica. Se Watina ha rappresentato la punta di
diamante di un lavoro che affonda le sue radici mobili nei secoli, Umalali
e' certamente il degno successore.
Ripescare la musica garifuna ha due artefici principali. Uno e' Jacob Edgar:
etnomusicologo, talent scout, ex ricercatore della Putumayo world music,
capo della casa discografica Cumbancha (nata nel 2005, Cumbancha significa
festa, divertimento). E' lui ad aver dato l'avvio ad un percorso di ricerca
dando alla musica garifuna uno spazio mainstream. L'altro e' il giovane Ivan
Duran musicista del Belize che ha prodotto i lavori garifuna e a cui ha dato
letteralmente la caccia, soprattutto alle voci femminili. Infatti e' dal
1997 che Duran viaggia di villaggio in villaggio alla ricerca di queste
voci. Il suo e' stato un lavoro certosino che lo ha portato a registrare
negli ambienti quotidiani delle donne, dalle cucine ai soggiorni, dai
cortili ai templi, fino ad arrivare a spiagge di una silenziosa bellezza.
Dall'Honduras al Guatemala sono state cinquanta le donne coinvolte nel
progetto Umalali e dodici i brani presenti nel disco. Donne portatrici di
una cultura orale dove la storia e' fatta di carne, sangue, liquido
amniotico e speranze. Si ricorda, attraverso un ritmo serrato di paranda,
gunjei e hungu-hungu la difficolta' di un travaglio, la ricerca di un amore,
la devastazione dell'uragano Hattie. Su tutte si stagliano sovrane le voci
di Sofia Blanco e della giovanissima Desere Diego, una bella ventenne dotata
di potenza ed espressivita'.
Le dodici tracce e le immagini dei video ci catapultano in un mondo dove le
tribu' ibo, yoruba e ashanti dell'Africa si fondono con i ritmi Arawak degli
indios e le influenze franco-spagnole che hanno sempre dominato il
Centroamerica. Come nella migliore tradizione della paranda le percussioni
la fanno da padrone. Le donne nei loro abiti colorati ballano la punta,
condendo con movimenti giocosi e sensuali questa danza funebre che
accompagna la vita che e' stata con quella che verra'. Ascoltando Umalali si
capisce che salvaguardare la musica garifuna non significa metterla
sottovetro come un reperto archeologico, anzi e' vero tutto il contrario.
Conservare qui significa mantenere il movimento dei flussi, delle influenze,
dello scambio. Quello che si vuole salvaguardare e' lo spirito della
collettivita' che insieme crea, insieme canta, insieme ama.

4. ESPERIENZE. MANUELA CAMPONOVO INTERVISTA LUCIANA TUFANI (2003)
[Dal "Giornale del popolo" del 17 aprile 2003 col titolo "Edizioni al
femminile anche un po' svizzere. Intervista con Luciana Tufani, che dirige
l'omonima casa editrice" e il sommario "Nata nel 1996 dall'esperienza della
rivista 'Leggere Donna' (creata nel 1980), la Luciana Tufani Editrice
pubblica nelle sue collane opere solo di donne e/o su donne. Dall'incontro
casuale con Annemarie Schwarzenbach e' iniziato l'interesse anche per le
scrittrici elvetiche".
Manuela Camponovo, giornalista, responsabile dell'inserto culturale
settimanale del "Giornale del popolo".
Su Luciana Tufani dal sito della sua preziosa casa editrice www.tufani.it
riprendiamo la seguente scheda: "Luciana Tufani, nata a Trieste da madre
slovena e padre napoletano, ha vissuto nei primi anni in diverse citta' e
paesi per poi approdare prima a Milano, dove ha frequentato le scuole
elementari e medie e infine a Ferrara dove ha frequentato il liceo classico
e poi l'universita', laureandosi in chimica. Ha poi insegnato per anni in
molte scuole della citta' e della provincia, sia medie che superiori,
materie scientifiche: da matematica a biologia, chimica e geografia. Sempre
a Ferrara, ha fondato nel 1980 il Centro Documentazione Donna che tuttora
dirige. La sua casa editrice pubblica la rivista bimestrale "Leggere Donna",
fondata nel 1980, e, dal 1996, libri di narrativa, saggistica e fumetti.
Oltre che editrice e' anche direttrice editoriale sia della rivista che
della casa editrice. Ha ideato e organizza la Biennale internazionale
dell'umorismo "Le donne ridono". Ha scritto diverse bibliografie tra cui
Leggere donna. Guida all'acquisto dei libri di donne: la prima edizione,
comprendente le scrittrici di lingua inglese e tedesca, e' stata pubblicata
dalle Edizioni e/o, e la seconda, completa, dalla Luciana Tufani Editrice.
Tra le opere di Luciana Tufani: Bibliografia sulla condizione femminile,
Bovolenta, Ferrara 1977 (pubblicato anche con il titolo Proposte di letture
sulle donne, insieme a Notizie sulla stampa femminile, in Perche' la stampa
femminile?, Bovolenta, Ferrara 1977); Leggere donna. Guida all'acquisto dei
libri di donne, Edizioni e/o, Roma 1994; LeggereDonna. Nuova guida
all'acquisto dei libri di donne, Tufani, Ferrara 1996; Prefazione a Zaide,
Tufani, Ferrara 1997; "Le preziose. Le scrittrici e l'ironia. La meta'
migliore del delitto", in Pensare un mondo con le donne, a cura di Franca
Cleis e Osvalda Varini, Associazione Dialogare, Lugano 2001"]

Luciana Tufani ha fondato a Ferrara, nel 1996, l'omonima casa editrice che
si occupa esclusivamente di scrittura femminile; in quest'ambito troviamo
anche un filone svizzero, inaugurato con Annemarie Schwarzenbach (La valle
felice, ma anche la biografia di Areti Georgiadou, La vita in pezzi),
proseguito con Corinna Bille (Eterna Giulietta, La damigella selvaggiª) e
Mariella Mehr (Il marchio).
*
- Manuela Camponovo: Signora Tufani, come e' nata l'idea di creare una casa
editrice dedicata a scritti solo di e/o su donne?
- Luciana Tufani: Sono sempre stata una grande appassionata di letteratura
in generale, per molti anni ho affrontato libri di ogni genere ma sentivo
che mi mancava qualcosa a livello emozionale. Poi, quasi per caso, ho
cominciato a leggere in maggior numero libri di donne e da quel momento non
ho piu' smesso perche' finalmente mi sentivo "completa" nella lettura, nel
senso che trovavo che molte idee di queste autrici mi appartenevano. Proprio
da questa passione e' nata prima l'idea della rivista, volevo far conoscere
alle altre persone il mondo sconfinato della letteratura al femminile e,
successivamente, e' nata l'idea della casa editrice. E' un lavoro
impegnativo e faticoso ma mi da' una grande soddisfazione poter dare voce ad
autrici di talento.
*
- Manuela Camponovo: Non c'e' il rischio di creare una sorta di "effetto
apartheid" o comunque di contrassegnare una differenza che spesso le stesse
scrittrici negano?
- Luciana Tufani: Partendo dal punto di vista che viviamo in una societa'
ancora prettamente maschilista e che esistono culture in cui la donna viene
ancora "annullata" come essere umano, privata cioe' di ogni suo fondamentale
diritto, direi che pubblicare libri di donne, e quindi dare loro voci e
spazi, non costituisce una forma di apartheid, anzi... La vera
ghettizzazione, e non solo delle donne, e' operata da tutti coloro che si
sentono in diritto di considerarsi "elementi superiori" della societa';
l'indipendenza della donna e' ricca di storie e di lotte, il nostro passato
e' sicuramente differente da quello degli uomini eppure non criminalizziamo
l'uomo per tutta la violenza che ci ha riservato nel corso dei secoli. Siamo
cresciute, siamo maturate, abbiamo avuto la forza di ritagliarci i nostri
spazi. Non vogliamo essere come gli uomini, siamo donne, credo che il negare
la differenza fra i sessi sia sbagliato. Le scrittrici che lo fanno,
probabilmente, non hanno ben chiara l'idea di indipendenza. Dell'uomo
invidiano quella forma di potere distruttivo che ha regnato per secoli,
vorrebbero essere uomini per poter dominare. La nostra e' una sensibilita'
diversa, i nostri occhi vedono le cose in modo diverso. E questo non e' un
discorso che riguarda solo uomini e donne nel senso stretto della parola, le
differenze culturali, religiose, sessuali, eccetera, esistono, l'importante
e' non creare barriere, entrare in contatto con il mondo che ti si presenta
davanti, comunicare e confrontarsi.
*
- Manuela Camponovo: Nella scrittura femminile vi sono differenze di stile e
di contenuti?
- Luciana Tufani: Non penso esista uno stile diverso, o per meglio dire
penso che tutti gli stili siano differenti ma non e' una questione di sesso.
Piuttosto, per le donne, parlerei di un punto di vista differente da quello
maschile proprio per via della storia che ci accompagna, esprimere emozioni
e sensazioni o esperienze che si conoscono bene e che magari si sono vissute
sulla propria pelle e' certamente differente dall'immaginarlo.
*
- Manuela Camponovo: Lei ha iniziato la sua avventura "svizzera" con
Annemarie Schwarzenbach: com'e' avvenuto questo incontro? E, in generale, le
caratteristiche che ne fanno un personaggio hanno inciso sul grande
interesse editoriale suscitato dalla sua opera?
- Luciana Tufani: A dire il vero la scoperta di Annemarie Schwarzenbach e'
stata una cosa piuttosto casuale, mi sono avvicinata a questa autrice per
volere di una mia collaboratrice. Certo credo che la vita "avventurosa e
dannata" di Annemarie abbia contribuito moltissimo a creare il suo
personaggio e quindi a farla apprezzare come scrittrice. Per quanto mi
riguarda io ho avuto l'opportunita' di conoscere il mondo delle scrittrici
svizzere. Non credevo ce ne fossero tante e la maggior parte con un gran
talento e questo mi ha aiutato a superare anche lo stereotipo di "ordine e
correttezza" che avevo della Svizzera. Molte autrici mettono in evidenza la
loro parte piu' oscura. Fra quelle che preferisco ci sono sicuramente
Corinna Bille e Alice Rivaz.
*
- Manuela Camponovo: Quali altre scrittrici svizzere vorrebbe far tradurre e
pubblicare?
- Luciana Tufani: Ce ne sono molte, nel mio futuro, fra le quali Ruth
Schweikert e Catherine Safonoff.

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NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE
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Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it
Numero 188 del 5 giugno 2008

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