La domenica della nonviolenza. 160



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LA DOMENICA DELLA NONVIOLENZA
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Supplemento domenicale de "La nonviolenza e' in cammino"
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it
Numero 160 del 20 aprile 2008

In questo numero:
1. Aime' Cesaire: L'uomo di cultura e le sue responsabilita'
2. Marco Dotti ricorda Aime' Cesaire
3. Domenico Quirico ricorda Aime' Cesaire

1. MAESTRI. AIME' CESAIRE: L'UOMO DI CULTURA E LE SUE RESPONSABILITA'
[Dal sito www.sagarana.it riprendiamo l'intervento di Aime' Cesaire al
secondo Congresso degli scrittori africani, svoltosi a Roma nel 1959, ed
apparso lo stesso anno su "Presence africaine" (traduzione di Armando
Gnisci).
Aime' Cesaire, poeta e combattente contro il razzismo e il colonialismo,
nato a Basse-Pointe, in Martinica, il 26 giugno 1913, deceduto a
Fort-de-France, sempre in Martinica, il 17 aprile 2008, studio' in Francia
dove con Senghor e Damas fondo' la rivista "L'etudiant noir" e il movimento
culturale della negritude. Insegnante in Martinica, avra' tra i suoi allievi
Frantz Fanon. Poeta, drammaturgo, uomo politico, parlamentare e pubblico
amministratore, e' una delle grandi figure della cultura del Novecento.
Dalla Wikipedia, edizione italiana, riprendiamo per stralci la seguente
scheda: "Aime' Cesaire (Basse-Pointe, 26 giugno 1913 - Fort-de-France, 17
aprile 2008) e' stato un poeta, scrittore e politico francese nato in
Martinica. Dopo aver compiuto studi secondari in Martinica, poi a Parigi
(presso il LÌceo Louis-le-Grand), e studi universitari a Parigi (Ecole
normale superieure), fa conoscenza con il senegalese Leopold Sedar Senghor e
il guaianese Leon Gontran Damas. Insieme scoprono, grazie alla lettura di
opere sull'Africa di autori europei, i tesori artistici e la storia
dell'Africa nera, e creano la negritude (negritudine), cioe' la nozione che
comprende i valori spirituali, artistici, filosofici dei neri dell'Africa;
nozione che diventera' l'ideologia delle lotte dei neri per l'indipendenza.
Lui stesso voleva liberare la sua isola - la Martinica - dal giogo del
colonialismo francese; l'isola divento', nel 1946, un Dipartimento
d'oltremare della Francia. Deputato della Martinica all'Assemblea generale
francese, sindaco di Fort-de-France (capitale della Martinica), membro (fino
al 1956) del Partito comunista francese. Come poeta, e' uno dei
rappresentanti piu' celebri del surrealismo francese, come scrittore e'
autore di drammi illustranti la sorte e le lotte degli schiavi dei territori
colonizzati dalla Francia (come Haiti)... Il suo poema piu' conosciuto e
popolare e' il Cahier d'un retour au pays natal (Diario del ritorno al Paese
natale, 1939)... e' deceduto il 17 aprile 2008 all'ospedale di
Fort-de-France, dove era ricoverato dal 9 aprile". Da www.girodivite.it
riprendiamo la seguente scheda: "Aime' Cesaire e' nato a Basse-Pointe, in
Martinica, nel 1913. Educato in Francia, ma profondamente radicato nella
cultura caraibica, fondo' insieme a Senghor e a L. Damas, il movimento della
negritudine che rivelo' una poetica africana e segno' una demarcazione
rispetto alla cultura bianca e europea. Cesaire si dedico' anche
particolarmente al recupero dell'identita' antillana, non piu' africana e
certamente non bianca, attraverso una ricca produzione di poesia drammatica
e poi specificamente teatrale. Nel 1939 comparve il Diario di un ritorno al
paese natale (Cahier d'un retour au pays natal) tragedia in versi di
ispirazione surrealista, la sua opera forse piu' nota. Seguirono varie
raccolte poetiche: Le armi miracolose (Les armes miraculeuses, 1946), E i
cani tacevano (Et les chiens se taisaient, 1956), Catene (Ferraments, 1959),
Cadastre (1961). Nel 1955 pubblico' il Discorso sul colonialismo (Discours
sur le colonialisme, 1955) che fu accolto come un manifesto di rivolta. A
partire dagli anni '60, per evitare che la sua attivita' raggiungesse solo
gli intellettuali africani e non le grandi masse, lascio' la poesia per
dedicarsi alla formazione di un teatro politico popolare. Tra le sue opere
teatrali piu' rilevanti: La tragedia del re Christophe (La tragedie du roi
Christophe, 1963), Una stagione in Congo (Une saison au Congo, 1967)
ispirata al dramma di Lumumba, e Una tempesta (Une tempete, 1969)". Opere di
Aime' Cesaire: in italiano un'utile antologia e' Poesie e negritudine,
Accademia, Milano 1969 (a cura e con un ampio saggio critico di Lylian
Kesteloot); cfr. inoltre: Le armi miracolose, Guanda, Parma 1962; La
tragedia del re Christophe, Einaudi, Torino 1968; Io, Laminaria, Bulzoni,
Roma 1995; Una stagione nel Congo, Argo, Lecce 2003; Diario del ritorno al
paese natale, Jaca Book, Milano 2004; Negro sono e negro restero'.
Conversazioni con Francoise Verges, Citta' Aperta, Troina (Enna) 2006. Opere
su Aime' Cesaire: per un avvio: Graziano Benelli, Aime' Cesaire, La nuova
Italia, Firenze 1075]

Ho pensato di intervenire a questo Congresso presentando alcune
considerazioni su di un argomento essenziale: quello della legittimita'
della nostra attivita' di scrittori e di artisti neri e quello, ad esso
complementare, delle responsabilita' che ci riguardano come uomini di
cultura, nella duplice direzione congiunta: del mondo e dei nostri
rispettivi paesi di origine.
Dove ci troviamo a questo punto della nostra storia? Siamo arrivati ad un
momento solenne: l'ora in cui il colonialismo anche se non e' ancora morto
mostra comunque di riconoscersi come mortale.
Il colonialismo puo' ancora opprimere e distruggere in maniera ancora piu'
crudele che mai, ma una cosa e' sicura: esso e' moralmente colpito, si sente
perituro ed ha perduto la sua sicurezza storica.
Il miglior segno di questa situazione credo che sia offerto dalla rapida
fortuna negli ultimi tempi della parola decolonizzazione. Tanto che i nostri
contemporanei anche se confusamente sono arrivati a comprendere che la
nostra epoca puo' essere definita in questo modo: il secolo XIX e' stato il
secolo della colonizzazione mentre quello XX e' stato il secolo della
decolonizzazione.
Ma allora, si dira', visto che e' questa la china del secolo, basta "lasciar
fare" e la decolonizzazione si compira' da sola. Bisogna convincersi,
invece, che la decolonizzazione non e' affatto un processo automatico, e
inoltre le decolonizzazioni non sono tutte uguali. La decolonizzazione non
e' automatica... Questo significa che la decolonizzazione non e' mai il
risultato di un "fiat" della coscienza del colonizzatore, ma e' sempre il
portato di una spinta e di una lotta. Anche quella piu' pacifica e' sempre
il risultato di una rottura.
Insisto: le decolonizzazioni non sono tutte uguali. Prova ne sia la
disparita' nello sviluppo dei paesi diventati liberi: alcuni si divincolano
con difficolta' dagli strascichi del colonialismo, mentre altri, al
contrario, procedono rapidamente e con sicurezza sulla strada soleggiata
dell'indipendenza.
*
Mi sembra che queste considerazioni generali possano fornirci la giusta
dimensione per intendere il problema della nostra legittimita' e delle
nostre responsabilita' di uomini di cultura.
Il nostro dovere, il nostro doppio dovere, ci appare chiaro: e' quello di
accelerare la decolonizzazione, ed e', nel presente, di preparare la buona
decolonizzazione, una decolonizzazione senza difficolta'.
Che significa accelerare la decolonizzazione? Significa che bisogna con
tutti i mezzi accelerare la maturazione della coscienza popolare, senza la
quale non ci sara' mai una vera decolonizzazione. E' nelle classi popolari,
infatti, che sopravvive nella maniera piu' spontanea ed evidente, anche
contro la piu' forte oppressione colonialista, il sentimento nazionale.
Ma e' giusto anche dire che questo sentimento immediato ha bisogno di essere
reso autentico, di essere propagato e raffinato. Bisogna trasformare questo
sentimento in una vera e propria coscienza, una specie di sole radiante. E
solo l'uomo di cultura puo' farlo.
Non si tratta di avvalorare una concezione messianica dell'artista e dello
scrittore. Non mi sentirete mai dire, alla maniera romantica, che il poeta o
lo scrittore sono i creatori delle nazioni o dei valori nazionali. Si tratta
di una cosa piu' semplice: l'uomo di cultura e' chi attraverso la creazione
esprime e da' forma. E questa stessa espressione, proprio per il fatto di
essere espressione e quindi un portare alla luce, crea o ricrea -
dialetticamente - secondo la propria immagine il sentimento di cui raccoglie
l'emanazione.
Non c'e' mai, io credo, carenza di sentimento nazionale. Semmai c'e' una
inadeguatezza dell'uomo di cultura ad esprimerlo. In ogni momento il
sentimento nazionale c'e': malinteso, forse, e in forme strane o addirittura
derisorie, ma c'e'. Anche nei paesi piu' disgraziati, quelli che sono stati
piu' assimilati dalle culture dei colonizzatori, c'e' e contiene tutte le
potenzialita' della rinascita culturale. Ma questo sentimento va portato
alla luce, va esaltato, e in un mondo di falsi valori va valorizzato. Questo
e' esattamente il ruolo dello scrittore e dell'artista, e su di esso si
fonda la sua legittimita'.
*
Non e' necessario cercare altrove il segreto dell'abbondanza "poetica" nei
paesi che nascono. Gli occidentali dicono: "Che strano! Avrebbero bisogno di
tecnici e invece producono poeti".
Da questo punto di vista si puo' avere fiducia nei popoli. Cio' che vale
(essi lo sanno molto bene, lo sanno dall'intimo) e' che ogni tipo di
creazione, proprio in quanto creazione, partecipa alla lotta liberatrice.
Si puo' spiegarlo come si vuole, ma questo e' il potere e la grazia della
parola, anzi, il potere dell'atto che crea.
Il regime coloniale e' la negazione dell'atto creativo: negazione della
creazione stessa. Nella societa' coloniale non c'e' soltanto una gerarchia
tra padrone e servo, c'e' anche, implicita, una gerarchia tra creatore e
consumatore.
Il creatore di valori culturali, in una colonia che si rispetti, e' il
colonizzatore. E il consumatore e' il colonizzato. E tutto va per il verso
giusto fino a che la gerarchia non viene toccata. La legge del paese
colonizzato e': "Si prega di non disturbare".
La creazione culturale, proprio perche' creazione, disturba e rivolta: nella
gerarchia coloniale, infatti, sovverte i ruoli facendo diventare il
colonizzato creatore da consumatore che era e doveva essere. Insomma, nel
cuore del regime coloniale essa restituisce l'iniziativa storica a colui che
ne e' stato derubato: derubare e' la "vocazione" del regime coloniale.
E' per questo che il colonizzatore guarda sempre con sospetto qualsiasi
forma creativa del colonizzato. Puo' anche sopportarla e provare addirittura
ad utilizzarla, ma per il colonizzatore la creazione indigena e'
fondamentalmente insolita e quindi pericolosa. Se se ne vuole una prova, tra
le tante, basti pensare all'accoglienza riservata a primi esiti della
letteratura negra in Francia, all'ostilita' con la quale furono trattati un
Rene' Maran o un Rabearivelo trent'anni fa... La loro semplice esistenza
faceva scandalo...
Per la stessa ragione per cui e' considerata pericolosa dal colonizzatore la
creazione culturale e' rassicurante, nel vero senso della parola, per il
colonizzato. Essa, infatti, fa da contrappeso al complesso di inferiorita'
che il colonizzatore ha per "missione" di istillare nei colonizzati.
Ecco perche' bisogna creare...
*
Si', in definitiva, e' agli artisti, agli scrittori e agli uomini di cultura
che tocca, nella quotidianita' delle sofferenze e delle ingiustizie,
maneggiando ricordi e speranze, di costruire delle grandi riserve di
fiducia, dei grandi silos di forza ai quali i popoli nei momenti critici
possano far rifornimento di coraggio e assumersi la responsabilita' diretta
di forzare l'avvenire. Alcuni hanno detto che lo scrittore e' un ingegnere
di anime.
Noi, nella congiuntura storica nella quale ci troviamo, siamo dei
propagatori di anime, dei moltiplicatori di anime, e al limite degli
inventori di anime.
*
E aggiungo che la missione dell'uomo di cultura nero e' quella di rendere
possibile una buona decolonizzazione e non una decolonizzazione qualsiasi.
Voglio che mi si intenda bene: e' chiaro che per noi non c'e' e non ci
potrebbe essere una cattiva decolonizzazione in se'. Per il semplice motivo
che la peggiore decolonizzazione sarebbe di gran lunga e sempre preferibile
alla migliore colonizzazione. Tra decolonizzazione e colonizzazione non c'e'
una scala graduata, c'e' una differenza di valori.
Infine dico e ripeto che e' nel seno della decolonizzazione che ci sono
delle gradazioni, che le decolonizzazioni non sono tutte uguali e se la
"buona decolonizzazione" non puo' essere definita se non per opposizione a
una "decolonizzazione meno buona", dico che quest'ultima e' quella che
nell'orizzonte dell'indipendenza non fa altro che cercare di utilizzare le
strutture coloniali, adattandole alla nuova realta', mentre la vera
decolonizzazione e' quella che comprende che e' suo dovere di eliminare in
maniera definitiva tutte le strutture del colonialismo.
Per farmi capire meglio diro' qualcosa che forse potra' dispiacere a
qualcuno, ma che bisogna dire perche' e' vera e perche' individua meglio le
nostre responsabilita': troppo spesso vediamo riproporsi nelle societa'
liberatesi dal colonialismo delle vere e proprie strutture coloniali o
colonialiste. O ancora, in paesi imperfettamente decolonizzati si rischia di
veder riapparire in qualsiasi momento dei fenomeni tipicamente colonialisti,
che non vengono strumentalizzati dal colonizzatore o dall'imperialista, ma
da gruppi di interesse che nelle nazioni liberate si propongono come epigoni
del colonialismo e si servono degli strumenti inventati dal colonialismo.
Si pensi, per fare un esempio, ai conflitti razziali in America centrale e
in America latina e ci si accorgera' che si tratta di un'eredita' o di una
sopravvivenza del regime coloniale, in paesi che se ne sono sbarazzati
centocinquant'anni fa. E se ricordo questo caso non e' per disprezzare lo
sforzo liberatore che ha condotto questi paesi a formarsi come nazioni, ma
e' per dire a tutti i responsabili che dobbiamo prendere consapevolezza di
un fatto: la lotta contro il colonialismo non sara' terminata fino a quando
l'imperialismo non sara' vinto militarmente.
In breve, non dobbiamo darci da fare per spostare un po' in la' il
colonialismo o per interiorizzarne la cultura della servitu'. Bisogna invece
distruggerlo, estirparlo nel vero senso della parola, e cioe' togliergli le
radici. Ecco perche' la vera decolonizzazione dovra' essere rivoluzionaria o
non sara' niente. Questa prospettiva permette di comprendere come sia vano
il tentativo di alcuni di accreditare l'idea che tra l'epoca coloniale e il
tempo della liberta' bisogna governare il cammino per tappe e transizioni.
In effetti, l'Europa presaga della fine inevitabile del colonialismo e
volendone ritardare la scadenza, ha inventato la teoria delle tappe.
*
E' sempre stata una fissazione dell'Occidente. Fin dai tempi dello
schiavismo nei territori sotto la sovranita' francese - prima del 1848 -
delle anime buone e degli spiriti illuminati, acquisiti alla causa
dell'emancipazione degli schiavi, preconizzavano l'idea che bisognasse
arrivarci attraverso delle tappe necessarie. Penso, ad esempio, allo storico
Tocqueville, che, favorevole al principio dell'emancipazione degli schiavi,
lo sfumava e temperava: "Pensate un po': se si progettasse di rendere la
liberta' agli schiavi da un giorno all'altro, sarebbe una vera catastrofe! E
innanzitutto per gli schiavi stessi!". Si teorizzava, insomma, che ci
dovesse essere un periodo di apprendistato della liberta' in modo da mettere
in grado lo schiavo negro di poter arrivare un giorno a sopportare la
liberta'.
Questa teoria viene oggi applicata ai popoli. Non potendo opporre ai popoli
coloniali un brutale rifiuto, si promette loro l'indipendenza, ma a termine.
Bisogna fare l'apprendistato preventivo all'indipendenza. E' necessario
convincersi, invece, che la schiavitu' non puo' essere una scuola di
liberta' e che il colonialismo non puo' essere scuola di indipendenza; e
questo vale per i colonialisti di oggi come per gli schiavisti di un tempo.
Si tratta di due ordini di socialita' assolutamente diversi e mai l'uno
potra' nascere dall'altro, se non attraverso la rivolta e la discontinuita'.
*
E allora, se rifiutiamo l'idea di un periodo di apprendistato, ed abbiamo
ragione di farlo, e se crediamo, ed abbiamo ragione di crederlo, che il
passaggio dall'epoca coloniale a quella della vera decolonizzazione non puo'
avvenire se non attraverso la discontinuita' e la rottura, cio' avvalora e
definisce con piu' completezza le nostre responsabilita' di uomini di
cultura. Poiche' e' l'uomo di cultura che nella stessa societa' coloniale
deve far fare al suo popolo l'apprendistato della liberta'. L'uomo di
cultura, lo scrittore, il poeta e l'artista fanno fare al proprio popolo
questa attivita' perche' nella situazione coloniale la creazione culturale
e' gia' apprendistato.
Siamo stati messi in guardia contro la tentazione di credere che si possa
mai ristrutturare una cultura indigena in un contesto coloniale. E
certamente con ragione. Ma la ristrutturazione di una cultura e' un'opera di
lunga durata e non ho dubbi che nella situazione coloniale odierna e piu'
esattamente nella fase di transizione in cui viviamo, l'attivita' culturale
creatrice, e proprio questo la legittima, prepara fin da ora
l'indispensabile ristrutturazione.
Al primo Congresso degli scrittori e degli artisti neri - nel 1956 a
Parigi - ho affermato che se c'e' una cosa che caratterizza la situazione
coloniale e' l'anarchia culturale. La colonizzazione ha provocato
l'eterogeneita' e l'anarchia culturale devastando l'unita' primitiva di ogni
cultura. L'ordine coloniale si traduce in un disordine culturale.
Oggi, qui a Roma, sostengo che nella attuale situazione coloniale - hic et
nunc - lo scrittore e l'artista sono quelli che preparano la buona
decolonizzazione contribuendo gia' da ora a mettere ordine nel caos
culturale.
Prendiamo il romanzo o la poesia negri. E' inutile stare a ricostruire
prestiti e influenze. I materiali possono essere disparati ed eterogenei, ma
tutto e' rifuso e trasceso, dominato e ri-strutturato: cos'e' l'arte,
infatti, se non dare forma e struttura?
Questo mi sembra che sia il primo contributo dello scrittore e dell'artista
alla liberazione del proprio popolo.
*
In secondo luogo, poi, bisogna continuare a strappare l'aureola alla
colonizzazione. Essa, lo ripeto, e' disordine, e non ordine, unita',
conquista e annessione al mondo di territori troppo a lungo rimasti isolati.
Proprio il contrario e' vero. L'imperialismo separa e divide, l'imperialismo
balcanizza, volendo usare un termine che Senghor ha reso famoso. Ed esso
separa e divide in tanti piu' modi di quanti non si creda: non solo nello
spazio ma anche, cosa altrettanto grave, nel tempo.
Nello spazio: basti ricordare la spartizione dell'Africa fatta al Congresso
di Berlino o la tratta degli schiavi africani che fu sradicamento e
diaspora.
Ma la balcanizzazione si attua anche nel tempo, perche' l'imperialismo
spacca la storia. Il prima e il dopo sono stabiliti rispetto alla
discontinuita' portata dalla colonizzazione. Tutto cio' che sta prima della
conquista coloniale e' preistoria, la storia comincia con l'arrivo
dell'Europa. Il "continuum" storico viene interrotto, con tutte le
deplorevoli conseguenze culturali: la scienza africana, la filosofia
africana e la storia africana diventano folklore, vale a dire letteratura,
filosofia e scienza degradate, e l'arte diventa arte primitiva. E tutto
questo processo culmina nell'opposizione, tutta europea, fra tradizione ed
evoluzione.
Bisogna rendersi conto, invece, quando Sekou Toure', leader di un paese
libero, afferma con fierezza: "Sono il discendente di Samory", non non ci
troviamo di fronte ad una specie di puerile rivendicazione genealogica.
Questa rivendicazione sta a significare: "Assumo su di me Samory". Si tratta
di un gesto molto importante, perche' ristabilisce la catena storica e
rimette le cose al loro giusto posto. Sekou dice: la colonizzazione non e'
la storia, e' un accidente, bisogna ricostituire il "continuum" storico.
Egli riafferma e reinventa la continuita' della storia interrotta
dall'intrusione coloniale.
Noi uomini di cultura neri dobbiamo cercare su questo terreno il dovere da
compiere: esso consiste nel ristabilire la doppia continuita' spaccata dal
colonialismo: la continuita' con il mondo e quella con noi stessi.
*
Noi, infatti, siamo forze di verita', siamo quelli che reintroducono nel
mondo i nostri popoli e i reinventori della solidarieta' tra di noi, della
quale il colonialismo ha cercato di offuscare e distruggere il principio.
Noi siamo e vogliamo essere, al di la' della menzogna del colonialismo,
uomini della verita' e soldati dell'unita' e della fraternita'.
Lo scrittore e l'artista neri, a loro modo, ristabiliscono anche la
solidarieta' attraverso il tempo. Tradizione o Evoluzione? Questo tipo di
opposizione diventa insensata nella e attraverso la creazione artistica
perche' l'arte e' proprio quel tipo di verita' che fonde e raduna in un solo
impeto gli elementi separati e disparati.
Pretendo e sostengo che non si debba cercare in altri posti il segreto
dell'importanza della letteratura e dell'arte nelle circostanze in cui
vivono attualmente i nostri popoli. Nelle attuali condizioni, la piu' grande
ambizione della nostra letteratura deve essere quella di tendere a diventare
letteratura sacra, e la nostra arte, arte sacra. Innalzando
all'universalita' la situazione particolare dei nostri popoli,
ricollegandoli alla storia e al corso del divenire; negando la stagnazione,
la creazione artistica deve mobilitare con la propria forza le forze vergini
delle emozioni. Cosi' al suo appello si possono destare risorse psichiche
insospettate che vanno a restaurare il corpo sociale scempiato dallo choc
coloniale e gli danno coscienza della sua capacita' di resistenza e della
sua vocazione all'iniziativa.
*
Compagni, congressisti, tutto quanto ho affermato mi sembra che legittimi
sufficientemente la nostra attivita' di scrittori e di artisti e che, allo
stesso tempo, definisca le nostre responsabilita'.
La nostra legittimita' consiste nella partecipare con tutte le fibre alla
lotta per la liberazione dei nostri popoli. La nostra responsabilita' sta
nel riconoscere che dipende in gran parte da noi l'uso che i nostri popoli
sapranno fare della riconquistata liberta'. E' questo che fonda, piu'
profondamente di qualsiasi altro dovere, il nostro dovere di uomini. C'e'
una domanda alla quale nessun uomo di cultura, a qualunque paese o razza
egli appartenga, puo' sfuggire: "Che tipo di mondo stiamo preparando?".
Diciamolo con chiarezza: combattendo insieme ai nostri popoli per la
liberazione e per la dignita', per la verita' e per il loro riconoscimento,
in fondo combattiamo per il mondo intero, per liberarlo dalle tirannidi,
dagli odi e dai fanatismi.
Combattiamo le lotte del nostro tempo, per particolari che siano, perche' il
mondo possa essere ringiovanito e riequilibrato. Altrimenti nulla avrebbe
senso, ne' la lotta di oggi, ne' la vittoria di domani.
Solo in quel caso avremo vinto veramente e la nostra vittoria finale
segnera' l'avvento di una nuova era.
Avremo contribuito a dare un senso, il suo senso, al termine piu'
galvanizzante e piu' glorioso: avremo contribuito a fondare l'umanesimo
universale.

2. LUTTI. MARCO DOTTI RICORDA AIME' CESAIRE
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 18 aprile 2008, col titolo "Aime'
Cesaire. 'Fammi ribelle come un pugno quando il braccio si stende'" e il
sommario "Poeta, autore di teatro, teorico politico, e' morto ieri nella
Martinica in cui era nato novantaquattro anni fa il grande cantore della
negritudine, che tra i primi aveva chiamato al tribunale della coscienza la
civilta' europea reponsabile della colonizzazione. Breton aveva detto della
sua parola che e' 'bella come ossigeno allo stato nascente'".
Marco Dotti e' saggista e redattore di Stampa Alternativa]

Per quanto potesse risultare spiazzante, e persino sconvolgente in ragione
di quello che Michel Leiris individuo' come il suo "lirismo a briglia
sciolta", l'opera di Aime' Cesaire, se debitamente sfrondata da certe
escrescenze barocche, conservera' per sempre la peculiarita' di non essersi
mai davvero allontanata dal contesto antillano. Partendo da quella "sacca
innominabile della fame, della miseria e dell'oppressione" che era e
purtroppo rimane la Martinica francese, e dalla casa paterna "piccola e
crudele, che nelle sue viscere di legno marcio ospita decine di topi" dove
era nato il 26 giugno di novantaquattro anni fa, Cesaire ha mostrato - fino
alla sua scomparsa avvenuta ieri a Fort de France - di sapersi muovere
seguendo la duplice tensione e il doppio richiamo di un immaginario al tempo
stesso particolare e universale. Un immaginario incarnato dal microcosmo
antillano e dalla comunita' nera, non piu' distinta su una base "nazionale"
bensi' secondo quel criterio fluido per il quale Cesaire avrebbe coniato una
fortunata definizione ormai passata al sillabario politico dello scorso
millennio: negritudine.
*
Il suo immaginario "concreto"
Cesaire e' stato autore di un'opera, di un programma, di un registro poetico
e politico dotati di straordinaria linearita' e coerenza, come ribadisce
anche il titolo di quello che rimane il suo ultimo libro, Negro sono e negro
restero' (Citta' aperta edizioni, 2006), frutto di una lunga serie di
conversazioni con Francoise Verges in cui, a partire dalla scelta tutt'altro
che neutra del termine "negre", lo scrittore ritornava sul suo essere
orgogliosamente e incondizionatamente "negro, negro dal profondo del cielo
immemoriale". Tanto negli scritti politici, quando nella sua opera
propriamente poetica, al contrario di molti suoi compagni smarriti lungo la
strada a senso unico di una politica troppo istituzionale, Cesaire e'
riuscito a coniugare la lucidissima capacita' di critica e analisi sociale
sintetizzata nel Discorso sul colonialismo del '55 con una non meno
disarmante abilita' di scrittura, entrambe ancorate con successo a quello
che Michel Leiris ha definito un "immaginario essenzialmente e radicalmente
concreto".
Dalle poesie di Io, Laminaria all'oratorio teatrale della Tragedia di re
Cristoforo, dalla pirce Una stagione in Congo fino ai versi di Ferrements e
I cani tacciono, il lavoro di Cesaire si e' mostrato fedele soprattutto a
una rigorosa estetica della parola e della potenza suscitata
dall'immaginazione poetica, rilette in chiave africana. In una lettera sulla
poesia, indirizzata a una delle sue prime interpreti, Lylian Kesteloot,
scriveva: "Nel Mestiere di vivere di Pavese, trovo una notazione: il verde
dell'albero e' la sua forza (in latino viridis; vis, la forza). Accostamento
suggestivo, da interpretare all'africana". E ancora: "non so neppure se
senza parola ci possa essere un 'io'... il mio 'io' e' vago, sfocato,
incerto, e' simile a una specie di torpore. Solo la parola mi permette di
capirmi, di cogliermi". Una convinzione, questa, sulla quale sarebbe tornato
anche nel corso di una delle ultime interviste concesse nel 1988, prima del
suo ritiro dalla scena della politica attiva - che lo ha visto per lunghi
anni deputato all'Assemblea nazionale e fondatore e dirigente del partito
progressista della Martinica - ribadendo come "tutti i miei segreti si
trovano nelle mie poesie. Bisogna solo decriptarli, decodificarli e trovarne
la chiave. Sono certo che vi sia una fondamentale coerenza nel grande
disordine apparente dei miei scritti. Ho inventato il mio vocabolario e ho
forgiato la mia mitologia". Essendosi trovato a fiancheggiare, per un certo
periodo sul finire degli anni '30, l'ultima ondata del movimento
surrealista, Aime' Cesaire aveva tratto dal gruppo di Breton soprattutto la
passione per Lautreamont e Rimbaud, chiavi delle sua futura produzione
poetica e saggistica. Proprio al creatore di Maldoror e di tutta una
"mitologia moderna", Cesaire avrebbe infatti dedicato uno dei suoi primi e
piu' acuti saggi, provocatoriamente intitolato "La poesia di Lautreamont
bella come un decreto di espropriazione", mentre a Rimbaud si sarebbe
dichiaratamente ispirato per quello che rimane, probabilmente, il suo
capolavoro poetico, il Cahier d'un retour au pays natal.
Opera prima di Cesaire, pubblicata su rivista nel 1939 e apparsa in volume
solo nel 1947 dall'editore Bordas, il Cahier e' stata il manifesto di piu'
di una generazione di intellettuali, che direttamente o indirettamente si
sono riconosciuti nell'idea e nello spazio inaugurato dal concetto di
negritude. Corrosiva, amara, dirompente, questa opera e' segnata da una
evidente urgenza biografica, quella del ritorno dello scrittore nel suo
"paese natale". E' un viaggio alla rovescia, in cui e' forte l'eco della
"tratta immemoriale" degli schiavi, e in cui la parola si converte in una
sorta di incanto magico, di fascinazione rivoltosa: "fammi ribelle a ogni
vanita', ma docile al tuo genio, come un pugno, quando si stende il
braccio... Fammi depositario del suo sangue, del suo risentimento, fa di me
un uomo di termine e di iniziazione".
*
Dall'universo di Lautreamont
Andre' Breton, nella sua premessa all'edizione del 1947, ipotizzava che
questi versi fossero stati rubati all'universo di Lautreamont. E li definiva
un "documento unico, insostituibile", che come ogni vera poesia "comincia
con l'eccesso, la dismisura, le ricerche colpite da interdetto, nel grande,
cieco tam-tam, fino a una incomprensibile pioggia di stelle... La parola di
Aime' Cesaire e' bella come ossigeno allo stato nascente".
Un poema di Cesaire, disse alla sua maniera Jean-Paul Sartre, e' qualcosa
che "esplode ruotando su di se' come un razzo", per questa ragione la
"densita' delle sue parole, gettate in aria come pietre da un vulcano, e'
precisamente quella negritudine che si definisce contro l'Europa e la
colonizzazione". In anni piu' recenti, uno fra i piu' attenti studiosi
dell'opera di Cesaire, Georges Ngal, ha fatto notare come le suggestioni
mutuate da Lautreamont si estendano dalla poesia alla saggistica dello
scrittore antillano, dando luogo a inedite convergenze dottrinali tra il
secondo Canto di Maldoror e l'apparente linearita' del Discorso sul
colonialismo. Opera solo a prima vista ben strutturata e suddivisa, al
contrario di quanto avveniva per il Cahier d'un retour au pays natal - dove
prosa e poesia si confondevano, senza soluzioni tipografiche di
continuita' - il Discorso sul colonialismo rivela che lo sviluppo e
l'articolazione del pensiero di Cesaire erano ormai irrinunciabilmente
segnati dalla sua "esplosione lirica". Quella di cui parlava Leiris, quella
che si voleva propria di una parola dichiaratamente "profetica", o forse
solo informata dall'"emozione primaria" dell'essere uomini.
*
Postilla biobibliografica. Lungo una lunga vita. Tra l'impegno politico e
quello letterario
Aime' Fernand David Cesaire era nato a Basse-Point, Martinica nel 1913. Si
era trasferito a Parigi per studiare all'Ecole normale e aveva conosciuto il
senegalese Leopold Senghor e il guaianese Leon Gontran Damas: tutti e tre
faranno il loro ingresso nella "Pleiade" tra quest'anno e il 2013. Insieme
fondarono la rivista "L'etudiant noir", presto diventata un punto di
riferimento per gli studenti neri della capitale francese e formularono il
concetto di "negritudine", poi inglobato nelle idee che nutrirono le lotte
dei neri per l'indipendenza. Nel 1939 Cesaire torno' in Martinica e fondo'
la rivista "Tropiques" lavorando per la liberazione dal colonialismo
francese della sua isola natale, effettivamente diventata nel '46 un
Dipartimento d'oltremare della Francia. Deputato della Martinica
all'assemblea generale francese, fu sindaco della capitale Fort-de-France
dal 1945 al 2001. Poeta e autore di drammi che raccontano la sorte e le
lotte degli schiavi dei territori colonizzati dalla Francia, Cesaire ha
scritto Diario del ritorno al paese natale (Jaca Book), una tragedia in
versi di ispirazione surrealista, e fra le sue raccolte poetiche, Le armi
miracolose (Guanda) e Io, laminaria (Bulzoni). Nel 1955 pubblico' il
Discorso sul colonialismo, il suo manifesto di rivolta, tradotto dalla
cooperativa romana Lilith e introvabile, di cui ritraduciamo qui qualche
passo. A partire dagli anni '60, si dedico' alla formazione di un teatro
politico popolare. Tra le sue opere teatrali piu' rilevanti: La tragedia di
re Cristoforo (Einaudi) e Una stagione in Congo (Argo).

3. LUTTI. DOMENICO QUIRICO RICORDA AIME' CESAIRE
[Dal sito www.lastampa.it riprendiamo il seguente articolo del 18 aprile
2008 dal titolo "Addio Aime' Cesaire. Invento' la 'negritude'".
Domenico Quirico e' corripondente da Parigi del quotidiano "La stampa"]

Senza soffrire, nello spazio di una notte, Aime' Cesaire si e' staccato
dalla vita. Da tempo aveva avuto duri ammonimenti del male. Eppure, a 94
anni, non e' mai stato un uomo vecchio; era semmai un uomo antico, modellato
in qualcosa di incorrotto e senza tempo. Era dello stesso cuoio duro dei
suoi antenati trascinati dall'Africa al Caribe: gli schiavi che riempivano
le navi dei corsari della carne umana. Ma erano gli schiavi che avevano
avuto il coraggio di spezzare le catene, i giacobini neri, cosi' scomodi per
gli altri che sulle rive della Senna scaldavano i cuori con parole,
fratellanza liberta' eguaglianza, e poi sbiadivano quando sbarcavano a Haiti
o nella Martinica. Aveva lo stesso sangue e lo stesso cuore dei Toussaint,
dei Dessalines. Le sue mani di poeta, di intellettuale che sembravano dolci
e miti, erano mani di incendiario. Se ne era accorto anche Sarkozy, tre anni
fa lasciato alla porta, per quella legge sul "ruolo positivo della
colonizzazione" che al vecchio apostolo di Port-au-Prince era sembrata un
insulto. E per inchinarsi il presidente ha dovuto fare due anni di
anticamera.
Quando aveva inventato quella magica, esplosiva parola "negritudine", su una
rivista, correva il 1935: nell'impero francese gli indigeni sudavano
pazienti e negletti per la grandeur della Republique, e fioriva il terribile
esotismo delle Esposizioni coloniali. Il martinicano Cesaire e il senegalese
Senghor erano quelli che gli antropologi parigini e i governatori
cortesemente definivano evolues, ovvero neri che avevano studiato, che
assomigliavano ai bianchi. Sarebbe stato semplice adagiarvisi, diventare un
alibi ben pagato per i rimorsi dell'uomo bianco, ottenere un passaporto per
i salotti della Rive gauche. Invece lui impresse quelle parole di fuoco
sulla sua opera di poeta e di uomo di teatro: "La negritude e' la negazione
della negazione dell'uomo nero, e' il rifiuto della assimilazione, il
rifiuto di una certa immagine del nero pacifico, incapace di costruire una
civilta'". Tra gli allievi del suo liceo "Schoelcher", c'era un giovane di
nome Fanon, che l'aveva letto avidamente. Trent'anni dopo avrebbe pubblicato
un libro terribile che liquido' il colonialismo: I dannati della terra.

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LA DOMENICA DELLA NONVIOLENZA
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Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
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Numero 160 del 20 aprile 2008

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