La domenica della nonviolenza. 98



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LA DOMENICA DELLA NONVIOLENZA
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Supplemento domenicale de "La nonviolenza e' in cammino"
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it
Numero 98 del 5 novembre 2006

In questo numero:
1. Mao Valpiana: La politica della nonviolenza. Un seminario promosso dal
Movimento Nonviolento
2. Ron Allen: Le medaglie e i ragazzi
3. Ambra Pirri: Alterita' e relazione. la riflessione di Gayatri Chakravorty
Spivak
4. Barbara Spinelli: Compromaty
5. Da Firenze il 4 novembre un invito nonviolento ai  militari
6. "We vote for peace". Un sit-in a Roma

1. INCONTRI. MAO VALPIANA: LA POLITICA DELLA NONVIOLENZA. UN SEMINARIO
PROMOSSO DAL MOVIMENTO NONVIOLENTO
[Ringraziamo Mao Valpiana (per contatti: mao at sis.it, e anche presso la
redazione di "Azione nonviolenta", via Spagna 8, 37123 Verona, tel.
0458009803, fax  0458009212, e-mail: an at nonviolenti.org, sito:
www.nonviolenti.org) per averci messo a disposizione l'editoriale del
fascicolo di "Azione nonviolenta" di novembre 2006 che presenta un primo
resoconto del seminario su "La politica della nonviolenza (alla prova della
guerra)" svoltosi il 21-22 ottobre 2006 a Verona. Mao (Massimo) Valpiana e'
una delle figure piu' belle e autorevoli della nonviolenza in Italia; e'
nato nel 1955 a Verona dove vive ed opera come assistente sociale e
giornalista; fin da giovanissimo si e' impegnato nel Movimento Nonviolento
(si e' diplomato con una tesi su "La nonviolenza come metodo innovativo di
intervento nel sociale"), e' membro del comitato di coordinamento nazionale
del Movimento Nonviolento, responsabile della Casa della nonviolenza di
Verona e direttore della rivista mensile "Azione Nonviolenta", fondata nel
1964 da Aldo Capitini. Obiettore di coscienza al servizio e alle spese
militari ha partecipato tra l'altro nel 1972 alla campagna per il
riconoscimento dell'obiezione di coscienza e alla fondazione della Lega
obiettori di coscienza (Loc), di cui e' stato segretario nazionale; durante
la prima guerra del Golfo ha partecipato ad un'azione diretta nonviolenta
per fermare un treno carico di armi (processato per "blocco ferroviario", e'
stato assolto); e' inoltre membro del consiglio direttivo della Fondazione
Alexander Langer, ha fatto parte del Consiglio della War Resisters
International e del Beoc (Ufficio Europeo dell'Obiezione di Coscienza); e'
stato anche tra i promotori del "Verona Forum" (comitato di sostegno alle
forze ed iniziative di pace nei Balcani) e della marcia per la pace da
Trieste a Belgrado nel 1991; nel giugno 2005 ha promosso il digiuno di
solidarieta' con Clementina Cantoni, la volontaria italiana rapita in
Afghanistan e poi liberata. Un suo profilo autobiografico, scritto con
grande gentilezza e generosita' su nostra richiesta, e' nel n. 435 del 4
dicembre 2002 di questo notiziario]

Piu' di cinquanta amiche ed amici della nonviolenza si sono riuniti a Verona
nei giorni 21 e 22 ottobre per partecipare al seminario sulla politica della
nonviolenza. Nella sala dei missionari comboniani, che ha ospitato i nostri
lavori, erano appesi quattro cartelli significativi che hanno dato
l'impronta alle due giornate di riunione: "Parlare e ascoltare", "Il potere
di tutti", "La forza preziosa dei piccoli gruppi", "Tensione e
familiarita'". E proprio questi erano gli stati d'animo che si percepivano
da parte di tutti gli intervenuti. Ognuno si e' sentito protagonista.
Nessuno era solo spettatore. Sicuramente la formula proposta (ogni sessione
di lavoro veniva introdotta da alcune domande, alle quali ciascuno era
chiamato a rispondere, con interventi di dieci minuti, e poi una conclusione
che cercava di raccogliere tutti gli spunti e le proposte espresse) ha
aiutato a far emergere tutta la "tensione" verso la nonviolenza e tutta la
"familiarita'" che ci deve essere tra amici della nonviolenza, che spesso si
respirano negli incontri del nostro Movimento.
L'obiettivo del seminario di Verona era definire e verificare i fondamenti,
i fini e i mezzi, di una possibile strategia della nonviolenza in Italia.
L'appuntamento di Verona era una tappa del lungo cammino che abbiamo
intrapreso nel 2000 con la Marcia nonviolenta Perugia-Assisi "Mai piu'
eserciti e guerre", proseguito nel 2004 con la camminata Assisi-Gubbio "In
cammino per la nonviolenza", poi nel 2004 con il Congresso "Nonviolenza e'
politica" e infine nel 2006 con il convegno di Firenze "Nonviolenza e
politica".
Il seminario e' nato dal disagio per quanto e' avvenuto in questi mesi nel
movimento per la pace, sia nella base che a livello istituzionale, dopo le
vicende del voto parlamentare sull'Afghanistan, dopo la missione militare in
Libano, dopo l'iniziativa della Tavola della pace ad Assisi, dopo la
proposta di una campagna per il disarmo atomico, dopo i tanti appelli
lanciati ma troppo spesso lasciati cadere...
Ci sembrava che una seria riflessione di chi si riconosce nella nonviolenza
organizzata, fosse doverosa. Nel prossimo numero di "Azione nonviolenta"
pubblicheremo un resoconto degli interventi. Qui di seguito le domande
proposte e alcune risposte emerse.
*
La teoria (sulla guerra)
Domande
- Cosa significa "opposizione integrale alla guerra" (e alla sua
preparazione)?
- Abolire la guerra o ridurre la guerra? Esiste una riduzione del danno
militare?
- Come e' possibile "ripudiare la guerra"? Bisogna ripudiare anche le armi?
- La guerra e' "il piu' grande crimine contro l'umanita'": chi sono i
criminali?
- Guerra no, ma interventi armati si'? Eserciti no, ma polizia
internazionale si'?
Risposte
- Contro la guerra duri come la pietra. Il rifiuto della guerra e' la
condizione...
- La guerra: mai piu' guerra e eserciti. La specificita'.
- L'obbedienza non e' piu' una virtu', ma la disobbedienza lo e' sotto
specifiche condizioni.
- Da guerra motore della storia, a flagello dell'umanita'.
- Dal bellum justum allo jus contra bellum: raccogliamo le bandiere lasciate
cadere.
- Critica dell'istituzione militare.
- Portare armi, prepararsi alla guerra, eseguirla nelle sue varie forme
- Guerra e polizia
- A fare che (e come) in Iraq, Afghanistan, Libano: distinguere.
*
La pratica (nella politica)
Domande
- La nonviolenza e' riformista o rivoluzionaria?
- Abbandonare la radicalita'? Navigare a vista?
- Puo' esistere un partito della nonviolenza?
- Fare noi le proposte, che poi gestiranno altri?
- Solo controllo dal basso e mai al governo?
Risposte
- La critica della politica: Gandhi, Capitini.
- Arendt versus Weber: costruzione di potere di eguali e non dominio.
- Voglia di impero: assemblee e opinione pubblica.
- Il contemporaneo ci commuove.
- Il politico e l'obiettore di coscienza.
- La sinistra, cioe' dal basso, perche' da li' si muove.
- La nonviolenza organizzata e il "movimento" e l'interlocuzione con i
politici.
- Il confronto con verdi e rifondatori.
- I nostri amici nei partiti e nelle istituzioni.
*
La strategia (delle iniziative)
Domande
Dalla teoria alla pratica: come si organizza la nonviolenza?
- L'azione diretta nonviolenta e' solo del singolo, o di tutti?
- La "rete" funziona sempre? La "leadership" come nasce?
- Due metodi: metodo del consenso, o metodo della fiducia?
- Quali gli elementi essenziali di una campagna nonviolenta?
Risposte
- Le pratiche: iniziative, abbandoni, riprese, proposte...
- Forte autoreferenzialita' e frammentazione: approfondire e confrontarsi.
- La nonviolenza e' una freccia direzionale anche nella dimensione pubblica.
- Metodo dell'azione, che e' opera d'arte.
- Acquisire autorevolezza e capacita' di aggiunta ad azione per diritti
umani, pacifismo, democrazia...
- Gli amici della nonviolenza si  riconoscono da familiarita' e tensione, da
portare nel confronto.

2. TESTIMONIANZE. RON ALLEN: LE MEDAGLIE E I RAGAZZI
[Ringraziamo Maria G. Di Rienzo (per contatti: sheela59 at libero.it) per
averci messo a disposizione nella sua traduzione la seguente lettera
pubblicata sul quotidiano "The Oregonian" il 27 ottobre 2006. Ron Allen,
pluridecorato veterano del Vietnam, e' impegnato contro la guerra]

Mio padre era nativo dell'Oregon e ha combattuto nella seconda guerra
mondiale. Anch'io sono nato in Oregon e sono un veterano del cosiddetto
"conflitto" in Vietnam. Combattendo nell'esercito Usa ho, come mio padre,
visto la mia parte di morte e di rovine, da ambo le parti.
Ora, due dei miei figli continuano a ricevere volantini che incitano al
reclutamento da differenti corpi dell'esercito. Sebbene io ami il mio paese
quanto chiunque altro, incoraggero' i miei figli a fare cio' che io non feci
negli anni '60, e cioe' a rifiutarsi di andare ad uccidere persone innocenti
in altri paesi, in una guerra nata dalle menzogne, solo perche' i tuoi
governanti ti dicono di farlo.
George Bush, Donald Rumsfeld, Dick Cheney: quante onorificenze avete tutti
voi messi insieme? Io ho quattro "Stelle di bronzo" e ho quattro ragazzi. Le
posso restituire le medaglie, signor Bush, ma non avra' mai i miei figli.

3. RIFLESSIONE. AMBRA PIRRI:  ALTERITA' E RELAZIONE. LA RIFLESSIONE DI
GAYATRI CHAKRAVORTY SPIVAK
[Dal sito della Libreria delle donne di Milano (www.libreriadelledonne.it)
riprendiamo il seguente articolo originariamente apparso sul quotidiano "Il
manifesto" del 16 giugno 2004 col titolo: Disimparare il proprio privilegio
e imparare la relazione.
Ambra Pirri, intellettuale femminista, scrittrice, traduttrice, curatrice di
collane editorali, docente, e' esperta di storia, storie e studi di genere
postcoloniali.
Gayatri Chakravorty Spivak insegna alla Columbia University di New York;
bengalese di nascita, vive negli Stati Uniti; e' una delle piu' note e
apprezzate teoriche femministe americane e tra le massime rappresentanti
degli studi postcoloniali. Tra le opere di Gayatri Chakravorty Spivak: In
Other Worlds: Essays in Cultural Politics, London, Methuen 1987; Selected
Subaltern Studies, edited with Ranajit Guha, Oxford, Oxford University Press
1988; The Post-Colonial Critic: Interviews, Strategies, Dialogues, edited by
Sarah Harasym, London, Routledge 1990; Outside In the Teaching Machine,
London, Routledge 1993; A Critique of Post-Colonial Reason: Toward a History
of the Vanishing Present, Harvard University Press 1999; Death of a
Discipline, New York, Columbia University Press 2003; in italiano: "La
politica delle interpretazioni" in AA. VV., Spettri del potere, Meltemi,
Roma 2002; Morte di una disciplina, Meltemi, Roma 2003; Critica della
ragione postcoloniale, Meltemi, Roma 2004. Su Gayatri Chakravorty Spivak
riproduciamo la seguente scheda apparsa sul quotidiano "Il manifesto" del
primo febbraio 2005: "Gayatri Chakravorty Spivak e' nata il 24 febbraio 1942
a Calcutta dove si e' laureata. Nel 1960 e' andata a studiare negli Stati
Uniti, alla Cornell University, dove ha preso un master nel 1962 e il PhD
nel 1967. Ha insegnato inglese e letteratura comparata in numerose
universita', tra cui Stanford, Santa Cruz e la Goethe-Universitat a
Francoforte. E' Avalon Foundation Professor nelle Humanities alla Columbia
University di New York dove insegna dal 1991. Non ha mai voluto prendere la
cittadinanza statunitense. Nel 1976 ha tradotto De la Grammatologie di
Jacques Derrida firmando una prefazione che l'ha resa famosa. Ha scritto
piu' di cento saggi, sparsi in volumi collettanei: alcuni di essi sono
raccolti nei suoi pochi libri. In Italia, i suoi primi testi a essere
tradotti sono stati due saggi: "Decostruire la storiografia", contenuto in
Subaltern Studies, Modernita' e (post)colonialismo, pubblicato da Ombre
corte nel 2002; e "La politica delle interpretazioni" nel volume collettaneo
Spettri del potere, edito da Meltemi nel 2002. Sempre Meltemi ha curato la
traduzione di Morte di una disciplina (2003) e ora del volume A Critique of
Postcolonial Reason (Harvard University Press, 1999), nelle librerie
italiane con il titolo Critica della ragione postcoloniale. Verso una storia
del presente in dissolvenza.Tra i suoi testi pubblicati in inglese
ricordiamo: In Other Worlds: Essays in Cultural Politics, Methuen, New York
1987; The Post-Colonial Critic: Interviews, Strategies, Dialogues, ed. Sarah
Harasyn, Routledge, New York 1990; Outside in the Teaching Machine,
Routledge, New York, 1993"]

Gayatri Chakravorty Spivak, femminista post-coloniale e studiosa di
letteratura comparata, puo' aiutarci a riflettere su alcune cose che
succedono oggi tra l'Occidente e il resto del mondo, tra noi e l'Altro.
Ancora nel suo ultimo libro, Morte di una disciplina, tradotto da Meltemi
l'anno scorso, Spivak ripropone con forza - come nota Judith Butler - "un
contesto radicalmente etico come approccio allo studio dell'alterita'".
Perche', forse, non ci resta che rifugiarci nell'etica se davvero vogliamo
tentare di avere un rapporto con l'Altra, con l'Altro. Indiana per nascita,
studi e cittadinanza alla quale non ha mai abdicato; statunitense per
residenza, green-card e lavoro poiche' a New York, alla Columbia University,
insegna, Spivak si potrebbe definire un'intellettuale organica al pianeta.
E' proprio per queste ragioni che Spivak parte sempre dalla divisione
internazionale del lavoro e dalla globalizzazione che, con i suoi rapporti
di potere tra il primo e il terzo mondo, e' incastrata dentro la storia
economica, politica e culturale dell'imperialismo e del colonialismo.
Analizzare gli effetti culturali e sociali che la colonizzazione ha avuto, e
continua ad avere, sui paesi e sui soggetti colonizzati e' uno degli
obiettivi degli studi post-coloniali. Ma, a differenza degli altri
intellettuali post-coloniali, per esempio quelli che fanno capo ai Subaltern
Studies, l'attenzione di Spivak e' sempre rivolta al soggetto sessuato al
femminile, doppiamente marginalizzato dall'economia e dalla subordinazione
di gender.
*
Per capire la differenza sessuale all'interno di un mondo globalizzato,
Spivak si serve di un vocabolario concettuale e critico quasi sempre di sua
invenzione. Nascono cosi' espressioni significative come epistemic violence,
la violenza alle forme della conoscenza che l'imperialismo ha perpetrato - e
continua a perpetrare - sui popoli un tempo colonizzati, e in particolare
sulle donne. L'epistemic violence e' la rottura violenta operata sul sistema
di segni, di valori, sulle rappresentazioni del mondo, sulla cultura,
sull'organizzazione della vita e della societa' dei paesi che ieri erano
colonie, e che oggi sono, non a caso, il sud del mondo. E' grazie
all'epistemic violence che lo spazio colonizzato e' stato brutalmente
trasformato in modo tale da poter essere portato all'interno di un mondo
costruito dall'eurocentrismo.
Questo processo attraverso cui l'Occidente si e' consolidato e costituito in
quanto soggetto sovrano dell'intero globo riempiendolo del suo modo di
conoscere, delle sue rappresentazioni, del suo sistema di valori, Spivak lo
chiama worlding of a world. In questo processo, l'Occidente ha creato i suoi
Altri come oggetti da analizzare, assumendosi cosi' il potere/sapere di
rappresentarli e controllarli. Questi Altri, suggerisce Spivak, non sono
veramente umani: costruiti come inferiori fin da quando l'Europa conquisto'
quasi l'intero mondo, continuano a esserlo anche oggi perche' non sono
considerati abbastanza sviluppati o abbastanza civilizzati o abbastanza
democratici. C'e' un unico soggetto universale e abbastanza perfetto, la
norma per l'appunto: il maschio bianco; e l'Occidente ne e' la grande
estensione.
*
E che l'Altro continui a essere costruito e rappresentato come un essere
inferiore, privo di storia e cultura, al confine tra l'uomo e la bestia, e
con il quale non c'e' ragione di dialogare perche' l'unica ragione possibile
e' l'umiliazione o la violenza, non e' mai stato cosi' vero. Ce lo hanno
detto ancora una volta, casomai ce ne fosse stato bisogno, quegli uomini e
quelle donne che abbiamo visto ridere, fumare e alzare il pollice in
posizione eretta mentre scattavano foto dell'Altro, nudo e al guinzaglio o
morto di tortura.
Racconta Spivak a Elisabeth Grosz, in un'intervista dell'84, di essersi
appassionata al pensiero di Derrida dopo aver scoperto che il filosofo
francese stava smantellando dall'interno la tradizione filosofica
occidentale, il cui eroe era l'essere umano universale. "A noi - dice Spivak
parlando del sistema educativo britannico-coloniale - insegnavano che se
potevamo cominciare ad avvicinarci a quell'essere umano universale, allora
anche noi saremmo stati umani". Umani e dunque soggetti. Oppure, soggetti e
dunque umani. Ma e' davvero cosi'? Soggettivita' e umanesimo vanno davvero
insieme anche nella pratica, oltre che nel pensiero occidentale?
*
In uno scritto del 1985, considerato il suo saggio piu' famoso, piu'
malinteso, ma anche piu' citato, Can the Subaltern Speak?, scritto in
polemica con il gruppo dei Subaltern Studies ma anche con alcuni
intellettuali post-strutturalisti e post-umanisti (Foucault e Deleuze),
Spivak mostra come l'interessamento degli intellettuali occidentali nei
confronti del soggetto coloniale finisca sempre per essere "benevolente"; il
loro atteggiamento mentale e il loro punto di vista, alla fine, coincide con
la narrazione imperialista perche' quel che promette al nativo e' la
"redenzione".
In questo saggio, Spivak si domanda se la donna subalterna puo' parlare ed
essere ascoltata o se c'e' sempre qualcuno che lo fa al suo posto e che la
rappresenta in modo distorto: gli inglesi, nell'abolire la pratica indu' del
sati (1827), si assunsero il compito di parlare per la donna nativa oppressa
dal patriarcato locale. In questo modo autolegittimarono se stessi come
liberatori e l'imperialismo come missione civilizzatrice. Gli inglesi
attribuirono alla donna subalterna una voce libera e tale da richiedere la
propria liberazione all'uomo bianco, all'imperialismo inglese. Dall'altra
parte, e contro la rappresentazione britannica, c'era il patriarcato locale,
il maschio nativo, che sosteneva che la vedova era ben felice di salire sul
rogo col marito cadavere.
Per Spivak ne' l'una ne' l'altra versione rappresenta la "vera" voce della
donna subalterna; in ambedue i discorsi la sua voce e' "ventriloquizzata" e
lei scompare dentro questo violento fare avanti e indietro tra tradizione e
modernizzazione, tra patriarcato e imperialismo. Ecco che la posizione di
soggetto della donna nativa viene costruita dall'Occidente e serve solo a
rinforzare il prestigio dell'intellettuale-interprete-benevolente della
funzione subalterna.
*
Oppure serve a rinforzare i valori laici e nazionalisti della nazione; e'
quel che e' successo in Francia con il velo.
All'improvviso la patria, cosi' affine al patriarcato con i suoi valori
militaristi e sessisti, diventa femminista e usa il femminismo contro le
altre culture; abbiamo avuto due anni fa il paradosso dell'antiabortista
Bush che andava a bombardare l'Afghanistan per liberare le donne dal burqa,
e oggi abbiamo quello della Francia che libera le musulmane dal velo. Il
fatto e' che il velo continua ad accendere le fantasie pruriginose del
maschio occidentale che non sopporta di essere guardato ma di non poter
guardare; solo lui ha diritto a osservare, analizzare, valutare, giudicare.
Il suo "imperial I-eye" non deve incontrare barriere: l'espressione, che
gioca con i suoni, simili in inglese, e che significa tanto l'Io quanto
l'occhio imperiale, e' della studiosa post-coloniale Mary Louise Pratt;
descrive lo sguardo insistente del maschio bianco che "disumanizza,
paralizza e uccide", come scriveva, a proposito dell'Algeria, della
colonizzazione francese e del velo, Fanon.
In Algeria, durante i 130 anni della loro occupazione, i francesi hanno
tentato di "svelare" le donne, di rendere i loro corpi disponibili all'I-eye
occidentale, come mezzo per conquistare culturalmente l'intero paese. Ecco
che il velo diventa la posta di una battaglia grandiosa tra l'Occidente e
l'Altro, mentre l'Altra viene usata come simbolo e terra di conquista, dagli
uni e dagli altri. Conquistare lei significa annientare lui. Imporle o
vietarle il velo significa ascriverla a un patriarcato o a un altro.
*
Oggi, in epoca di emancipazione femminile - che tuttavia poco o nulla ha a
che vedere con la liberta' delle donne - si trasforma nel suo
contrario-uguale: lei occidentale che porta lui musulmano al guinzaglio; la
metafora sessuale, maschil-dominante, e' identica.
Ma Spivak critica anche il femminismo internazionale, che continua a mettere
al centro l'Occidente - o un personaggio occidentale, in questo caso la
femminista - che si autocostituisce come soggetto di conoscenza, salvezza,
aiuto, proprio perche' ha costruito l'Altra come oggetto della sua
illuminata compassione. Rappresentare l'Altra, dall'altra parte del mondo,
come una sorella svantaggiata serve a farci sentire soggetti liberati, a
rimandarci un'immagine di noi stesse ingrandita. E' cosi' che si diventa
soggetti, in senso maschile, costruendosi un oggetto, un Altro inferiore. Il
femminismo occidentale ha criticato il soggetto sovrano maschile ma poi
rischia di fare, con le donne del cosiddetto terzo mondo, esattamente la
stessa cosa che hanno fatto gli uomini per 2500 anni. E continua a porsi
domande ossessivamente autocentrate, tipo "cosa posso fare io per loro?".
Se vogliamo evitare di nuocere alle donne del terzo mondo, dobbiamo anche
evitare di guardare le cose dal punto di vista di chi, in quanto soggetto,
fa le analisi; dobbiamo evitare che il centro sia determinato, definito -
come al solito - dalla ricercatrice.
Il soggetto non si puo' decentrare, senno' non e' piu' soggetto, ma questa
centratura va persistentemente criticata e decostruita: "La decostruzione -
sostiene Spivak in un'intervista con Alfred Arteaga del '93 - non dice che
non c'e' il soggetto, che non c'e' la verita', che non c'e' la storia;
semplicemente interroga il privilegiare l'identita' cosi' che qualcuno e'
ritenuto possedere la verita'. La decostruzione non e' l'esposizione di un
errore. Costantemente e persistentemente guarda al modo in cui la verita' e'
stata prodotta. Ecco perche' la decostruzione non dice che il logocentrismo
e' una patologia. La decostruzione e', tra le altre cose, una critica
persistente di cio' che uno non puo' non volere". Cosa e' che non si puo'
non volere (e che viene dall'Occidente)? Per esempio, proprio la
soggettivita', o il femminismo. Se pero' non si vuole diventare quel
soggetto normativo che e' (stato) il maschio bianco, l'unica possibilita' e'
una critica persistente al modo in cui ci si mette al centro del discorso.
*
Essere consapevoli, criticare persistentemente, decostruire: questo e'
l'itinerario del pensiero di Spivak che, infatti, non crede alle grandi
costruzioni teoriche che spiegano tutto e che vogliono essere coerenti nella
loro pretesa di raccontare la verita', assoluta e definitiva. Spivak non
crede alle master narratives, le narrazioni dei maestri, ma anche dei
padroni. Questo non vuol dire che le master narratives vadano demonizzate
perche' chiunque viene catturato a narrare; dobbiamo accettare l'impulso di
pensare alle origini e alle finalita', di fare programmi di giustizia
sociale, restando pero' al contempo consapevoli che si tratta di una nostra
necessita', non della via verso la verita', o di una soluzione ai problemi
del mondo. Il caveat sulle grandi narrazioni, che rischiano di prendere il
sopravvento e apparirci come se fossero vere, vale anche per le parole di
cui le narrazioni si servono; Spivak le chiama masterwords, le parole dei
maestri ma, di nuovo, anche dei padroni. Parole come "il lavoratore" o "la
donna" sono parole a rischio perche' spingono a creare, e poi a costruire,
grandi narrazioni; e tuttavia, sono parole che non hanno alcun riferimento
letterale perche' non esistono esempi "veri" del "vero" lavoratore o della
"vera" donna, che sono "veramente" pronti a battersi per gli ideali che noi
abbiamo costruito e sui quali sono stati mobilitati. Queste considerazioni
ci dovrebbero mettere in guardia sulle pretese universali, per esempio del
marxismo o del femminismo occidentale, di parlare in nome degli uni e delle
altre.
Anche l'impegno femminista occidentale col sud del mondo spesso maschera una
superiorita' condiscendente in nome delle sorelle (costruite e dunque
considerate) piu' svantaggiate. La dobbiamo smettere di sentirci
privilegiate e di conseguenza migliori, dice Spivak "situandosi"; mettendo
cioe' in gioco i suoi numerosi privilegi che vanno dall'essere
un'intellettuale di grande prestigio nell'accademia statunitense, coinvolta
nella produzione neocoloniale, all'insegnare ai cittadini piu' garantiti e
viziati del mondo, al vivere nella citta' piu' opulenta e consumista del
globo. Situarsi vuol dire non candidarsi all'universalita' e cioe'
all'essenza, anche se, che una lo riconosca o meno, non si puo' fare a meno
delle universalizzazioni. Il punto e' esserne consapevoli, e utilizzare le
universalizzazioni piuttosto che ripudiarle: e' quel che lei chiama
strategic essentialism, anche perche', in un mondo dominato dagli uomini,
come si fa a fare analisi e politica femminista se non - rischiando
l'essenzialismo - "come una donna"?
*
Anche il privilegio va decostruito, perche' non sempre e non necessariamente
implica intelligenza, comprensione e possibilita' di rapporto. Spesso, anzi,
succede esattamente il contrario. Spivak suggerisce di "unlearn one's
privilege as one's loss", cioe' di disimparare i propri privilegi perche'
sono una perdita.
Il razzismo - per esempio - si impara, e' un punto di vista e un
comportamento acquisito che ci impedisce di vedere, capire e comunicare con
chi e' diverso da noi; attribuiamo all'Altra/o degli stereotipi, la/o
interpretiamo attraverso dei pregiudizi e, di fatto, chiudiamo la nostra
mente, la nostra possibilita' di comunicazione, apprendimento, scambio e
relazione; ecco che il nostro privilegio - in questo caso quello di
appartenere alla "razza" bianca - si trasforma in una impossibilita', in una
incapacita'. Disimparare il proprio privilegio significa cominciare ad avere
"una relazione etica" con l'Altra/o. E' un modo di pensare, di concepire la
propria identita' e quella dell'Altra differentemente.
Non piu' l'Altra che, dall'altra parte del mondo, ha la funzione di specchio
che ingrandisce la nostra immagine, ma la possibilita' di comunicare
attraverso distanze e differenze impossibili. E' un abbraccio, un atto
d'amore all'interno del quale ambedue le persone hanno la possibilita' di
imparare l'una dall'altra.

4. RIFLESSIONE. BARBARA SPINELLI: KOMPROMATY
[Dal quotidiano "La stampa" del 29 ottobre 2006. Ci sia consentito dire che
anche per chi come noi non condivide l'ideologia e la retorica del
cosiddetto bipolarismo, della cosiddetta alternanza e del modello elettorale
maggioritario (e per molte buone ragioni), l'analisi e la denuncia di questo
articolo restano di estremo rilievo, e valore (p. s.). Barbara Spinelli e'
una prestigiosa giornalista e saggista; tra le sue opere segnaliamo
particolarmente Il sonno della memoria, Mondadori, Milano 2001, 2004; una
selezione di suoi articoli e' in una sezione personale del sito del
quotidiano (www.lastampa.it)]

Kompromaty si chiamano nella Russia di Putin quei documenti destinati a
compromettere l'avversario e liquidarlo nel momento piu' conveniente: cosa
che di solito si fa non coi concorrenti politici, ma con i nemici in guerra.
Il Cremlino affida la fabbricazione dei kompromaty a organi segreti che il
potere personalmente controlla, siano essi pubblici o privati. I dossier son
fatti per seminare paura, e di paura si nutrono: servono a ricattare,
infangare, bloccare qualsiasi alternativa al regime esistente. Sono
ingredienti basilari d'ogni dittatura e d'ogni regime dove lo Stato vien
confiscato da una persona, un partito o una lobby. La politica della paura
che regna dall'11 settembre ha immensamente affinato le tecniche di questi
poteri segreti, e la loro disinvoltura. Chi si presta a simili operazioni -
politici, funzionari pubblici sleali, giornalisti - ha il piu' grande
disprezzo dello Stato e di chi fedelmente lo serve. E' abituato ai bassi
servizi, non al servizio della cosa pubblica: la res publica e' qualcosa che
non riconosce e in cui non crede.
Gli scandali scoppiati ultimamente in Italia - le rivelazioni sullo
spionaggio fiscale di un gran numero di personalita' e soprattutto
dell'attuale capo del governo Romano Prodi, cui si aggiunge un piano del
Sismi che risale all'inizio del governo Berlusconi, inteso a "disarticolare,
anche con mezzi traumatici", i nemici del centrodestra - somigliano come
fratelli gemelli all'uso che Putin fa del kompromaty (gli italiani, piu'
fumosi, parlano di dossieraggio). Sono operazioni che vengono condotte a
fianco dello Stato, ignorando e aggirando i molti suoi servitori onesti. E'
un lavoro - meglio sarebbe dire un lavorio, perche' l'azione e' martellante,
di lungo respiro - che viene affidato a un potere non visibile, non eletto e
non controllato. E' un potere che fugge non solo lo Stato, ma la politica
stessa: ambedue infatti - Stato e politica - sono giudicati da chi fa questi
servizi come disprezzabili, inesistenti, comunque aggirabili.
Per questo Carlo Federico Grosso ha dato a quest'ennesima criminalita' di
corpi dello Stato (elementi della Guardia di Finanza e del Sismi, appaiati)
il nome di eversione, ieri su questo giornale. Eversione e' una
destabilizzazione permanente, un'erosione sistematica della cosa pubblica.
Il dizionario Battaglia ricorda come fin dal '400, nelle parole di Leon
Battista Alberti, significhi "sovvertimento radicale e rivoluzionario
(letteralmente atterramento) degli ordini politici o della struttura della
societa', compiuto dall'interno".
*
Nell'ultimo decennio i commentatori hanno discusso spesso attorno alla
natura del potere berlusconiano: era un Regime o no? Qui basti rammentare
che l'eversione e' arma essenziale d'ogni regime autoritario, brandita per
conquistare il potere e poi mantenerlo. I cittadini che assistono
all'emersione di questi crimini sanno che la storia italiana incessantemente
li riproduce: ogni volta con le loro oscurita', che diventano perenni; con i
loro personaggi, di cui si dimenticano presto i reati. Ogni volta con i loro
giudici, accusati di malafede e fallimento per il solo fatto che non sempre
riescono a condannare, pur avendo accertato colpe non confutate (e' il caso
di Andreotti, assolto anche se giudicato reo di associazione con la mafia
fino al 1980).
Ma i cittadini sanno anche che nell'ultimo decennio le azioni dei corpi
dello Stato che agiscono nell'illegalita' si son moltiplicate, bersagliando
ripetutamente la persona di Romano Prodi. La magistratura dira' se queste
operazioni, che hanno come protagonisti Guardia di Finanza, Sismi e servizi
privati, hanno risposto a ordini del centrodestra che ha governato nel '94 e
nel 2001-2006. Fin da ora sappiamo tuttavia che le manovre hanno colpito
soprattutto l'opposizione a Berlusconi, e che hanno fatto di tutto per
inquinare o svuotare contropoteri indispensabili in democrazia (stampa e
magistratura). Colpisce il piano del Sismi, che risalirebbe all'inizio del
governo Berlusconi del 2001 e che Guido Ruotolo ha portato alla luce su "La
Stampa" di giovedi'. Il dossier cui si fa riferimento e' stato trovato il 5
luglio dagli uomini della Digos, nella sede distaccata del Sismi diretta da
Pio Pompa, uomo molto legato a Pollari, e conferma l'esistenza di
un'eversione circostanziata. Colpisce soprattutto a causa del linguaggio: i
redattori del piano d'azione si propongono di "colpire e disarticolare una
struttura nemica del centrodestra con azioni anche traumatiche", e' scritto
nel dossier.
*
Disarticolare, struttura nemica, azioni traumatiche: chi ricorda i
comunicati delle Brigate Rosse ritrova qui un vocabolario immondamente
familiare. Un vocabolario che rimanda al linguaggio terroristico di servizi
come il Kgb, rinato dalle ceneri grazie a Putin. Paralleli storici di questo
tipo sono stati evocati da personalita' note per la loro circospezione, in
Italia. Degno di menzione e' il discorso tenuto a Torino dal procuratore
capo Marcello Maddalena, in occasione della cerimonia di inaugurazione
dell'anno giudiziario 2006. Il magistrato si riferiva a una legge ad hoc del
governo Berlusconi, che aveva impedito a Gian Carlo Caselli di divenire
procuratore nazionale antimafia, e disse cosi': "L'episodio mi ha fatto
venire in mente un motto tristemente famoso: colpirne uno per educarne
cento. Hanno sbagliato i conti: siamo in novemila (tanti quanti sono i
magistrati, ndr)". Colpirne uno per educarne cento era un motto di Mao
Tse-Tung, fatto proprio dalle Brigate Rosse. Chi disarticola con azioni
traumatiche ha questo in mente: colpisce per educare, cioe' per avvertire
ricattando, impaurendo. Chi opera in tal maniera vuol educare chi ancora
serve lo Stato, scoraggiando la sua fedelta'. Vuole educare i giudici
abolendone l'autonomia, educare i cittadini abolendo la fiducia che
vorrebbero avere nel proprio Stato. Vuol educare infine l'opposizione,
ricordandole che l'alternanza e' - in Italia - la piu' pericolosa,
stravagante, sconveniente delle avventure.
*
Questo si e' inteso e s'intende ferire e demolire, usando i corpi dello
Stato per azioni illegali. Non e' questione solo di Prodi, nei cui conti si
e' spiato 128 volte con la speranza di eliminarlo come candidato alla
successione di Berlusconi. Berlusconi stesso pare sia stato spiato. Il senso
generale di queste operazioni destabilizzanti, che dopo Mani Pulite e la
fine dei vecchi partiti non sono diminuite ma si son dilatate e hanno
attinto forza nell'anti-politica, e' quello di demolire due cose
congiuntamente: l'alternanza intesa come alternativa, e il bipolarismo che
ne e' la premessa. In uno Stato slabbrato e sistematicamente aggirato - Aldo
Schiavone lo spiega bene, nel libro Italiani senza Italia - il bipolarismo
non puo' funzionare, o funziona appunto cosi': sempre alle prese con azioni
eversive, e con un potere che fugge il piu' lontano possibile dalla
politica, sino a divenire totalmente opaco e a smaterializzarsi.
L'azione eversiva di corpi che formalmente appartengono allo Stato ma in
realta' rendono servizi a chi se ne e' impossessato ha come scopo quello di
creare una situazione in cui cambiare le cose (il funzionamento
dell'amministrazione pubblica, la forma piu' meno trasparente della
politica, la giustizia) diventa impossibile. Piu' crescono le forze di chi
vuol cambiare, piu' i poteri paralleli fuggono per irrobustire lo status quo
e impedire riforme profonde d'ogni tipo. Una volta era il denaro a fuggire,
destabilizzando l'Italia, quando si annunciavano cambiamenti politici
sostanziosi. Oggi e' il potere stesso a mettersi in fuga: fuga dalla
politica, dalla giustizia, dalla buona amministrazione. Dalla P2 e' sempre
la stessa storia: e' la storia di poteri che investono tutto sulla debolezza
della cosa pubblica, rendendola sempre meno pubblica e sempre piu' privata.
Berlusconi forse non e' all'origine di tali manovre. Ma senz'altro e'
all'origine di questa confisca-privatizzazione della politica, del prevalere
metodico dell'interesse particolare su quello generale, di una retorica che
critica lo Stato per meglio estenderne le violenze arbitrarie. Il suo stesso
ingresso in politica avvenne all'insegna di tale privatizzazione. Lui stesso
spiego' a Enzo Biagi la molla che nel '94 lo fece scendere in campo: "Caro
Biagi, se non entro in politica mi fanno fallire".
*
Una delle cose piu' perturbanti in queste ore e' la reazione intimorita,
lenta, di molti politici: non son pochi, nell'opposizione e fuori, che
proprio a causa di questi scandali sostengono la necessita' di larghe
intese, piu' che di vero risanamento. Proprio ora urgerebbe rinunciare a
quel bipolarismo e a quelle chiare alternanze che i poteri paralleli
intendono da decenni disarticolare, traumatizzare. Parlare in queste
condizioni di larghe intese significa prender atto della disarticolazione,
cedere alla sua pressione eversiva, farsi metter paura, scegliere non il
compromesso ma la compromissione. Significa riconoscere che in Italia, a
differenza dei Paesi dove la democrazia cammina, non sono praticabili
alternanze autentiche perche' non esiste una struttura dello Stato che
sopravviva integra, con i suoi leali e neutrali servitori, ai mutamenti di
maggioranza. Significa convincere gli italiani che tutti i politici si
equivalgono, che nessuno servira' qualcosa di diverso dall'interesse
privato.
Puo' darsi che un giorno l'Italia avra' bisogno di larghe intese (o non
potra' far altro che questo, come ha dovuto Angela Merkel, senza volerlo, in
Germania). Ma le larghe intese come risposta a quel che sta accadendo, e'
congedo dal bipolarismo e vittoria dell'eversione. Due sono infatti le
conclusioni che si possono trarre dagli odierni avvenimenti. O il
bipolarismo e l'alternanza sono improponibili in Italia, perche' lo Stato
non esiste, e allora le larghe intese sono la via, anche se la via
dell'abdicazione. Ci sono pessimisti che condividono questa opinione e
parlano di alleanze tra volenterosi, senza mai chiarire cosa i volenterosi
debbano volere. Oppure si riforma lo Stato non limitandosi a far cadere
qualche testa, ben sapendo che minacciati - dunque da salvare - sono sia le
alternanze sia il bipolarismo. Stare in bilico ed esitare e' la terza via,
tante volte imboccata e tante volte perdente. Quando scoppiano scandali di
questo genere si sente sempre solo un'esclamazione: "E' inaccettabile!". La
parola e' vana: andrebbe bandita dal dizionario dei politici rispettabili.
Il politologo francese Raymond Aron diceva che nel momento stesso in cui
prendi tempo per pronunciare l'aggettivo - inaccettabile - hai gia'
accettato. Vuol dire che la minaccia oscura ha funzionato. Che cerchi un
accomodamento con l'eternita' dell'illegalita'. Che hai rinunciato a
combatterla, e non credi gia' piu' ne' nella politica, ne' nell'alternanza.

5. DOCUMENTI. DA FIRENZE IL 4 NOVEMBRE UN INVITO NONVIOLENTO AI MILITARI
[Da varie persone amiche (Pierluigi Ontanetti, Alberto L'Abate...) impegnate
nell'esperienza della "Fucina della nonviolenza" di Firenze riceviamo e
diffondiamo questa lettera aperta indirizzata alle ed ai militari italiani,
diffusa da vari movimenti pacifisti e nonviolenti a Firenze il 4 novembre
2006]

Scriviamo contenti di ricordare che, come noi, voi siete esseri viventi
appartenenti alla specie umana; quindi persone, cittadine e cittadini del
mondo nate e nati nella terra che qualcuno ha chiamato Italia.
In questo paese e' diffusa l'idea che ci sono tante cittadine e tanti
cittadini che odiano i militari e tutti quelli che portano una divisa; tra
questi vengono inclusi erroneamente anche gli antimilitaristi. Proviamo a
far chiarezza.
Antimilitaristi, nel senso nonviolento, non si nasce.
Ci scopriamo antimilitaristi man mano che maturiamo una visione del mondo
basata su valori, principi e dimensione progettuale che hanno come fine il
rispetto di ogni persona, l'equita' economica, il rispetto della natura,
l'opportunita' per tutti di partecipare attivamente alle decisioni che la
comunita' umana prende ai vari livelli, da quello locale a quello mondiale.
Ci scopriamo antimilitaristi quando cittadini come noi si accorgono che
l'esercito trasforma in matricole, numeri incasellati al posto giusto, per
produrre meccanismi violenti di relazione e di potere.
Ci scopriamo antimilitaristi perche' la cultura e l'organizzazione militare
riproducono, in una visione maschilista, meccanismi che mortificano la
persona trasformandola in oggetto che il potere politico, economico e
culturale possono usare come e quando vogliono per realizzare progetti di
dominio, di conquista e di controllo.
Non siamo a chiedervi perche' siete entrate ed entrati nell'esercito, e
lungi da noi il voler giudicare la scelta di ognuna ed ognuno di voi.
Quello che sappiamo e' che in molte e molti patite per le condizioni in cui
siete costrette e costretti a vivere. Quello che sappiamo e' che cresce
sempre piu' il numero dei militari che non vogliono imbracciare le armi per
andare fuori confine. Quello che sappiamo e' che a voi non e' riconosciuto
il minimo diritto sancito dalla Costituzione di potervi esprimere. Quello
che sappiamo e' che a molti, politici e religiosi compresi, va bene che la
struttura esercito sia fatta da uomini e donne trasformati in numeri pronti
ad obbedire agli ordini di qualsiasi governo in carica.
Per fortuna, in questo paese e nel mondo c'e' chi la pensa diversamente e
sta lottando col fine di trasformare le Forze armate in una esperienza
nonviolenta di societa' civile organizzata: i Corpi civili di pace, dove la
persona non viene ridotta a numero, ma, insieme alle altre, e' chiamata ad
esercitare il diritto-dovere di interposizione, alla prevenzione di tutti i
micro e macroconflitti sul territorio italiano e oltre.
Siamo ancora in tempo per cambiare in meglio la situazione attuale, diventa
fondamentale rompere la barriera che viene posta tra noi cittadini "civili"
e voi cittadini "militari" affinche' l'Italia conosca realmente cio' che
accade nelle caserme e nelle catene di comando. Diventa vitale creare spazi
di incontro con la societa' civile, oltre che con le istituzioni locali, per
poter dialogare, dare voce a chi voce non ha, dentro e fuori le caserme.
Siamo tutti corresponsabili in questo mondo, ognuno di noi e' chiamato ad
assumersi la responsabilita' dinanzi alla propria coscienza, alla storia
dell'oggi e a quella futura.
La stragrande maggioranza di noi civili e voi militari sa benissimo che e'
falsa l'immagine dei "soldati di pace" presentata da molti politici. Anche i
bambini che frequentano la prima elementare chiedono alle maestre: "come fa
un soldato con il fucile a portare la pace?".
Siamo tutti chiamati a scegliere se stare dalla parte di chi pensa di essere
padrone della natura e degli esseri umani, o stare con coloro che,
sentendosi parte di un equilibrio, mettono al centro del loro pensare e
agire il rispetto della vita e della morte.
Ma il militarismo e il sistema di guerra non e' un affare solo "di
militari". Siamo tutti coinvolti in una filiera che non risparmia nessuno,
nessun lavoratore e' estraneo alla produzione che alimenta guerra e
violenza.
I sindacati, insieme ai lavoratori, si trovano tra l'incudine e il martello;
dicono no alla guerra, ma ancora non hanno trovato il coraggio di iniziare
una politica forte di trasformazione industriale... Meglio un esercito di
pace che troppi disoccupati, ci viene detto.
Pensate un po', c'e' dentro anche la Chiesa. Noi non sappiamo cosa pensi il
buon Dio dei cappellani militari e ci guardiamo bene dal fargli da
portavoce... ma una cosa l'abbiamo capita: chi vuole fare assistenza
spirituale ai "figli di Dio" che hanno scelto la vita militare, non e'
obbligato a ricoprire il ruolo di cappellano militare. Il fatto stesso che
esista ancora questa figura culturale e giuridica da' ragione a coloro che
pensano che la Chiesa si e' venduta per poche monete tradendo i valori di
amore e fraternita'. I cappellani militari vivono in simbiosi con la cultura
e la prassi militare, assecondando il nazionalismo ed esaltando la cultura
sacrificale, dando ragione a quelli che dicono "io sono nel giusto, gli
altri nel torto". L'esistenza stessa dei cappellani militari, rende
corresponsabile la Chiesa dei crimini contro l'umanita' che gli eserciti
compiono tutti i giorni e del non rispetto dell'articolo 11 della
Costituzione italiana. La stessa cosa, nel mondo, accade con altre chiese e
religioni.
Nel far nostra la legge cristiana che ci chiede di amare il prossimo come
noi stessi, non esiteremo un istante a chiamare quanti ci e' possibile a
praticare l'obiezione di coscienza sempre, nelle professioni e in tutti i
luoghi e i momenti di vita individuale e collettiva.
Tutti i giorni siamo costretti a contare le vittime di tante guerre,
comprese quelle "umanitarie". Forse saremo chiamati presto a dare l'estremo
saluto a una o un "militare di pace" italiano; mentre i politici, i
cappellani, saranno nelle cattedrali e nei palazzi del potere a esaltare il
sacrificio, noi saremo con le amiche e gli amici della nonviolenza sulle
strade e nelle piazze a dire ancora una volta: no alla guerra senza se e
senza ma, si' ai Corpi civili di pace.
Con la speranza che anche voi, cittadine e cittadini in divisa, sarete con
noi a gridare che un mondo di giustizia e' possibile.
Per questo vi invitiamo a brindare con noi a un mondo nuovo, di pace, senza
armi.
Cordiali saluti.
*
La Comunita' per lo sviluppo umano, Donne in nero, Gruppo "Via le bombe da
Aviano", Comitato "Fermiamo la guerra", Fucina per la nonviolenza
Firenze, 4 novembre 2006

6. INIZIATIVE. "WE VOTE FOR PEACE". UN SIT-IN A ROMA
[Da Stephanie Westbrook, portavoce dell'associazione "U.S. Citizens for
Peace & Justice - Statunitensi per la pace e la giustizia" di Roma (per
contatti: e-mail: info at peaceandjustice.it, sito: www.peaceandjustice.it)
riceviamo e diffondiamo. Cindy Sheehan ha perso il figlio Casey nella guerra
in Iraq; per tutto il successivo mese di agosto e' stata accampata a
Crawford, fuori dal ranch in cui George Bush stava trascorrendo le vacanze,
con l'intenzione di parlargli per chiedergli conto della morte di suo
figlio; intorno alla sua figura e alla sua testimonianza si e' risvegliato
negli Stati Uniti un ampio movimento contro la guerra; e' stato recentemente
pubblicato il suo libro Not One More Mother's Child (Non un altro figlio di
madre), disponibile nel sito www.koabooks.com; sta per uscire il suo secondo
libro: Peace Mom: One Mom's Journey from Heartache to Activism, per Atria
Books]

In solidarieta' con il sit-in di Cindy Sheehan in occasione delle elezioni
di medio termine negli Stati Uniti, a Roma, martedi' 7 novembre, dalle ore
16 alle ore 18 si terra' sit-in davanti all'ambasciata statunitense promosso
dall'associazione "U.S. Citizens for Peace & Justice - Statunitensi per la
pace e la giustizia" di Roma.
*
Il 7 novembre negli Stati Uniti gli elettori sono chiamati alle urne per
votare nelle elezioni di medio termine per rinnovare la Camera e un terzo
del Senato. Dal 6 al 9 novembre, a cavallo del voto, Cindy Sheehan e altri
attivisti statunitensi organizzano un sit-in di quattro giorni a Washington
D. C. davanti alla Casa Bianca per dire no all'occupazione dell'Iraq, no ad
azioni militari contro l'Iran, no alla tortura, qualunque sia l'esito delle
elezioni. E per ricordare al Congresso le proprie responsabilita'.
Manifestazioni simili veranno organizzate in diverse citta' negli Stati
Uniti e davanti alle ambasciate statunitensi nel mondo.
In solidarieta' con gli attivisti negli Stati Uniti, a Roma, martedi' 7
novembre, dalle 16 alle 18, l'associazione "Statunitensi per la pace & la
giustizia" organizza un presidio davanti all'ambasciata statunitense per
votare simbolicamente per la pace e in particolare per: il ritiro immediato
delle truppe dall'Iraq; una soluzione diplomatica con l'Iran; il rispetto
delle leggi internazionali; la fine della tortura e delle carceri segrete;
il disarmo e una forte riduzione della spesa militare.
*
Per maggiori informazioni sulla manifestazione a Washington vedere il sito
di Gold Star Families for Peace, l'organizzazione di Cindy Sheehan:
www.gsfp.org
Per informazioni sul presidio di Roma: Stephanie Westbrook, portavoce
dell'associazione "Statunitensi per la pace e la giustizia" di Roma, tel.
3331103510 - 06 8411649, e-mail: info at peaceandjustice.it, sito:
www.peaceandjustice.it

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LA DOMENICA DELLA NONVIOLENZA
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Supplemento domenicale de "La nonviolenza e' in cammino"
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it
Numero 98 del 5 novembre 2006

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