Nonviolenza. Femminile plurale. 181



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NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE
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Supplemento de "La nonviolenza e' in cammino"
Numero 181 del 9 maggio 2008

In questo numero:
1. Enrica Rigo presenta "Who sings the Nation-State?" di Judith Butler e
Gayatri Chakravorty Spivak
2. Guido Caldiron intervista Natasha Radojcic (2005)
3. Mariella Delfanti intervista Leila Marouane (2006)
4. Gregorio Schira intervista Leila Marouane (2007)

1. LIBRI. ENRICA RIGO PRESENTA "WHO SINGS THE NATION-STATE?" DI JUDITH
BUTLER E GAYATRI CHAKRAVORTY SPIVAK
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 7 maggio 2008 col titolo "Traduzioni in
tempo reale per il jingle dell'appartenenza" e il sommario "Il serrato
dialogo tra Judith Butler e Gayatri Chakravorty Spivak sullo stato-nazione a
partire dalle lotte dei migranti negli Usa di George W. Bush".
Enrica Rigo, giurista, impegnata nel movimento antirazzista, e' dottore di
ricerca in Filosofia e teoria giuridica, sociale e politica. Attualmente
collabora alle cattedre di Filosofia del diritto e Sociologia del diritto
dell'Universita' degli Studi Roma Tre. E' consulente alla ricerca presso la
Kingston University di Londra. E' autrice di numerosi saggi pubblicati in
riviste e volumi, italiani e internazionali, su migrazioni, cittadinanza e
postcolonialismo. Tra le opere di Enrica Rigo: Europa di confine, Meltemi,
Roma 2007.
Judith Butler, pensatrice femminista americana, nata nel 1956, insegna
attualmente retorica e letteratura comparata all'Universita' di Berkeley,
California; e' figura di primo piano del dibattito contemporaneo su
sessualita', potere e identita'; le sue ricerche rappresentano uno dei
contributi piu' originali all'interno dei cultural studies e della queer
theory. Dal quotidiano "Il manifesto" del 24 marzo 2003 riprendiamo questa
presentazione di Judith Butler scritta da Ida Dominijanni: "Judith Butler e'
una delle massime figure di spicco nel panorama internazionale della teoria
femminista. Docente di filosofia politica all'universita' di Berkeley in
California, ha pubblicato nell'87 il suo primo libro (Subjects of Desire) e
nel '90 il secondo, Gender Trouble, testo tuttora di culto nei campus
americani, cruciale per la messa a fuoco delle categorie del sesso, del
genere e dell'identita'. Del '93 e' Bodies that matter (Corpi che contano,
Feltrinelli, Milano 1995), del '97 The Psychic Life of Power. Filosofa di
talento e di solida formazione classica, Butler appartiene a quello stile di
pensiero post-strutturalista che intreccia la filosofia politica con la
psicoanalisi, la linguistica, la critica testuale; e a quella generazione
del femminismo americano costitutivamente attraversata e tormentata dalle
differenze sociali, etniche e sessuali fra donne e dalla frammentazione
dell'identita' che ne consegue. Decostruzione dell'identita', analisi del
corpo fra materialita' e linguaggio, critica della norma eterosessuale e dei
dispositivi di inclusione/esclusione che essa comporta, critica del potere e
del biopotere sono gli assi principali del suo lavoro, che sul piano
politico sfocia in una strategia di radicalita' democratica basata sulla
destabilizzazione e lo shifting delle identita'. Fin da subito attenta ai
nefasti effetti dell'11 settembre e della reazione antiterrorista sulla
democrazia americana, Butler e' fra gli intellettuali americani maggiormente
imegnati nel movimento no-war. 'La rivista del manifesto' ha pubblicato sul
n. 35 dello scorso gennaio il suo Modello Guantanamo, un atto d'accusa del
passaggio di sovranita' che negli Stati Uniti si va producendo all'ombra
dell'emergenza antiterrorista: fine della divisione dei poteri, progressivo
svincolamento del potere politico dalla soggezione alla legge, crollo dello
stato di diritto con le relative conseguenze sul piano del diritto penale
(demolizione delle garanzie processuali) e del diritto internazionale
(violazione di trattati e convenzioni). A dimostrazione di come la guerra in
nome della liberta' e la soppressione delle liberta' si saldino in un'unica
offensiva di abiezione dei 'corpi che non contano', per le strade di Baghdad
e nelle gabbie di Guantanamo". Opere di Judith Butler disponibili in
italiano: Corpi che contano, Feltrinelli, Milano 1995; La rivendicazione di
Antigone, Bollati Boringhieri, Torino 2003; Vite precarie. Contro l'uso
della violenza in risposta al lutto collettivo, Meltemi, Roma 2004; Scambi
di genere. Identita', sesso e desiderio, Sansoni, Firenze 2004; Critica
della violenza etica, Feltrinelli, Milano 2006. Da "Alias" del 7 ottobre
2006 riprendiamo anche la seguente scheda: "Di Judith Butler, filosofa
californiana fra le piu' amate e discusse del panorama femminista
internazionale, sono disponibili in italiano Scambi di genere (Sansoni 2004,
opinabile traduzione di Gender Trouble, il libro del 1990 che l'ha resa
famosa, consacrandola come teorica queer), Corpi che contano (Feltrinelli
1996), La rivendicazione di Antigone (Bollati Borighieri 2003), Vite
precarie (Meltemi 2003), La vita psichica del potere (Meltemi 2005). Critica
della violenza etica testimonia la piu' recente curvatura del percorso di
Butler, che la porta ben oltre il dirompente inizio di Gender Truble, come
lei stessa argomenta in Undoing Gender (Routledge 2004) di prossima uscita
(Meltemi): la sua ricezione italiana, troppo legata alla sua immagine di
partenza, dovrebbe giovarsene. Per un confronto fra posizioni diverse
all'interno di una comune matrice femminista poststrutturalista, cfr. Il
resoconto di un recente incontro in Polonia fra Butler e Rosi Braidotti in
www.metamute.org". Dal sito della Libreria delle donne di Milano riprendiamo
la seguente recentissima scheda: "Judith Butler e' Maxine Elliot Professor
nel Dipartimento di Retorica e Letterature comparate all'Universita' della
California di Berkeley. Ha insegnato in precedenza a Princeton e tiene
frequentemente corsi e conferenze a Parigi e Francoforte. Di formazione
post-strutturalista, e' una figura-ponte fra la filosofia europea
continentale e la filosofia e le scienze umane nordamericane: fra gli autori
piu' ricorrenti nei suoi scritti: Hegel, Nietzsche, Foucault, Derrida,
Freud, Lacan, De Beauvoir, Irigaray, J. L. Austin. Nota in tutto il mondo
per il contributo decisivo che ha dato al pensiero femminista con la teoria
della performativita' del genere (Gender Trouble, 1990), lavora al confine
fra filosofia politica, psicoanalisi e etica. Muovendo, fin dai primi libri,
dalla teoria della sessualita', dalla critica della nozione di identita' e
dal rapporto fra costituzione della soggettivita', desiderio e norme, negli
scritti piu' recenti si interroga sullo statuto dell'umano e delinea una
"ontologia della fragilita'" in risposta alla crisi del soggetto sovrano e
della sovranita' statuale. Per Gender Trouble, tradotto in venti lingue, e'
stata annoverata dal magazine britannico "The Face" fra le cinquanta
personalita' di maggiore influenza sulla cultura popolare negli anni
Novanta. Con Precarious Life si e' affermata come una delle piu' impegnate
voci critiche del pensiero politico americano del dopo 11 settembre.
Attualmente sta lavorando sulla critica della violenza di stato nel pensiero
ebraico pre-sionista. Quasi tutta la sua opera e' disponibile in italiano e
la sua visita a Roma coincide con la traduzione italiana del suo primo
libro, Subjects of Desires, e dell'ultimo, Who Sings the Nation State?,
scritto con Gayatri Chakravorty Spivak. Opere di Judith Butler: Subjects of
Desire: Hegelian Reflections in Twentieth-Century France, Columbia
University Press, New York 1987 (di prossima traduzione presso Laterza);
Gender Trouble. Feminism and the Subversion of Identity, Routledge, London
1990 (trad. it. Scambi di genere. Identita', sesso e desiderio, Sansoni,
Milano 2004); Bodies that Matter. On the Discoursive Limits of "Sex",
Routledge, London 1993 (trad. it. Corpi che contano. I limiti discorsivi del
"sesso", Feltrinelli, Milano 1996); Exitable Speech: A Politics of the
Performative, Routledge, London-New York 1997; The Psychic Life of Power:
Theories in Subjection, Stanford University Press, Stanford 1997 (trad. it.
La vita psichica del potere, Meltemi, Roma 2005); Antigone's Claim. Kinship
between Life and Death, Columbia University Press, New York 2000 (trad. it.
La rivendicazione di Antigone. La parentela fra la vita e la morte, Bollati
Boringhieri, Torino 2003); Precarious Life. The Power of Mourning and
Violence, Verso, London 2004 (trad. it. Vite precarie. Contro l'uso della
violenza in risposta al lutto collettivo, Meltemi, Roma 2004); Undoing
Gender, Routledge, London-New York 2004 (trad. it. La disfatta del genere,
Meltemi, Roma 2006); Giving an Account of Oneself, Fordham University Press,
New York 2005 (trad. it. Critica della violenza etica, Feltrinelli, Milano
2006)".
Gayatri Chakravorty Spivak insegna alla Columbia University di New York;
bengalese di nascita, vive negli Stati Uniti; e' una delle piu' note e
apprezzate teoriche femministe americane e tra le massime rappresentanti
degli studi postcoloniali. Tra le opere di Gayatri Chakravorty Spivak: In
Other Worlds: Essays in Cultural Politics, London, Methuen 1987; Selected
Subaltern Studies, edited with Ranajit Guha, Oxford, Oxford University Press
1988; The Post-Colonial Critic: Interviews, Strategies, Dialogues, edited by
Sarah Harasym, London, Routledge 1990; Outside In the Teaching Machine,
London, Routledge 1993; A Critique of Post-Colonial Reason: Toward a History
of the Vanishing Present, Harvard University Press 1999; Death of a
Discipline, New York, Columbia University Press 2003; in italiano: "La
politica delle interpretazioni" in AA. VV., Spettri del potere, Meltemi,
Roma 2002; Morte di una disciplina, Meltemi, Roma 2003; Critica della
ragione postcoloniale, Meltemi, Roma 2004. Su Gayatri Chakravorty Spivak
riproduciamo la seguente scheda apparsa sul quotidiano "Il manifesto" del
primo febbraio 2005: "Gayatri Chakravorty Spivak e' nata il 24 febbraio 1942
a Calcutta dove si e' laureata. Nel 1960 e' andata a studiare negli Stati
Uniti, alla Cornell University, dove ha preso un master nel 1962 e il PhD
nel 1967. Ha insegnato inglese e letteratura comparata in numerose
universita', tra cui Stanford, Santa Cruz e la Goethe-Universitat a
Francoforte. E' Avalon Foundation Professor nelle Humanities alla Columbia
University di New York dove insegna dal 1991. Non ha mai voluto prendere la
cittadinanza statunitense. Nel 1976 ha tradotto De la Grammatologie di
Jacques Derrida firmando una prefazione che l'ha resa famosa. Ha scritto
piu' di cento saggi, sparsi in volumi collettanei: alcuni di essi sono
raccolti nei suoi pochi libri. In Italia, i suoi primi testi a essere
tradotti sono stati due saggi: "Decostruire la storiografia", contenuto in
Subaltern Studies, Modernita' e (post)colonialismo, pubblicato da Ombre
corte nel 2002; e "La politica delle interpretazioni" nel volume collettaneo
Spettri del potere, edito da Meltemi nel 2002. Sempre Meltemi ha curato la
traduzione di Morte di una disciplina (2003) e ora del volume A Critique of
Postcolonial Reason (Harvard University Press, 1999), nelle librerie
italiane con il titolo Critica della ragione postcoloniale. Verso una storia
del presente in dissolvenza.Tra i suoi testi pubblicati in inglese
ricordiamo: In Other Worlds: Essays in Cultural Politics, Methuen, New York
1987; The Post-Colonial Critic: Interviews, Strategies, Dialogues, ed. Sarah
Harasyn, Routledge, New York 1990; Outside in the Teaching Machine,
Routledge, New York, 1993"]

Chi canta lo stato-nazione? e' il titolo, allo stesso tempo ammiccante e
enigmatico, con il quale e' stato proposto al pubblico di lingua inglese un
breve ma denso dialogo tra Judith Butler e Gayatri Chakravorty Spivak (Who
sings the Nation-State? Language, Politics, Belonging, Seagull Books), due
delle teoriche piu' autorevoli del panorama filosofico contemporaneo. A
spiazzare il lettore, piu' che la curiosita' suscitata dall'interrogativo
posto dal titolo, e' pero' la risposta data delle due autrici che, fuori da
ogni metafora allusiva, fa dello stato-nazione un vero e proprio predicato
del verbo cantare. A cantare lo stato-nazione sarebbero stati, infatti, i
migranti latinos "illegali" che nella primavera del 2006 hanno invaso le
strade di Los Angeles e di molte altre citta' della California accompagnando
la protesta con le note dell'inno nazionale statunitense cantato in
spagnolo. Un affronto, quello del "nuestro hymno", che ha irritato George W.
Bush, facendogli dichiarare che l'inno nazionale puo' essere cantato solo in
inglese, e mettendo al contempo a nudo tutta l'impotenza di una simile presa
di posizione. Il problema posto dalla riappropriazione in lingua spagnola
dell'inno nazionale non era certo quello dell'inclusione in un'idea di
nazione gia' confezionata e, di conseguenza, non chiedeva nessun
riconoscimento istituzionale, dato che la rivendicazione di appartenenza dei
latinos, almeno per la parte che riguardava l'inno, risultava agita nel
momento stesso in cui veniva dichiarata (ovvero cantata). Si e' trattato
dunque di un canto agito politicamente.
*
Domande radicali
La risposta data dalle due autrici alla domanda su chi sia legittimato a
rivendicare un'agency politica rispetto a un inno nazionale diventa una
pungente affermazione teorica visto che arriva dopo un confronto serrato con
le posizioni di Giorgio Agamben e con alcuni saggi di Hannah Arendt, in
particolare, il citatissimo capitolo su "La fine dei diritti umani e il
tramonto dello stato nazione" (pubblicato nel 1951 ne Le origini del
totalitarismo, Edizioni di Comunita'). Tale confronto ruota attorno a due
questioni, che risultano correlate nella lettura che Agamben fa dello stato
di eccezione schmittiano come atto sovrano di sospensione delle garanzie
costituzionali e conseguente esposizione della "nuda vita" alla violenza
(Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Einaudi). Ad Agamben, Butler
riconosce il merito di "andare controcorrente rispetto a certe modalita' di
raccontare la storia dell'ascesa del costituzionalismo democratico". Una
controtendenza che - si potrebbe aggiungere - era ben presente nella teoria
costituzionale di Schmitt, e che gia' altri esponenti di un pensiero
filosofico radicale, per esempio Michel Foucault, avevano avuto il merito di
trasformare in una rappresentazione del potere capace di efficacia critica
nel contestare lo status quo.
Ma che senso ha - e' questa la prima questione sollevata dalle autrici -
continuare a parlare di uno "stato di eccezione" quando questo diventa una
modalita' ordinaria e permanente di esercizio del potere? E soprattutto:
perche' definire "nuda vita" quella che appare invece come "saturata" dal
potere, seppure non in forza del riconoscimento di prerogative giuridiche
direttamente riconducibili a diritti o a doveri? La rappresentazione
dell'ambito della vita e di quello del politico come di due sfere
reciprocamente esclusive (su questo punto, secondo Butler, Agamben si
discosta parzialmente da Arendt), se, da un lato, puo' servire a mettere in
luce alcune contraddizioni del presente, dall'altro, sembra del tutto
incapace di ripoliticizzarle, dato che impone "una inaccettabile restrizione
giuridica al politico".
Non e' casuale che il ripensamento in chiave critica di queste categorie
arrivi, ancora una volta, da un pensiero femminista. Sull'eccezione, letta
non solo come spossessamento determinato dalle tecnologie di governo del
neoliberalismo, ma anche come luogo nel quale la cittadinanza viene
rinegoziata attraverso forme di resistenza, era intervenuta di recente anche
la studiosa Aihwa Ong, in Neoliberalism as Exception: Mutations in
Citizenship and Sovereignty (Duke University Press 2006, recensito sul
"Manifesto" il 13 marzo 2007). D'altro canto, e' una prerogativa senza
dubbio propria della critica femminista quella di aver sottratto il luogo
del politico ai suoi confinamenti istituzionali per ricollocarlo
continuamente. Una matrice, quest'ultima, alla quale sono riconducibili
entrambe le autrici di Who Sings the Nation-State?.
E' inoltre da sottolineare come le prese di posizione di Butler e Spivak
siano particolarmente rilevanti in un contesto di produzione critica, quello
appunto di lingua inglese, dove le categorie proposte da Agamben, sebbene
abbiano avuto amplissima diffusione grazie alla traduzione sollecita della
sua opera, rimangono quasi sempre mediate, senza che ci si preoccupi di
ricostruire la genealogia delle fonti alle quali si rifa' lo stesso filosofo
italiano.
Nel caso de Lo stato di eccezione (Bollati Boringhieri), per esempio, il
riferimento teorico nella rappresentazione delle categorie del potere non si
ferma a Schmitt, ma risale a Santi Romano, per cui l'istituzione
politico-giuridica (che non coincide solo e necessariamente con la forma
storica dello stato nazione) permea di se' ogni contesto della vita sociale.
Per ritornare ora alle questioni centrali sollevate nel dialogo tra Butler e
Spivak, e' proprio spostando il luogo dell'agire politico al di fuori dei
suoi perimetri istituzionali che Butler propone di sostituire la nuda vita
con una "contraddizione performativa che conduce non all'impasse ma a forme
di insorgenza". La contraddizione per cui l'illegalita' che i migranti
latinos rivendicano a gran voce dichiarandosi uguali - "somos equales" nella
traduzione spagnola di una strofa dell'inno statunitense - non reitera la
nazione ma, proprio in quanto illegittima, esprime una liberta' che puo'
essere esercitata "solo in una lingua o in un insieme di lingue per le quali
la differenza e la traduzione sono irriducibili".
*
Regionalismo critico
Introducendo il tema di un "regionalismo critico" capace di porsi sia oltre
lo stato che al di la' del cosmopolitismo di stampo habermasiano, Spivak
preferisce rideclinare la contraddizione performativa che viene sollevata
dalla dichiarazione che i migranti fanno dei diritti all'interno di due
fallimenti: quello dello stato nazione (Arendt), da un lato, e della
rivoluzione (Marx), dall'altro. E non e' certo per sottrarsi al confronto
che, dal canto suo, restituisce le posizioni di Arendt al loro tempo e
continua, invece, a dichiararsi marxista. Ed e' sempre Spivak che con tono
quasi sornione, o forse davvero "incidentalmente" come afferma lei,
suggerisce che l'inno nazionale e' in principio intraducibile. "A differenza
dell'Internazionale".

2. RIFLESSIONE. GUIDO CALDIRON INTERVISTA NATASHA RADOJCIC (2005)
[Dal quotidiano "Liberazione" del 7 giugno 2005 col titolo "I Balcani a New
York. Alla ricerca della pace".
Guido Caldiron e' giornalista e saggista. Opere di Guido Caldiron: Gli
squadristi del 2000, Manifestolibri, Roma 1993; AA. VV., Negationnistes: les
chifonniers de l'histoire, Syllepse-Golias, 1997; La destra plurale,
Manifestolibri, Roma 2001; Lessico postfascista, Manifestolibri, Roma 2002.
Natasha Radojcic-Kane, scrittrice, e' nata a Belgrado nel 1966 e attualmente
vive a New York. Il suo primo romanzo e' apparso negli Stati Uniti nel 2002
e in Italia nel 2003. Opere di Natasha Radojcic-Kane: Ritorno a casa,
Adelphi, Milano 2003; Domicilio sconosciuto, Adelphi, Mialno 2004]

Suo padre e' per meta' rom e per meta' serbo, sua madre e' una musulmana
della Bosnia. Ma lei, pur essendo nata a Belgrado, ci tiene a chiarire
subito che ora la sua citta' e' New York. Natasha Radojcic dice di aver
ereditato dal padre gli occhi e i capelli scuri, di un colore bruno intenso.
Solo che oggi, forse a segnare proprio il nuovo capitolo, americano, della
sua esistenza, i capelli di questa scrittrice quasi quarantenne riflettono
di un biondo sfavillante il sole di un mezzogiorno romano. E' un primo
segnale del fatto che con lei nulla e' come appare. Guardarsi dalle
definizioni sommarie o sbrigative e' percio' in questo caso, piu' che una
ovvia cautela, un autentico obbligo.
Stasera alla Basilica di Massenzio di Roma, ospite del festival
"Letterature" insieme alla giapponese Hitomi Kanehara, Natasha Rajdoicic
leggera' alcuni brani del suo prossimo romanzo, ancora inedito in Italia,
che, assicura, e' una vera "comedy". Anche perche' forse le sue peggiori
tossine, la scrittrice le ha gia' tirate fuori con i due libri che l'hanno
fatta conoscere negli Stati Uniti come in Europa: Ritorno a casa, del 2002,
e Domicilio sconosciuto, del 2004, entrambi pubblicati nel nostro paese da
Adelphi. Due storie che, a loro modo, descrivono, pur nella diversita' degli
scenari, una medesima discesa all'inferno: la prima in una Bosnia dilaniata
dalla tormenta sanguinosa della guerra civile jugoslava, la seconda nel duro
apprendistato alla metropoli compiuto da una giovane donna che per
sopravvivere a New York si arrabatta con ogni sorta di occupazione. Cogliere
in tutto cio' le tracce della biografia di Radojcic e' fin troppo facile.
Iniziare da questo punto il dialogo con l'autrice balcanico-newyorkese e'
altrettanto immediato.
*
- Guido Caldiron: I suoi romanzi sembrano costruiti per raccontare dei
brutti ricordi, per liberarsi, attraverso la scrittura, di una parte di se'
con cui si fa fatica a fare i conti. Si tratta solo di un'impressione?
- Natasha Radojcic: No, e' cosi', scrivere mi aiuta molto, mi fa star bene.
Quando ho scritto Ritorno a casa, in particolare, pensavo a come immaginare
una realta' senza la guerra. Potrebbe accadere se solo riuscissimo tutti a
essere piu' ragionevoli, ma cio' non accade. E' per questo che scrivo. Non
riesco a pensare a niente di piu' importante in questo senso.
*
- Guido Caldiron: Dopo la guerra lei e' tornata a piu' riprese a Belgrado,
collabora con i giornali e con la radio nazionale della Serbia. Le sembra
che le cose stiano cambiando, che le ferite che ha descritto in Ritorno a
casa si stiano, o si possano, pian piano sanare?
- Natasha Radojcic: Spero molto che cio' accada, anche se credo che sia
davvero difficile. In ogni caso tutto cio' potra' accadere solo in futuro,
perche' per dimenticare una guerra e tutte le conseguenze che porta con se'
deve passare almeno un'intera generazione. Questo nei Balcani non e' mai
accaduto, nel senso che non c'e' generazione che non abbia vissuto la sua
guerra. Tra qualche decina di anni, se non accadranno altre tragedie nel
frattempo, potremo forse dimenticare tutte le vittime e andare avanti. Per
motivi di lavoro torno in Serbia ogni due o tre mesi e tutto cio' che resta
della mia famiglia si trova ancora nei Balcani, per cui credo che, malgrado
io mi senta per molti versi una newyorkese, cio' che dico rappresenti la
situazione reale che si respira laggiu'. Anche perche' piu' invecchio e piu'
divento consapevole delle mie origini.
*
- Guido Caldiron: L'ex Jugoslavia ha prodotto una vasta diaspora in tutto il
mondo, l'emigrazione e la fuga prima e dopo la guerra civile. A partire
dalla sua esperienza personale crede che chi vive lontano dal paese possa
influenzare un'evoluzione positiva della situazione?
- Natasha Radojcic: Credo si tratti di una condizione molto particolare, nel
senso che malgrado io senta di conoscere cio' che accade oggi a Belgrado, la
mia non e' certo la vita di chi vive li'. Voglio farle un esempio: il mio ex
marito apparteneva alla diaspora irlandese, nel senso che viveva a New York,
e mi parlava sempre del suo paese. Solo che ogni volta che andavamo insieme
in Irlanda, mi rendevo conto di quanta poca adesione ci fosse tra cio' che
lui mi raccontava e il paese che avevo davanti. Penso a questo ogni volta
che vado a Belgrado. Detto questo, io mi pongo il problema di contribuire al
miglioramento delle condizioni di vita nel mio paese d'origine e di aiutare
la crescita della tolleranza, ma lo faccio da "cittadina del mondo", non da
serba o da bosniaca. Ho vissuto meta' della mia vita di scrittrice nei
Balcani e meta' negli Stati Uniti e penso che ognuno possa contribuire a
cambiare le cose li' dove si trova e non intervenendo da lontano o da fuori.
*
- Guido Caldiron: Le donne sono state tra le prime vittime della guerra nei
Balcani, oggi quale ruolo possono avere perche' la pace continui?
- Natasha Radojcic: Non sono sicura che le donne siano state le vittime
principali della guerra: tutti siamo stati vittime allo stesso modo. Del
resto credo che la moglie di Milosevic sia stata responsabile di quanto e'
accaduto in Jugoslavia allo stesso modo del marito. Non vorrei che questo
mettere l'accento sul fatto che le donne siano state piu' colpite di altri,
alla fine contenesse anche un atteggiamento un po' sessista. La pace non
dipende dalle donne piu' di quanto dipenda dagli uomini, l'importante e'
battersi per la pace, il genere e' del tutto secondario da questo punto di
vista.
*
- Guido Caldiron: Oggi l'Europa e' al centro di tanti dibattiti e la guerra
in Jugoslavia l'ha colpita direttamente, al cuore. Ma come cambia la
prospettiva con la quale si guarda a questo spazio europeo, che lo si
osservi dall'interno, cioe' dai Balcani, piuttosto che dall'esterno, vale a
dire da New York?
- Natasha Radojcic: Diciamo che il futuro dell'Europa non mi interessa
particolarmente. Piuttosto mi preoccupa il futuro del mondo. E da questo
punto di vista credo che il ruolo e il profilo che l'Europa potra' assumere
sul piano internazionale siano legati in modo molto stretto allo sviluppo di
una piu' giusta distribuzione della ricchezza in questo continente. Se cio'
accadra', l'Europa potra' forse guidare una trasformazione globale, in modo
che tutto il resto del mondo possa uscire dalla miseria piu' nera e che si
sviluppi una vera tolleranza etnica e istruzione per tutti. Cosi' forse
l'Europa avra' un suo ruolo specifico.

3. TESTIMONIANZE. MARIELLA DELFANTI INTERVISTA LEILA MAROUANE (2006)
[Dal "Corriere del Ticino" dell'11 maggio 2006 col titolo "Il canto libero
di Leila Marouane" e il sottotitolo "La scrittrice algerina a Lugano".
Mariella Delfanti e' un'apprezzata giornalista svizzera.
Leila Marouane (1960), giornalista e scrittrice algerina impegnata per i
diritti umani, ha svolto una coraggiosa attivita' giornalistica (ha lavorato
per quotidiani e riviste come "Horizons" e "El Watan", "Politis" e "Jeune
Afrique") che le ha procurato una grave aggressione nel 1989; nel 1990 si e'
trasferita in Francia; attualmente vive a Parigi ed e' considerata una delle
piu' rilevanti scrittrici nordafricane. Tra le opere di Leila Marouane:
Doppio ripudio, Epoche', 2004; Il castigo degli ipocriti, Epoche', 2006]

Ha nello sguardo e nel portamento la fierezza dei Berberi, Leila Marouane,
scrittrice algerina della diaspora, ancora poco conosciuta da noi, ma gia'
affermata e tradotta e in dieci lingue. Ma e' soprattutto in quello che
dice, il suo coraggio, lei, militante tra le file delle associazioni che si
battono per la causa progressista da quando ha vent'anni, spesso minacciata
nel suo paese, censurata come giornalista, e anche brutalmente aggredita per
le strade di Algeri. Si e' salvata dal taglio della gola letteralmente
alzando un braccio, braccio che porta ancora il segno di una vistosa
cicatrice. Se questo l'ha costretta a scegliere l'esilio in Francia dove
vive dagli anni '90, e ha lavorato come giornalista prima di dedicarsi
esclusivamente alla narrativa, la violenza che ha subito non le impedisce
pero' di alzare la sua voce chiara e libera contro l'arretratezza culturale
che tiene tuttora in ostaggio le forze vive del suo paese. Il coraggio e la
coerenza con cui in passato ha marciato nei cortei di protesta, o come
giornalista ha condotto inchieste scottanti, si sono trasferiti oggi nella
sua scrittura, nella pelle di personaggi che, come nel libro che ha
presentato martedi' scorso alla biblioteca di Lugano, portano il marchio che
ha segnato la loro autrice.
Non ha piu' interessi da difendere, Leila, nel momento in cui ha deciso di
abbandonare la sua piccola casa in riva al mare, i suoi libri e i suoi
ricordi, ma si e' riappropriata della parola e ha deciso di raccontare la
sua storia e la sua collera. Lo fa senza patteggiamenti e senza equivoci,
attraverso racconti che, come sempre riesce agli scrittori veri, li rendono
universali.
"La sola donna che un musulmano ritiene degna di rispetto e' la propria
madre". Parte da questa esplosiva dichiarazione il mio colloquio con Leila
Marouane, prima dell'incontro pubblico organizzato dall'International Pen
Club. Questa frase, non pronunciata martedi', ma in un'altra occasione in
cui l'avevo avvicinata, e ribadita qui con decisione, offre il motivo per la
prima domanda.
*
- Mariella Delfanti: La parita' uomo-donna e' una questione di leggi o di
mentalita'? E' una rivoluzione che va combattuta soprattutto nella famiglia
o nella societa'?
- Leila Marouane: E' un problema che deve essere risolto dalla legge,
perche' la mentalita' non la si cambia. Qualunque posto al mondo, se non ci
fossero le leggi a proteggere le donne, potrebbe essere l'Algeria. L'istinto
dell'uomo e' semplicemente quello di dominare tutti i piu' deboli di lui,
non solo le donne, anche gli altri uomini; nella societa' i bianchi dominano
i neri e cosi' via.
*
- Mariella Delfanti: Qual e' la condizione delle donne in Algeria oggi?
- Leila Marouane: Ripudiate senza che sia necessario il loro consenso,
sbattute sulla strada dall'oggi al domani, costrette a convivere con altre
mogli, ad avere un tutore fino alla morte, anche se vivono fino a cent'anni.
Una donna che si voglia sposare deve affidarsi a un tutore e se non ha
nessun uomo in famiglia - neppure l'ultimo degli zii che abita a quattromila
chilometri di lontananza - deve affidarsi al giudice. Purtroppo l'Algeria e'
il solo grande paese del Maghreb che - a differenza di Tunisia e Marocco -
non ha cercato di riformare la legislazione riguardante le donne. In Tunisia
da trent'anni le donne possono divorziare; il ripudio e la poligamia sono
proibiti. Il re del Marocco, un musulmano autentico, ha varato riforme
favorevoli alle donne.
*
- Mariella Delfanti: Ma il divorzio non esiste anche in Algeria?
- Leila Marouane: Si', ma la donna deve pagare, rimborsare l'uomo; e si
tratta di cifre salatissime, decise dai giudici che a loro volta sono
uomini. Senza contare che l'uomo puo' rifiutare e la procedura puo' durare
da quattro a quindici anni. Una mia giovane amica giornalista, sposata con
un giornalista radiofonico, per giunta francofono, di madre francese e padre
algerino - una coppia moderna dunque -, per riuscire a divorziare ha dovuto
attendere dieci anni. Lui voleva essere pagato; e' bastato che si appellasse
alla legge.
*
- Mariella Delfanti: Ma la legge puo', secondo lei, cambiare la mentalita'?
Non e' piuttosto una questione di cultura e di educazione? E la classe
sociale di appartenenza, anche nel suo paese, non fa la differenza?
- Leila Marouane: Cambiare la mentalita' richiede tempo e non avviene
automaticamente neppure con la cultura, se pensiamo all'orribile caso di
Marie Trintignant, picchiata a morte dal marito. Ci sono nella civile
Francia di oggi - credo - almeno quattro donne picchiate al giorno e non so
quante muoiono per le percosse. Le emozioni sono universali e le donne di
tutto il mondo vivono la violenza come una vergogna. Certo, in Algeria, se
una donna appartiene a uno strato sociale privilegiato, se e' amata dal
padre e dai fratelli, evidentemente e' piu' protetta e dunque piu' forte,
anche se le leggi le sono contrarie. Nel caso di un divorzio reso difficile,
ad esempio, il marito si deve sottomettere perche' ha paura, perche' non
bisogna dimenticare che gli uomini hanno paura degli uomini. Ma quando una
donna e' sola, senza una famiglia che la riprenda, e' gettata in mezzo a una
strada e basta.
*
- Mariella Delfanti: Secondo lei l'integralismo e' responsabile di un
inasprimento delle condizioni generali o e' soprattutto un fatto di
propaganda? Lo si percepisce nella vita quotidiana?
- Leila Marouane: No, non e' propaganda, e' realta'. Lo percepisco, so che
esiste da quando sono piccola. All'universita' l'ho vissuto in prima
persona. E da noi gli integralisti trovano la loro culla perche' le leggi
sono a loro favore: il ripudio e' un comandamento di Allah! Cosi' la
poligamia, e tutto il resto. I militari, i generali che sono al potere nel
mio paese non hanno nessuna voglia di cambiare queste leggi perche' sanno
che avrebbero contro gli islamisti.
*
- Mariella Delfanti: La globalizzazione, attraverso la tv, i giornali, le
mode occidentali non riesce a modernizzare un po' le mentalita'? Si legge
che le associazioni delle donne si sono mobilitate...
- Leila Marouane: Di fatto non e' cambiato nulla; anzi ci sono associazioni
di donne islamiste che invocano misure ancora piu' restrittive. Da un anno a
questa parte, e' vero, si e' fatto qualche tentativo per migliorare il
Diritto di famiglia, ma la sola cosa cambiata e' che oggi la donna, dopo il
divorzio, se ha ottenuto l'affidamento dei bambini puo' conservare la casa.
Ma conosciamo bene i nostri giudici: secondo un principio di solidarieta'
maschile finiscono per affidare al padre i figli. L'unica modernizzazione
riguarda il Codice che regola il diritto di nazionalita'. Un'algerina che
sposa uno straniero puo' trasmettere la propria nazionalita' al marito e ai
figli. Le leggi sessiste, razziste, misogine in vigore non lo permettevano.
*
- Mariella Delfanti: Il mondo arabo allora e' qualcosa di monolitico o
permeabile alla modernita'?
- Leila Marouane: E' la domanda che mi pongo. Voglio sperare che l'Algeria
diventi un paese moderno dove tutte le culture e tutte le religioni sono
rispettate, la cristiana e l'ebraica in particolare - mia nonna era di
religione ebraica, ad esempio - perche' prima della colonizzazione musulmana
esisteva un tessuto multietnico e multiconfessionale. Mi auguro che
l'attuale classe dirigente sia sostituita da giovani - uomini o donne non
importa - dalla mentalita' piu' aperta. Ho fiducia nei giovani; i vecchi,
intellettuali o no, continuano ad amare soltanto le loro madri.

4. TESTIMONIANZE. GREGORIO SCHIRA INTERVISTA LEILA MAROUANE (2007)
[Dal "Giornale del popolo" del 17 marzo 2007 col titolo "La donna: paradosso
algerino", il sottotitolo "Intervista con la scrittrice Leila Marouane" e il
sommario "Scrittrice impegnata per la causa delle donne in lotta contro le
regole della famiglia algerina, e' nata nel 1960 e ha vissuto in Algeria
fino al 1991. Poi, in seguito a un aggressione di matrice integralista, si
e' trasferita in Francia"]

E' considerata una delle scrittrici nordafricane piu' promettenti del
momento. Giornalista, per molti anni ha lavorato per diversi quotidiani e
riviste come "Horizons", "El Watan" o "Jeune Afrique". Martedi' sera sara' a
Bellinzona, all'Istituto cantonale di economia e commercio, alle 20,30, per
una serata pubblica proposta dal club Soroptimist del Sopraceneri.
*
- Gregorio Schira: Qual e' la situazione della donna in Algeria?
- Leila Marouane: Esiste un insieme di leggi, chiamato "Codice di famiglia"
che rende la donna una "minore" a vita. In altri termini, una donna,
qualunque sia la sua eta', il suo stato sociale, il suo livello
d'istruzione, non puo' evolvere nella societa' senza un tutore legale. Anche
il ripudio e la poligamia, come pure la rigidita' concernente il divorzio
chiesto da parte della donna, sono sempre in vigore. Per contro, l'Algeria
conta un numero di donne istruite molto piu' elevato che i suoi vicini
magrebini, e questo grazie alla scuola, resa obbligatoria a partire dalla
decolonizzazione avvenuta nel 1962. Da qui nasce quello che chiamo il
"paradosso algerino".
*
- Gregorio Schira: Qual e' il ruolo di una scrittrice nei confronti di una
simile situazione?
- Leila Marouane: In effetti la condizione della donna nel mio paese non
sfugge al mio universo letterario. Forse perche' uno scrittore scrive con
quello che possiede e lo abita. Detto questo, io ho conosciuto le
frustrazioni delle algerine e le ho vissute nella mia propria carne (mia
madre ha combattuto per la liberta' del suo paese e non ha conosciuto che i
maltrattamenti e il disprezzo da parte dei legislatori). E' anche da questo
che e' nato il mio rifiuto di ritornare in Algeria, malgrado questa terra mi
manchi molto.
*
- Gregorio Schira: Lei e' fuggita dall'Algeria in seguito a un aggressione
della quale e' stata vittima nel 1989 a causa del suo coraggioso impegno
come giornalista.
- Leila Marouane: E' successo a me come a molti miei fratelli e sorelle,
molti dei quali hanno purtroppo perso la vita. Era un periodo in cui si
attaccavano dei bersagli scelti senza particolare motivo, se non per il
fatto che questi avessero una professione piuttosto che unialtra (nel caso
specifico giornalista - ndr). Non credo quindi di potermi ritenere
un'eroina, non lo sono.
*
- Gregorio Schira: Come reagisce l'Algeria al suo impegno?
- Leila Marouane: Sono letta essenzialmente da psicoterapeuti e studenti che
fanno il loro lavoro di memoria sui miei libri. Anche la stampa algerina
sembra apprezzare il mio lavoro. A parte questo, visto il mio rifiuto
assoluto di rientrare in Algeria, non incontro mai il mio pubblico nel mio
paese. Sento piuttosto le reazioni dei miei lettori francesi, italiani,
tedeschi...
*
- Gregorio Schira: Qual e' la situazione in Francia? C'e' integrazione?
- Leila Marouane: Il paesaggio "etnico" francese sta cambiando. Le
mescolanze di persone provenienti da ambienti e culture differenti, quando
vengono rispettate, non fanno altro che apportare qualcosa di piu' al paese.
Non credo che le differenti tradizioni, qualunque esse siano, se restano un
fatto personale e rispettano le leggi della repubblica, possano divenire un
freno all'evoluzione della societa'.
*
- Gregorio Schira: In Ticino parlera' di "Oblio e memoria". Perche' questo
titolo?
- Leila Marouane: Concerne la finzione e la sua creazione. E' un po' la
"filosofia letteraria" di Kafka, che ritiene che la menzogna riveli piu' di
quanto invece non dissimuli. In questo senso, per quanto mi riguarda, il
lavoro creativo nasce da questa spaccatura tra memoria e oblio. Penso pero'
che, per capire di piu', dobbiate assistere alla serata.

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NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE
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Supplemento de "La nonviolenza e' in cammino"
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it
Numero 181 del 9 maggio 2008

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