La nonviolenza e' in cammino. 1426



LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 1426 del 22 settembre 2006

Sommario di questo numero:
1. Fermare la guerra in Afghanistan, subito
2. Peppe Sini: L'ateista corrucciato (una dichiarazione di adesione alla
giornata del dialogo cristiano-islamico)
3. Debora Spini: Diritti umani, democrazia e futuro della politica
4. "La politica della nonviolenza", un seminario promosso dal Movimento
Nonviolento il 21-22 ottobre a Verona
5. La "Carta" del Movimento Nonviolento
6. Per saperne di piu'

1. EDITORIALE. FERMARE LA GUERRA IN AFGHANISTAN, SUBITO

Fermare la guerra in Afghanistan, subito.
Ritirare le truppe italiane. Far cessare le stragi della Nato.
E' in nostro potere, e' nostro dovere.
Solo cessando di fare la guerra possiamo sperare di aiutare la pace.
Solo cessando di uccidere possiamo chiedere agli altri di smettere di
uccidere.
*
Dicono gli stolti che la storia della civilta' umana e' fatta tutta e solo
di guerre: e' vero il contrario, e' la lotta contro le guerre che ha fatto
la storia della civilta' umana.
Dicono gli stolti che solo le armi garantiscono la convivenza: e' vero il
contrario, e' la lotta contro le armi che fonda la convivenza.
Dicono gli stolti che siamo fatti per la morte: e' vero il contrario, e' la
lotta contro la morte che mette al mondo l'umanita'.
Dicono gli stolti che occorre arrendersi allo status quo: e' vero il
contrario, l'umanita' e' nel miracolo della nascita.
*
E' l'ora della resistenza alla guerra e alle stragi, e' l'ora della
resistenza a tutti i terrorismi, e' l'ora della resistenza a tutti i
fascismi, e' l'ora della nonviolenza.
Fermare la guerra in Afghanistan, subito.
Ritirare le truppe italiane. Far cessare le stragi della Nato.
E' in nostro potere, e' nostro dovere.

2. EDITORIALE. PEPPE SINI: L'ATEISTA CORRUCCIATO (UNA DICHIARAZIONE DI
ADESIONE ALLA GIORNATA DEL DIALOGO CRISTIANO-ISLAMICO)

"Soltanto la parte 'sottosviluppata' di noi stessi, cioe' la parte che nella
realta' non e' riconosciuta, contiene, ed e', la coscienza e la verita' di
quella che e' riconosciuta. Questa e' riconosciuta, nel giorno, dai suoi
pari; cospira ad opprimere, reprimere, omettendo la parte servile; 'sta al
giuoco' esattamente come ci stanno le grandi industrie programmatrici ed i
sindacati riformisti. Solo dove non opprimiamo ne' sfruttiamo noi stessi e
gli altri, abitano le forze capaci di non farci 'perdere la vita'"
(Franco Fortini, Le mani di Radek)

"Gharb, la parola araba che traduce Occidente, indica anche il luogo
dell'oscurita' e dell'incomprensibile, che mette sempre paura. Gharb e' il
territorio di cio' che e' strano, straniero (gharib). Tutto cio' che non
capiamo ci fa paura"
(Fatema Mernissi, Islam e democrazia)

"Era comune a tutti i Lager il termine Muselmann, 'mussulmano', attribuito
al prigioniero irreversibilmente esausto, estenuato, prossimo alla morte"
(Primo Levi, I sommersi e i salvati)

Si attribuiscono oggi ai migranti e ai musulmani le stesse caratteristiche -
lo stesso stigma - che le classi privilegiate e le elites coloniali lungo i
secoli hanno attribuito alle classi oppresse, ai popoli colonizzati, al
movimento operaio e socialista: brutti, sporchi e cattivi, in una parola:
poveri.
E poveri perche' sfruttati, derubati dei loro beni e denegati nella loro
umanita' da quelle stesse classi privilegiate, e privilegiate perche'
sfruttatrici, rapinatrici e assassine.
Poveri perche' rovescio della medaglia di una storia comune segnata dalla
ferocia imperiale e coloniale, dall'oppressione militare, patriarcale e
totalitaria, dalle ideologie e dalle prassi dell'asservimento e dello
sfruttamento di esseri umani da parte di altri esseri umani, della
devastazione della natura, della guerra onnicida.
*
Lo sguardo europeo sull'islam oggi e' innanzitutto uno sguardo razzista.
Non era cosi' per Dante.
Non era cosi' per Cervantes.
Non era cosi' per Lessing.
Ed e' uno sguardo razzista perche' razzista e' la prassi europea nelle
relazioni con i popoli di cio' che dall'Europa saccheggiatrice si percepisce
come meridione e come oriente del mondo: non vale allora ricordare i tesori
di civilta' dell'islam, non vale ricordare come esso si aggiunga con
rinnovata rielaborazione alle altre due religioni del libro, non vale
ricordare che l'islam e' anche una grande tradizione europea, che un comune
maestro come Averroe' e' anche una delle grandi figure intellettuali e
morali del nostro continente, che e' grazie agli intellettuali arabi e
islamici che sono stati preservati e tramandati all'umanita' intera i grandi
pensatori della grecita', prima radice della tradizione occidentale.
Cosi' vale oggi per l'islamofobia delle classi dirigenti europee e del
lumpen teppista che ne e' ululante ed unghiuta base di massa la riflessione
che Sartre svolgeva sull'antisemitismo.
*
Il virulento razzismo di oggi rivela l'incertezza - e lo sgomento -
dell'occidente sulla sua identita' e sulle sue tradizioni, l'incapacita' di
discernere cio' che' vivo e cio' che e' morto della propria lunga vicenda di
oppressione e ferocia, ma anche di liberazione, diritto, civile convivenza.
Il razzismo di oggi ci dice che quella vicenda da cui sorsero i
totalitarismi novecenteschi non si e' ancora esaurita (per dirla con Brecht:
"il ventre di quella bestia e' ancora fecondo"), e sarebbe allora necessario
riandare alle classiche analisi di Hannah Arendt, di Elias Canetti, della
scuola di Francoforte, di Erich Fromm, di Norbert Elias, di Zygmunt Bauman,
di Primo Levi.
*
E' questo razzismo che crea le premesse psicologiche e culturali che
consentono di non vedere l'orrore delle guerre di sterminio neocoloniali cui
anche l'Italia - in flagrante violazione della sua stessa Costituzione - sta
partecipando, e tra esse la guerra fatta ai migranti; che uccidiamo in mare,
che segreghiamo nei campi di concentramento, che diamo in appalto alla
mafia, che usiamo come schiavi tanto nelle campagne quanto sui cigli delle
strade nel cuore delle citta'.
E' questa nostra azione stragista, questa nostra indicibile disumanita', che
lo specchio del terrorismo islamista riflette e ci rimanda.
*
Quattro lotte - che poi sono una sola - mi pare allora che siano da condurre
con urgenza somma.
Contro il patriarcato, contro il razzismo, contro il totalitarismo, contro
la guerra.
a) Le dimensioni del femminicidio sono oggi tali che nessuno puo' fingere di
non capire che esso si puo' realizzare perche' l'oppressione maschilista ha
raggiunto livelli di violenza immani: tanto piu' crescenti quanto piu' tutte
e tutti si avverte che l'oppressione di genere e' un crimine contro
l'umanita', quanto piu' tutte e tutti si coglie che la liberta' femminile e'
la misura della dignita' umana. O si riconosce, si affronta e si sconfigge
l'oppressione maschilista, o la sua barbarie dilaghera' sempre piu', e in
forme sempre piu' cruente e bestiali.
La lotta contro il patriarcato va condotta ovunque: nella nostra stessa
coscienza, nelle ideologie e nelle legislazioni, negli assetti sociali e
culturali, nei rapporti di potere e di proprieta', e nei comportamenti
quotidiani. Ad esempio nelle religioni: alcune confessioni cristiane che
hanno meglio saputo porsi all'ascolto del femminismo - una delle grandi
esperienze storiche della nonviolenza in cammino - hanno fatto negli ultimi
decenni passi avanti straordinari; la chiesa cattolica come istituzione
ancora no: la negazione dell'accesso al sacerdozio per meta' del genere
umano e' con tutta evidenza un tratto inaccettabile che demolisce alla
radice la credibilita' delle gerarchie di quella chiesa nella pretesa di
congruenza con un'adeguata esegesi e ricezione e sequela del messaggio
dell'uomo di Nazareth. Son cose tristi, ma non possono essere nascoste. Ed
e' solo un esempio fra innumerevoli altri. Nessuna religione cosi' come
nessuna ideologia laica elaborata da maschi (e diciamo solo di quelle
tradizioni di pensiero che hanno un valore, non parliamo delle ideologie
dell'alienazione e della violenza tout court) e' immune dal recare le tracce
della violenza maschilista, e nell'ambito di ciascuna la lotta e' da
condurre.
b) Poiche' nel razzismo si manifesta una delle forme estreme di negazione
dell'umanita' dell'altra persona, l'opposizione al razzismo e' anch'essa un
dovere essenziale per affermare la propria stessa dignita'. Tanta parte
della riflessione filosofica contemporanea ha saputo tematizzare acutamente
le radici di cio' e indicare le vie che portano al riconoscimento
dell'umanita' di tutti gli esseri umani. Non c'e' bisogno di aggiungere
quanto decisive siano alcune fondamentali riflessioni di Martin Buber, di
Emmanuel Levinas.
c) La lotta contro il totalitarismo e' anch'essa uno dei compiti piu'
urgenti di tutte le persone di volonta' buona: sia che esso si incarni negli
"stati etici" (teocratici o laici che siano, tutti si fanno ipso facto
fascisti), sia che esso s'incarni in appartenenze identitarie e comunitarie
sulle piu' diverse scale: dalla setta, al clan, al partito, alla chiesa,
all'impresa multinazionale. Il totalitarismo nega cio' che e' piu' proprio
degli esseri umani: la pluralita', le differenze, l'unicita' di ogni singola
persona, il consistere di tutti e di ciascuno di molteplici, infinite
relazioni.
d) Ed essendo la guerra la distruzione organizzata e sistematica degli
esseri umani e del mondo in cui possono vivere, opporsi alla guerra - ed
alle sue logiche, ai suoi strumenti ed ai suoi apparati - e' "conditio sine
qua non" per difendere l'umanita', per costruire la convivenza, quella
convivenza civile che solo si da' nella forma della pace, della giustizia e
della salvaguarda della natura.
*
In questa situazione e' di grande importanza ed autentico valore la giornata
del dialogo cristiano-islamico, che va oltre il semplice incontrarsi e
parlarsi dei fedeli delle due religioni, ed infatti ad essa hanno aderito
anche persone di altre fedi o di nessuna fede religiosa, anche il
materialista che scrive queste righe.
Per le persone amiche della nonviolenza, che sanno che la nonviolenza e' la
corrente calda dell'ebraismo come del cristianesimo come dell'islam come di
tutte le grandi tradizioni religiose e filosofiche del mondo; per le persone
amiche della nonviolenza, che sanno che la nonviolenza e' la corrente calda
delle esperienze e delle riflessioni del movimento liberale e di quello
socialista, delle esperienze storiche del movimento operaio e dei movimenti
di liberazione, del movimento delle donne, delle grandi esperienze
anticoloniali ed antimperialiste, delle Resistenze a tutti i totalitarismi;
per le persone amiche della nonviolenza, che sanno che la nonviolenza e' il
principio giuriscostituente delle grandi codificazioni dei diritti umani,
degli ordinamenti giuridici intesi alla civile convivenza; per le persone
amiche della nonviolenza, che sanno che la nonviolenza e' il sostrato comune
delle grandi esperienze di affermazione della dignita' umana di ogni essere
umano, come Simone Weil a Luce Fabbri, Virginia Woolf e Franca Ongaro
Basaglia hanno saputo luminosamente insegnarci; per le persone amiche della
nonviolenza, che sanno che la nonviolenza e' la cura per l'unico mondo che
abbiamo poiche' non si da' umanita' se non in simbiosi amorosa con la
natura, come Rigoberta Menchu' e Vandana Shiva hanno saputo enunciare e
dimostrare con sublime chiarezza; per le persone amiche della nonviolenza,
in una parola, impegnate perche' siano riconosciuti la dignita' e i diritti
di ogni essere umano, aderire a questa iniziativa di dialogo e
riconciliazione - che e' insieme iniziativa di lotta contro ogni potere
oppressivo e contro ogni offesa al valore infinito di ogni persona - e'
insieme del tutto naturale e profondamente impegnativo: semplice come bere
un bicchier d'acqua e necessario come respirare.
Nel dialogo tra le culture, nell'opposizione a tutte le violazioni della
dignita' umana, nella sollecitudine per il bene comune che nessuno esclude,
li' agisce quel "principio responsabilita'" cui ogni essere umano e'
convocato.
Vi e' una sola umanita'.

3. RIFLESSIONE. DEBORA SPINI: DIRITTI UMANI, DEMOCRAZIA E FUTURO DELLA
POLITICA
[Dal sito della Societa' italiana di filosofia politica (www.sifp.it)
riprendiamo il seguente saggio di Debora Spini presentato come relazione
alla quarta conferenza nazionale brasiliana di "Sociologia e conhecimento:
alem das fronteiras", Universita' Statale di Campinas, Stato di San Paolo,
Brasile, 1-6 settembre 2003 (la Societa' italiana di filosofia politica
"ringrazia l'Istituto di filosofia e scienze umane dell'Universita' Statale
di Campinas per aver autorizzato la pubblicazione"). Debora Spini insegna
Political Theory presso la Syracuse University in Florence, ed e' professore
incaricato alla facolta' di scienze politiche dell'Universita' di Firenze
per il corso di filosofie della sfera pubblica. Ha partecipato a vari
progetti di ricerca fra i quali "Etica e repubblicanesimo" promosso a Torino
dalla Fondazione Agnelli e coordinato dal proessor. M. Viroli (Princeton
University) e il gruppo di ricerca dal titolo "Filosofie della
globalizzazione" coordinato dal professor F. Cerutti del dipartimento di
filosofia dell'Universita' di Firenze; e' membro del seminario di filosofia
politica, filosofia sociale e bioetica presso il dipartimento di filosofia
dell'Universita' di Firenze, del seminario di filosofia delle scienze
sociali "Labirinto" presso la facolta' di scienze politiche dell'Universita'
di Firenze; del "Colloquium on Ethics and International Relations"
coordinato dai professori S. Maffettone e A. Ferrara presso la Libera
Universita' "Guido Carli" di Roma; e' socia del Forum per I problemi della
pace e della guerra, e partecipa ai gruppi di studio su "Guerra e politica"
e "Giustizia globale"; da due anni e' membro del direttivo dell'Istituto
Gramsci. E' autrice di varie pubblicazioni, tra le piu' recenti: "La
sovranita' popolare dalla modernita alla globalizzazione", in Filosofie
della globalizzazione, a cura di D. D'Andrea ed E. Pulcini, Pisa, Ets, 2002;
Fear, Death, Security, in "Security dialogue", vol. IV, 2003, Peace Research
Institute in Oslo; "Jurieu entre desert et refuge: persecution religieuse et
identite' politique" in corso di pubblicazione in Exil et Persecution: juifs
et huguenots aux XVIIe et XVIIIe siecle, a cura di A. Mc Kenna, Presses de
l'Universite de Saint Etienne; I diritti umani: una nuova via alla
legittimazione? In Etica delle relazioni internazionali, a cura di S.
Maffettone e G Pellegrino, Costantino Marco, Cosenza]

Non e' raro provare una sensazione quasi di insofferenza al solo sentir
nominare l'espressione "diritti umani". Forse perche' nessuno, almeno nel
contesto culturale occidentale, dice apertamente di essere contro di essi -
anche se le ultime raccapriccianti discussioni sulla opportunita' di
reintrodurre la tortura nei casi di inchieste sul terrorismo vanno in
direzione del tutto contraria. Ma al di la' delle considerazioni
epidermiche, l'idea stessa di diritti umani appare spesso segnata da una
forte ambiguita'. Molto spesso, infatti, nel linguaggio corrente sia della
letteratura scientifica che delle istituzioni politiche sovrannazionali si
fa del richiamo ai diritti umani una sorta di panacea di tutti i mali: Kofi
Annan, per non fare che un esempio, li ha definiti "the  creed of humanity
that surely sums up all our creeds directing human behaviour" (1). Il
riferimento ai diritti umani potrebbe quindi sembrare un modo di evitare
l'ostacolo apparentemente insuperabile posto dalla necessita' di ripensare
una politica per la globalizzazione. Questo contributo intende invece
seguire una linea interpretativa che li vede non come un punto di arrivo, ma
come un punto di partenza. Per tornare all'esempio appena citato, nel
discorso del segretario dell'Onu i diritti umani sembrano una sorta di
formula magica che sancisce un raggiunto consenso, permettendo in buona
misura di neutralizzare possibili conflitti sui valori. In una prospettiva
che mette in primo piano la necessita' di ripensare la politica in tempo di
globalizzazione (2), i diritti umani non servono a costruire una cosmopoli
senza conflitto, ma rappresentano i presupposti perche' i cittadini e le
cittadine delle molte cosmopoli esistenti possano avere un minimo di chances
di partecipare ai processi decisionali di cui subiranno le conseguenze.
*
1. Il legame fra diritti umani e giustizia
Tradizionalmente, nel linguaggio politico occidentale, si pensa ai diritti
umani soprattutto in termini di liberta' negative. Questa prospettiva non e'
piu' semplicemente riproponibile in questi termini; se si guarda con
attenzione alla stessa Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo
dell'Onu, si potra' notare come essa vada ben oltre rispetto ad un semplice
elenco di garanzie. Il dibattito sul reale ambito dei diritti umani e' ben
lontano dall'aver raggiunto l'accordo di cui parlava Kofi Annan, grazie
all'apporto di molte voci critiche, dalla filosofia femminista al
multiculturalismo. La letteratura scientifica su questo argomento ha assunto
ormai proporzioni ingestibili: in questo saggio verranno prese in esame
molto brevemente alcune delle formulazioni piu' paradigmatiche recentemente
espresse, ovvero la proposta di una societa' dei popoli decenti elaborata da
John Rawls, l'idea di diritti come capabilities di Martha Nussbaum e infine
le rivendicazioni di giustizia globale di Peter Singer e Thomas Pogge.
La concezione abbozzata da Rawls nel suo The Law of the Peoples non
abbandona del tutto il concetto tradizionale di diritti umani come liberta'
negative. Prima di tutto e' importante ricordare che Rawls accetta il quadro
delle relazioni internazionali sostanzialmente cosi' come si presenta;
sebbene si preoccupi di prendere le distanze dal concetto vestfaliano di
sovranita', Rawls comunque continua ad assumere solo i popoli (peoples) come
soggetti politici, e la societa' dei popoli di cui auspica la creazione come
possibile strumento di difesa per la pace si forma in forza di contratti che
presuppongono la preesistenza di corpi politici gia' stabiliti. Il ruolo che
Rawls affida ai diritti umani e' quello di stabilire degli standard che
siano al tempo necessari e non sufficienti: necessari perche' un popolo
possa essere definito decente e non "canaglia", eppure non sufficienti
perche' possa essere definito liberale. In questo senso, la violazione dei
diritti umani - intesi come standard necessari - secondo Rawls costituisce
sia la giustificazione per interventi che violino la sovranita' di un dato
popolo, sia un limite per "le ragioni che giustificano la guerra e
specificano i limiti dell'autonomia interna di un regime" (3). Questo doppio
ruolo svolto dai diritti umani risulta piu' comprensibile se si considera
che secondo Rawls i diritti umani si distinguono per la loro "particolare
urgenza": si tratta quindi in sostanza della liberta' dal genocidio e dalla
schiavitu', e della possibilita' di una liberta' "non uguale" di coscienza;
Rawls infatti e' molto chiaro nello stabilire che non si tratta degli stessi
diritti di cui godono i cittadini delle democrazie liberali. Secondo alcuni
(mi riferisco per esempio ad un filosofo intelligente e originale come
Alessandro Ferrara) l'approccio rawlsiano ha il  merito di sganciare i
diritti umani dalle forme della democrazia liberale, limitando, ma non
rifiutando del tutto l'idea di un pluralismo di forme politiche fra i
popoli. La prospettiva di The Law of the Peoples permetterebbe quindi di
separare la richiesta di rispettare un livello minimo di diritti umani
dall'imposizione "imperialista" delle forme politiche delle
liberaldemocrazie occidentali. A mio giudizio invece e' proprio questo
l'aspetto che piu' presta il fianco ad una riflessione critica, come
cerchero' di dimostrare in seguito.
Martha Nussbaum ha portato un contributo molto importante al dibattito sui
diritti umani con il suo capabilities approach, risultato anche della sua
lunga collaborazione con Amartya Sen. La prospettiva di Sen e Nussbaum e'
politicamente piu' esigente, e filosoficamente molto piu' densa di quella
rawlsiana. La proposta di Nussbaum - ne ricordo solo le linee principali -
connette i diritti umani ad un numero minimo di "capabilities" ovvero di
circostanze che mettono gli esseri umani in grado di "funzionare"
pienamente. Tali capabilities possono essere interne, cioe' degli stadi di
sviluppo della persona stessa, o combinate, ovvero risultare
dall'interazione di capacita' interne con circostanze esterne adatte perche'
si possa esercitare una data funzione. In alcune aree - fra le quali
specificamente la politica - i diritti possono essere considerati come
"capacita' combinate", mentre sotto altri aspetti possono essere considerati
come "giustificate esigenze". Non e' quindi del tutto chiaro se i diritti
possano essere considerati una conseguenza o una precondizione delle
capacita'; cionondimeno, l'aspetto a mio giudizio di maggiore interesse
nella riflessione di Sen e Nussbaum sta nel suo partire dal soggetto, dalla
persona che deve esprimere una certa rivendicazione, e non dall'oggetto
della rivendicazione stessa (una determinata liberta', un determinato
servizio), cioe' dal "diritto a" specificatamente inteso. In altri termini,
il capabilities approach non afferma che "la persona y ha diritto a x", ma
piuttosto stabilisce una connessione di questo tipo: "per essere una
persona, e per funzionare pienamente come tale, y  ha bisogno di x".
Indubitabilmente, si deve riconoscere a Nussbaum di aver dato prova di un
grande coraggio filosofico per aver proposto una vera e propria "lista" di
capacita'. Dietro alla "lista" di capacitazioni della Nussbaum si trova
comunque un sostrato che si fonda su assunzioni forti rispetto a cio' che e'
la natura umana (forse derivato dal suo peraltro rispettabilissimo
retroterra di aristotelismo). Ma il punto che e' piu' significativo per
l'analisi qui svolta dell'approccio di Sen e Nussbaum e' lo stretto legame
che stabilisce fra diritti e giustizia. Sen e Nussbaum infatti propongono
un'idea dei diritti che non si concentra semplicemente ne' sulla necessita'
di stabilire garanzie ne' sulla necessita' di rimuovere gli ostacoli;
piuttosto, la prospettiva da loro elaborata si preoccupa di sviluppare nelle
persone quelle capacita' che le metteranno in grado di vivere cio' che Sen e
Nussbaum definiscono una vita degna di essere vissuta. Se dunque ogni essere
umano ha "diritto" a poter acquisire un numero minimo di capacita', si pone
in modo non piu' eludibile il problema della redistribuzione delle risorse,
ovvero di una giustizia a livello planetario.
La possibilita' di elaborare una "teoria della giustizia" su scala
planetaria e' al centro del lavoro di Thomas Pogge, Global Justice and Human
Rights, che intende sviluppare una teoria della giustizia che possa valere
su scala globale. La prospettiva rawlsiana rientra quindi in gioco, sebbene
in un senso ben diverso rispetto a The Law of the Peoples, dove Rawls
afferma piu' o meno esplicitamente di non  avere intenzione di elaborare una
teoria della giustizia mondiale (4). Pogge parte da una considerazione molto
rilevante per quanto riguarda il tema del destino e dei compiti della
politica in eta' di globalizzazione. I cittadini del primo mondo, osserva,
sono pronti ad accettare come un dato di fatto assolutamente pacifico e
indisputabile che si abbia fra diverse parti del mondo un livello di
disuguaglianza che riterrebbero invece del tutto scandaloso e inaccettabile
all'interno di uno stesso stato territoriale. La situazione di global
interconnectedness in cui si trova attualmente il pianeta non permette piu'
di considerare questi squilibri come "un problema di qualcun altro"; al
contrario, esiste una precisa responsabilita' politica e morale per questa
situazione di ingiustizia. Pogge parte da un presupposto universalista,
ovvero che ogni essere umano abbia il diritto a realizzare il proprio
"flourishing" ed abbia pertanto il diritto di rivendicare una "minimally
adequate share of basic goods" (5); ed e' esattamente l'accesso a questi
beni primari che deve essere considerato (per quanto in maniera "ragionevole
e probabilistica") l'oggetto dei diritti umani. L'appartenere a un gruppo
quale la "nazione" non costituisce una ragione valida ne' per considerarsi
gli unici intitolati a fruire dei diritti (entitlement) ne' tantomeno per
escludere altri (6). Molto simile e' anche la prospettiva di Peter Singer
nel suo One world, dove afferma con decisione il dovere morale alla
condivisione e la necessita' urgente di pensare a come realizzare una
maggiore giustizia su scala globale. E' importante non dimenticare che
Singer e Pogge non si accontentano di un generico richiamo alla capacita' o
al senso morale degli esseri umani: al contrario, le loro rivendicazioni di
giustizia globale si fondano sulla convinzione che esista una precisa
responsabilita' non solo etica, ma anche politica (7).
Questi sforzi di elaborare teorie della giustizia che possano valere anche a
livello  globale cercano di rispondere ad una delle sfide piu' terribili
alle quali deve far fronte la politica in tempo di globalizzazione.
L'Occidente moderno ha pensato la dimensione stessa del politico intorno
alla distinzione fra "dentro" e "fuori". In epoca di globalizzazione, i
piani sui quali gli spazi politici hanno preso forma vengono messi
radicalmente in discussione; e il problema della riduzione delle ingiustizie
piu' atroci e' uno degli ambiti principali per questo processo di
ripensamento. E' difficile pensare ad un compito piu' drammaticamente
"politico" che non la necessita' di arrivare ad una  meno iniqua
distribuzione delle risorse - sempre piu' scarse - del pianeta, e di
eliminare o almeno attenuare le sofferenze causate da processi economici
piu' o meno globalizzati. Se dunque la questione dei diritti umani non puo'
prescindere dalla questione della giustizia globale, di conseguenza non puo'
fare a meno di intrecciarsi con il piu' ampio interrogativo delle
trasformazioni e della crisi della politica in epoca di globalizzazione. A
fare da sfondo generale a questa linea di ricerca sta poi un interrogativo
che emerge sempre piu' spesso, ovvero se il pensiero critico occidentale
abbia pienamente recepito e compreso la situazione di assoluta emergenza in
cui si trova ad operare, se abbia veramente elaborato il fatto di trovarsi
di fronte ad un massacro silenzioso. Come Hans Jonas si era posto il
problema di dire Dio dopo Auschwitz, cosi' noi oggi dovremmo chiederci come
si possa pensare criticamente e politicamente avendo davanti a noi questo
eccidio che si compie quotidianamente, in  silenzio.
*
2. Il legame diritti umani-politica-legittimazione
La dimensione spaziale-territoriale e' dunque una caratteristica
fondamentale della politica moderna, come e' particolarmente evidente nella
linea genealogica che va da Hobbes a Schmitt. Ma il nesso che lega
obbedienza, protezione, e sicurezza non e l'unico ambito in cui spazialita'
e politica si intrecciano, come dimostra la genealogia dello stesso concetto
di legittimita' democratica. Habermas ricorda come anche i diritti di
cittadinanza si siano articolati seguendo la polarita'
inclusione-esclusione. Infatti, nella storia del discorso politico
occidentale i diritti sono stati si' proclamati come droits de l'homme, ma
nella pratica storica sono stati immediatamente declinati e concretizzati
come droits du citoyen, ovvero di chi apparteneva a una comunita' politica
ben identificata. Il discorso dei diritti umani si intreccia dunque alla
crisi della dimensione territoriale della politica. Piu' specificamente, la
ridefinizione del significato e dello status dei diritti umani dipende in
forte misura dalla crisi della sovranita' secondo il modello vestfaliano, e
soprattutto dalla crisi e dalla trasformazione di quella particolare
articolazione della sovranita' moderna che vede nella "sovranita' popolare"
il principio della legittimita' democratica. Anche la sovranita' popolare,
infatti, si e' teoricamente fondata sui "diritti naturali" propri di tutta
l'umanita', ma si e' poi storicamente articolata in sinergia con l'idea di
comunita' nazionale e con una dimensione territoriale della politica.
Che cosa cambia con la globalizzazione? Da parte di molti si e' osservato
che ormai stiamo gia' vivendo in una sorta di cosmopolis di fatto, a
proposito della quale si puo' parlare di Human Rights regime (8). In questa
prospettiva, una fitta rete di accordi e convenzioni in difesa dei diritti
umani limiterebbe sostanzialmente l'effettiva sovranita' degli stati: ma
basta uno sguardo alla situazione effettiva della politica internazionale
per capire quanto si sia lontani da questo scenario. Ben piu' realistico e'
affermare, con Bertrand Badie, che i diritti umani si trovano ancora sospesi
entre ruse et raison, in una sorta di limbo fra una razionalita' strumentale
miope e una vera ragione pubblica, fra una sovranita' di tipo vestfaliano e
una situazione del tutto nuova (9). Il punto da chiarire quindi e' come i
diritti umani possano abbandonare questa zona grigia, dato che molti dei
soggetti ai quali spetterebbe di sottoscrivere quel "patto per l'uscita
dallo stato di natura" di cui parla Habermas, ovvero i singoli  stati, sono
ancora ben lontani dall'applicare al proprio interno quelle norme di cui si
vorrebbe che si facessero difensori all'esterno; Badie ricorda che gli
attori statuali, anche se in buona fede, non sempre hanno la credibilita'
necessaria per tutelare i diritti umani per mezzo di azioni di ingerenza
(10). Eppure, il fatto stesso che sulla questione dei diritti umani gli
attori-stato - specialmente occidentali - mettano in gioco la propria
credibilita', dimostra l'esistenza di quella "culture of Human Rights" di
cui parla Rorty.  La stessa "occidentalita'" dei diritti umani potrebbe
rivelarsi un punto di forza invece che un lato debole, rappresentando una
sorta di argomento-leva con il quale obbligare almeno gli attori statuali
occidentali - che spesso, per non dire sempre, hanno il coltello dalla parte
del manico in termini di rapporti di forza - ad agire in modo coerente ai
principi sui quali basano la propria autocomprensione. Naturalmente, questo
ruolo potrebbe competere solo ad una opinione pubblica vivace e sensibile,
una opinione pubblica non piu' legata esclusivamente alla dimensione
nazionale, ma capace di rappresentare almeno in nuce una societa' civile
post-nazionale (11).
Se dunque la cosmopolis di fatto ancora non esiste, e se gli stati non sono
attori affidabili, resta aperto l'interrogativo su quale sia il soggetto
legittimato a difendere e a rendere validi i diritti umani. Le posizioni del
cosiddetto global constitutionalism - si pensi a nomi quali Richard Falck e
Luigi Ferrajoli - vorrebbero definitivamente riportare i diritti umani nella
zona della raison, e sottrarli per sempre alla ruse occasionale. In questa
prospettiva, i diritti vengono sganciati dalla dimensione della cittadinanza
intesa come appartenenza (membership) a un corpo politico. I diritti
rappresentano quindi l'elemento determinante che legittima l'azione delle
grandi istituzioni transnazionali anche in opposizione alla sovranita'
nazionale. Alle posizioni in vario grado cosmopolite sono state rivolte
molte critiche, in particolare da parte della scuola "realista"; ma piu'
stimolante delle osservazioni classicamente realiste e' la critica di Zolo,
secondo il quale l'ideologia dei diritti umani si radica in una forzata
omogeneita' della societa' civile globale (12), e rimanda alla lunga
genealogia dell'idea di civitas maxima, ovvero di una grande unita' politica
(13). Questa e' una obiezione di grande rilevanza, ma non e' l'unica che si
possa rivolgere alle posizioni del cosmopolitismo giuridico. Infatti, anche
chi si trovasse a condividere almeno in parte le motivazioni fondamentali
del costituzionalismo globale, dovrebbe riflettere sulla prospettiva di un
mondo "preso nella rete" dello Human Rights regime, nel quale un ruolo
sempre piu' importante verrebbe svolto da un potere giudiziario
internazionale, peraltro ancora in fieri. Questo sembra condurre ad un
processo da un lato di crescente giuridificazione e dall'altro di sempre
piu' marcata spoliticizzazione. La costituzione di una sfera pubblica
post-nazionale dunque sarebbe affidata soprattutto alle corti, e in misura
solo molto minore a delle sedi di vera e propria discussione politica,
seguendo l'esempio di quanto gia' sta accadendo ad alcuni contesti
nazionali: si pensi, per non fare che un esempio, agli Stati Uniti. Per
questo dunque i diritti umani non possono essere considerati come il punto
d'arrivo della politica post-nazionale (il punto massimo di consenso) quanto
piuttosto, come nella prospettiva habermasiana,  dei "presupposti
comunicativi".
Secondo Habermas, infatti, i diritti umani si si presentano come ambigui
perche' tale e' il contesto politico nel quale essi si trovano: quindi
"basta trasformare il Naturzustand vigente fra gli stati in situazione
giuridica di legalita'" (14). Una volta ricondotti alla loro naturale
dimensione di giuridicita', i diritti umani sarebbero effettivamente in
grado di svolgere nei confronti della societa' civile e della sfera pubblica
una funzione essenziale, ovvero di istituzionalizzare i presupposti
comunicativi indispensabili per una formazione ragionevole della volonta'
politica e per l'esercizio di quella che Habermas definisce "sovranita'
popolare comunicativamente fluidificata". Ma a chi appartiene in ultima
istanza questa sovranita' popolare "fluida"? I diritti umani non possono
piu' essere declinati, come lo sono stati nella grande narrazione del
moderno, in termini di diritti del cittadino, ne' la sovranita' popolare
come principio di legittimazione puo' essere declinata in termini di
"comunita' naturale".
Non e' detto che la cattiva idealita' civitas maxima di cui parla Zolo, con
le sue armate cristiane ben istruite e asperse, se non dall'incenso del
clero quanto meno dall'inchiostro degli scholars, o la giuridificazione
cosmopolita siano l'unica risposta. Se lo fossero, tale risposta lascerebbe
un realismo politico rozzo a danzare sulle rovine di una cosmopoli mai
esistita. La crisi della politica su base territoriale-nazionale non ha come
unica via d'uscita il cosmopolitismo, e l'opzione rappresentata da aggregati
regionali o subregionali rappresenta una alternativa molto piu' credibile.
Ovviamente, questo sottintende la necessita' di abbandonare ogni domestic
analogy: il caso Europa insegna come ogni soggetto politico post-nazionale
non possa essere che un "We the people" completamente artificiale.
Ciononostante, questo "we the people" artificiale e' capace di offrire un
modello di cittadinanza che, per quanto non globale, e' sicuramente
post-nazionale. Un livello regionale offre infatti piu' chances effettive di
arrivare alla formazione effettiva di una volonta' pubblica, e rappresenta
un contesto nel quale la formazione di una societa' civile post-nazionale,
terreno di cultura indispensabile per qualsiasi democrazia che possa
funzionare, non sembra piu' solo un monumento alle buone intenzioni. In
questo senso si puo' intravedere un futuro per la politica in epoca di
globalizzazione, dove i diritti umani non siano solo la bandiera di una
crescente giuridificazione ma dove, al contrario, i diritti umani siano
effettivamente presupposti per la partecipazione al grande "discorso della
politica" inteso come processo fluido e non statico. I compiti che stanno di
fronte a questo grande gioco della politica sono immensi, come gia' si e'
ricordato: si tratterebbe di confrontarsi con le questioni di giustizia
poste da Pogge e da Singer, di costruire delle reti discorsive tali da
render possibile una costante rielaborazione e riflessione sulle
"capabilities" degli esseri umani, come si e' visto con Nussbaum. Per questo
la prospettiva rawlsiana di Law of the peoples sembra decisamente
insoddisfacente, in quanto accetta, nonostante gli inevitabili distinguo,
una divisione fra politica estera e politica interna difficilmente
difendibile alla luce delle grandi sfide e dei grandi rischi che si
incontrano in epoca di globalizzazione.
*
3. La parola umani
Una politica post-nazionale, dunque, non puo' lasciarsi andare alla
nostalgia per comunita' "naturali" di alcun tipo. Tuttavia, non si puo'
trascurare il fatto che i diritti umani siano stati originariamente fondati
e radicati proprio in una dimensione di "naturalita'". La necessita' di dare
una fondazione non ingenuamente giusnaturalistica ai diritti dell'uomo cosi'
presente nel dibattito filosofico contemporaneo (15), non e' certo senza
passato. Gia' Hannah Arendt in On Revolution reagiva al linguaggio
giusnaturalistico che faceva i diritti dell'uomo propri dell'essere umano
nella sua "nuda umanita'". A questo, Arendt contrapponeva il modello di un
cittadino detentore di diritti perche' integrato in una comunita' politica.
L'insofferenza arendtiana verso il discorso dei diritti umani, che trovava
troppo somiglianti alla societa' degli amici del cane e del gatto, trae
origine dagli strati piu' profondi della sua riflessione filosofica. In
particolare, si lega al suo rifiuto dell'idea di una umanita' nuda, e al
disagio che permea tutta la filosofia arendtiana nei confronti di cio' che
con Starobinski si potrebbe definire "il momento del corpo", cioe' alla
contrapposizione fra bios e zoe.
Ma dalla critica arendtiana si potrebbe invece ripartire proprio guardando
alla dimensione del bios, della vita che ancora non ha parola per
raccontarsi. Il bios umano e' oggi sotto attacco, e l'idea di natura umana
diventa sempre piu' evanescente: il confine tra cio' che nasce e cio' che e'
fatto si fa sempre piu' permeabile (questo e' un tema che si eredita dalla
riflessione gia' di Anders, e che ritroviamo poi in una grande varieta' di
autori, da Habermas fino al cyberfemminismo) (16). L'idea di natura umana
offre un terreno sempre piu' scivoloso alla riflessione filosofica: molto
piu' fertile allora, riprendendo un altro spunto arendtiano, l'idea di
condizione umana. L'idea di condizione umana suggerisce immediatamente una
nozione di storicita', temporalita' e narrativita' che permette di "render
conto" anche delle trasformazioni piu' stravolgenti che il bios umano sta
subendo. Eppure, proprio da questa dimensione di bios, sempre piu'
trasformata, manipolata e mercificata si potrebbe ricavare un appiglio per
poter pensare i diritti umani. La dimensione di "nuda vita" contro la quale
Arendt aveva rivolto le armi della sua critica e' la dimensione della
sofferenza senza difese e senza parole. Secondo Arendt, solo la gioia era
una passione propriamente politica, poiche' era talkative: la gioia fa
parlare e per questo e' politica. Il dolore, come ricorda Jean-Luc Nancy, e'
al contrario sempre silenzioso. Nel dolore non c'e' che asimmetria e
ingiustizia, e di fronte ad esso l'unica opzione e' il rifiuto totale e
caparbio. Parlare di diritti umani significa prima di tutto condurre nella
dimensione della conversazione politica il rifiuto caparbio e totale del
silenzio della sofferenza. I diritti umani sono quelli che garantiscono che
gli esseri umani non vengano de-umanizzati, ridotti proprio a quei meri
corpi che tanto irritavano Arendt, corpi che non siano altro che macchine
per soffrire. I diritti umani sono quelle "grucce", quei punti d'appoggio
che garantiscono ad ogni essere umano di pensarsi e di progettarsi, di
diventare cio' che e'. L'essere degli esseri umani inoltre e' in moto, in
movimento nel tempo e nello spazio, non sta fermo, subisce l'incontro con
l'altro e si trasforma. L'idea di una rete di norme di protezione dei
diritti umani consentirebbe quindi di affermare la necessita' di proteggere
questa fragilita' e questa vulnerabilita', il diritto, appunto, degli esseri
umani di non essere ridotti solo a macchine per soffrire la fame, torture,
oppressione.
Forse e' proprio la coscienza della profonda nudita' e fragilita' che puo'
rappresentare il terreno di sviluppo di un'idea di comunita' umana.
L'antropologia filosofica che puo' fare da fondazione ad un discorso di
diritti umani in questo ultimo scampolo di modernita' non e' certo
l'antropologia illuministica. Gli esseri umani non sono detentori di diritti
in quanto nati liberi e uguali o in quanto naturalmente dotati di ragione.
L'ambito antropologico al quale conviene volgersi non e' l'antropologia
dell'homo oeconomicus o dell'uomo modulare di Gellner, quanto piuttosto
l'antropologia dell'uomo obsoleto di Gunther Anders (17).
L'umanita' non e' in possesso di magnifiche sorti e progressive, al
contrario, la dimensione dell'essere al mondo degli umani e' segnata dal
rischio, dall'obsolescenza e dalla caducita'. Molte voci, nel dibattito
filosofico almeno italiano, hanno riportato al centro dell'attenzione la
suggestione elaborata da Hans Jonas, della paura come possibile motore
emotivo per una rinnovata azione politica. E' indubbio che si abbia bisogno
di maturare una sana "paura globale", come Elena Pulcini non si stanca di
ricordarci: ma forse si puo' sperare di intravedere anche qualche cosa di
piu'. Jean-Luc Nancy ha parlato di una "fratellanza senza padre" (18), e
Giacomo Marramao della democrazia come comunita' di sradicati (19). Mi
sembra che sia questa una prospettiva piu' adatta della fratellanza
"naturale" del giusnaturalismo. Se gli esseri umani dunque non partecipano
di una natura, quanto piuttosto di una "condizione", mutevole e soggetta al
tempo, e' necessario che articolino parole comuni che consentano loro di
uscire dalla dimensione del bios offeso e fragile, delle parole che possano
articolare delle narrazioni che restituiscano senso. Ma queste parole
risuonano solo la' dove cessa la sofferenza cieca e bestiale: per questo
l'idea di diritti umani ha ancor senso, in quanto capace di esprimere
l'impegno a proteggere la nudita' di cui tutti partecipiamo.
*
Note
1. Citato in M. Ignatieff, Human Rights as Politics and Idolatry, Princeton
and Oxford, Princeton University Press, 2001, p. 53.
2. Per una critica lucida e stimolante della koine' del cosmopolitismo
politico e dei diritti umani, si veda D. Zolo, Cosmopolis, Milano,
Feltrinelli, 2002 (seconda edizione). La sua critica ad una certa ingenuita'
che spesso la letteratura cosmopolitan manifesta su temi quali i diritti
umani, la democrazia postnazionale, l'esistenza di una societa' civile
globale e' indubitabilmente salutare, anche se non sempre la sua severita'
e' meritata. Sotto molti aspetti, questo intervento si allontanera' dalle
posizioni di Zolo, pur condividendo una visione conflittuale della
globalizzazione.
3. J. Rawls, Il diritto dei popoli, Torino, Comunita', 2001, p. 104  (The
Law of Peoples with "The idea of public Reason revisited", Harvard
University Press, 1999).
4. Rawls, op. cit., pp. 108-109.
5. T. Pogge, World Poverty and Human Rights, Cambridge, polity Press, 2002.
I beni primari di cui parla Pogge sono physical integrity, substinence
supplies, freedom of movement and action, basic education, economic
participation (p. 49).
6. Questa e' la posizione che Pogge definisce explanatory nationalism.
7. A questo proposito, la prospettiva di Rawls rivela ulteriori aspetti di
debolezza. In particolare, Rawls accetta sostanzialmente una
spazializzazione tradizionale della politica. Nella sua societa' mondiale i
popoli accettano si' di porre dei limiti alla  propria sovranita', ma lo
fanno in base a un contratto, sottoscritto perche' i popoli - come i
cittadini di A Theory of Justice - condividono un basic sense of justice.
8. A questo proposito, Krasner interpreta la grande proliferazione di
trattati sui diritti umani tipica del secolo appena trascorso come una sorta
di autocoscienza della politica moderna: signing human rights declaration is
part of the script of modernity; cfr. S. D. Krasner, Sovereignty, organised
hypocrisy, Princeton, Princeton University Press, 1999, p. 122.
9. Cfr. B Badie, Un monde sans souverainete'. Les Etats entre ruse et
raison, Paris, Fayard, 1999.
10. Badie, cit., p. 285.
11. Si aprirebbe a questo punto un dibattito enorme sulle reali chances
aperte alla nascente societa' civile internazionale di esercitare influenza
e di acquisire potere, che non puo' essere qui esaminato in ogni aspetto. Mi
limitero' quindi ad affermare che se da un lato alcune diagnosi
affrettatamente ottimistiche sono piu' di ostacolo che di aiuto (penso, con
tutta la considerazione per un grande interprete, ad alcune affermazioni di
Ulrich Beck), dall'altro ritengo che un embrione di opinione pubblica
internazionale sia ormai un dato di fatto nel nostro panorama politico
odierno.
12. Per questo processo di forzata omogeneizzazione, Zolo usa l'espressione
di "creolizzazione": D. Zolo, Cosmopolis cit., p. 161.
13. Zolo inoltre pone una domanda ancor piu' radicale: ogni progetto
cosmopolitico non puo' che essere un progetto egemonico e violento.
Cosmopolis cit., p. 35.
14. J. Habermas, L'inclusione dell'altro, Milano, Feltrinelli 1998, pp.
206-207 (Die Einbeziehung des Anderen, Frankfurt a. M., Suhrkamp Verlag,
1997).
15. Cfr. il saggio di F. Cerutti, Le sfide globali e l'esito della
modernita',  in D. D'Andrea ed E. Pulcini (a cura di), Filosofie della
globalizzazione, Pisa. Ets, 2002.
16. J. Habermas, The future of Human Nature, Cambridge, Polity Press, 2003;
D. Haraway, Simians, Cyborgs, and Women. The Reinvention of Nature, New
York, 1991 (tr. it. Manifesto Cyborg. Donne, tecnologie e biopolitiche del
corpo, Milano, Feltrinelli, 1995).
17. G. Anders, L'uomo e' antiquato, 2 voll, Torino, Bollati Boringhieri,
2003 (Die Antiquitiertheit des Menschen, Verlag  C. H. Beck'sche, Muenchen,
1956.
18. J.-L. Nancy, Il senso del mondo, Milano, Lanfranchi, 1997 (Le sense du
Monde, Paris Galilee, 1993).
19. G. Marramao, Passaggio a Occidente, Filosofia e globalizzazione, Torino,
Bollati Boringhieri, 2003, pp. 191-192.

4. INCONTRI. "LA POLITICA DELLA NONVIOLENZA", UN SEMINARIO PROMOSSO DAL
MOVIMENTO NONVIOLENTO IL 21-22 OTTOBRE A VERONA

Si svolgera' a Verona il 21 e 22 ottobre il seminario sul tema "La politica
della nonviolenza (alla prova della guerra)" promosso dal Movimento
Nonviolento.
*
Programma:
- Sabato 21 ottobre, ore 10: relazione introduttiva. Prima sessione "La
teoria della nonviolenza, sulla guerra" (mattina, ore 10-13). Seconda
sessione "La pratica della nonviolenza, nella politica" (pomeriggio, ore
15-19). Serata libera, con due proposte: a) visita guidata alla mostra
"Mantegna a Verona", b) laboratorio del "Teatro dell'oppresso" sui temi
discussi.
- Domenica 22 ottobre, ore 9. Terza sessione "La strategia della
nonviolenza, le iniziative" (mattina, ore 9-11). Conclusioni (ore 11-13).
Ogni sessione verra' sollecitata da una griglia di domande.
Il Seminario si svolgera' presso la Sala "Comboni" dei padri comboniani, in
vicolo Pozzo 1, Verona.
*
Per informazioni e prenotazioni: Casa per la nonviolenza, via Spagna 8,
37123 Verona, tel. 0458009803, fax: 0458009212, e-mail: an at nonviolenti.org,
sito: www.nonviolenti.org

5. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.

6. PER SAPERNE DI PIU'
* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per
contatti: azionenonviolenta at sis.it
* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia:
www.peacelink.it/users/mir; per contatti: mir at peacelink.it,
luciano.benini at tin.it, sudest at iol.it, paolocand at libero.it
* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per
contatti: info at peacelink.it

LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 1426 del 22 settembre 2006

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