La nonviolenza e' in cammino. 1419



LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 1419 del 15 settembre 2006

Sommario di questo numero:
1. Luciano Bonfrate: Seguendo la flotta
2. Enzo Bianchi: Nonviolenza
3. Cindy Sheehan: Ehi, George
4. Enrico Peyretti: Nonviolenza e riforma di religione
5. Letture: Rita Borsellino, Nata il 19 luglio
6. La "Carta" del Movimento Nonviolento
7. Per saperne di piu'

1. CONTRORIME. LUCIANO BONFRATE: SEGUENDO LA FLOTTA

"Torniamo indietro?
Torniamo pure"
(Aldo Palazzeschi, La passeggiata)

Quelli che erano obiettori di coscienza
ed oggi votano le spedizioni armate

quelli che erano per il disarmo universale
quelli che eran per la pace subito
quelli dell'ecumene, dell'internazionale
quelli che la san lunga un miglio e un cubito

quelli multietnici e multilaterali
quelli che siamo tutti sovversivi
quelli che guerra no guerriglia si'
quelli col casco e quelli col chepi'
quelli che non c'e' pace tra gli ulivi
quelli che noi, noi si' che siam leali
quelli che noi, che cosi' tante lotte
quelli di sette cotte

quelli che ecco, riduciamo il danno
diminuendo il numero di afgani
quelli che ecco, trovano il consenso
col mitra annichilendo i musulmani

quelli del nuovo mondo postmoderno
quelli che senza se e senza ma
quelli che basta che vadano al governo
e subito eja eja alala'

quelli che erano per la nonviolenza
ed oggi approvano le guerre coloniali

2. RIFLESSIONE. ENZO BIANCHI: NONVIOLENZA
[Dal quotidiano "La repubblica" del 12 settembre 2006. Enzo Bianchi e'
animatore della comunita' di Bose. Dal sito www.festivaletteratura.it
riprendiamo questa scheda: "Enzo Bianchi e' nato a Castel Foglione nel
Monferrato nel 1943 ed e' fondatore e priore della comunita' monastica di
Bose. Nel 1966 ha infatti raggiunto il villaggio di Bose a Magnano
(Vercelli) e ha dato inizio a una comunita' monastica ecumenica cui tuttora
presiede. Enzo Bianchi e' direttore della rivista biblica "Parola, Spirito e
Vita", membro della redazione della rivista internazionale "Concilium" ed
autore di numerosi testi, tradotti in molte lingue, sulla spiritualita'
cristiana e sulla grande tradizione della Chiesa, scritti tenendo sempre
conto del vasto e multiforme mondo di oggi. Collabora a "La stampa",
"Avvenire" e "Luoghi dell'infinito"". Tra le opere di Enzo Bianchi: Il
radicalismo cristiano, Gribaudi, 1980; Lontano da chi, Gribaudi, 1984; Un
rabbi che amava i banchetti, Marietti, 1985; Il corvo di Elia, Gribaudi,
1986; Amici del Signore, Gribaudi, 1990; Pregare la parola, Gribaudi, 1990;
Il profeta che raccontava Dio agli uomini, Marietti, 1990; Apocalisse di
Giovanni, Qiqajon, 1990; Magnificat, benedictus, nunc dimittis, Qiqajon,
1990; Ricominciare, Marietti, 1991; Vivere la morte, Gribaudi, 1992;
Preghiere della tavola, Qiqajon, 1994; Adamo, dove sei, Qiqajon, 1994; Il
giorno del signore, giorno dell'uomo, Piemme, 1994; Da forestiero, Piemme,
1995; Aids. Vivere e morire in comunione, Qiqajon, 1997; Pregare i salmi,
Gribaudi, 1997; Come evangelizzare oggi, Qiqajon, 1997; Libro delle
preghiere, Einaudi, 1997; Altrimenti. Credere e narrare il Dio, Piemme,
1998; Poesie di Dio, Einaudi, 1999; Altrimenti. Credere e narrare il Dio dei
cristiani, Piemme, 1999; Da forestiero. Nella compagnia degli uomini,
Piemme, 1999; Giorno del Signore, giorno dell'uomo. Per un rinnovamento
della domenica, Piemme, 1999; I paradossi della croce, Morcelliana, 1999; Le
parole della spiritualita'. Per un lessico della vita interiore, Rizzoli,
1999; Ricominciare. Nell'anima, nella Chiesa, nel mondo, Marietti, 1999;
Accanto al malato. Riflessioni sul senso della malattia e
sull'accompagnamento dei malati, Qiqajon, 2000; L'Apocalisse di Giovanni.
Commento esegetico-spirituale, Qiqajon, 2000; Come vivere il Giubileo del
2000, Qiqajon, 2000; La lettura spirituale della Bibbia, Piemme, 2000; Non
siamo migliori. La vita religiosa nella Chiesa, tra gli uomini, Qiqajon,
2002; Quale fede?, Morcelliana, 2002; I Cristiani nella societa', Rizzoli,
2003; La differenza cristiana, Einaudi, 2006]

Da cinque anni, ogni volta che ritorna la data dell'11 settembre, il
pensiero e il ricordo di tutti va all'attacco terroristico al cuore degli
Stati Uniti e alla tragica svolta che ha impresso alla nostra storia,
stabilendo un "prima" e un "dopo" nell'approccio ai problemi piu' complessi,
che siano di natura geopolitica o economica, di globalizzazione o di
confronto tra mondi culturali o religiosi, di giustizia internazionale o di
concezione della guerra.
Ma l'11 settembre e' anche l'anniversario di altri eventi. Due risalgono a
quattro secoli fa, ma sono stranamente legati ai luoghi o alle problematiche
del 2001: e' in quel giorno del 1609 che l'esploratore Henry Hudson sbarco'
per la prima volta sull'isola di Manhattan, proprio mentre al di qua
dell'Atlantico, a Valencia, veniva emanato un ordine di espulsione contro i
musulmani che non accettavano di convertirsi, preludio alla cacciata di
tutti i moriscos dalla Spagna. E come dimenticare, in tempi piu' recenti,
l'11 settembre 1973? In Cile una giunta di militari appoggiata dai servizi
segreti della piu' grande potenza democratica rovescio' nel sangue il
governo democraticamente eletto di Salvador Allende, instaurando una
dittatura tra le piu' feroci e longeve dell'America latina.
*
Ma l'11 settembre di quest'anno e' anche il primo centenario di un evento
raramente ricordato nelle cronache, la cui memoria tuttavia fornisce
preziosi elementi di riflessione e di azione proprio nel contesto di
conflittualita' globale scatenato dall'11 settembre 2001. Siamo a
Johannesburg, Sudafrica. Una proposta di legge vorrebbe confinare gli
indiani e gli altri asiatici presenti nel paese in una condizione di
semi-illegalita', per non dire di sub-umanita'. Alcune migliaia di loro si
riuniscono al Teatro imperiale per decidere la forma di resistenza da
adottare contro quel provvedimento iniquo. Uno dei promotori della
manifestazione, un giovane avvocato di nome Gandhi, proclama la sua ferma
risoluzione di affrontare anche la morte piuttosto che sottomettersi alla
legge ingiusta. Dopo il suo appassionato discorso, tutti i presenti giurano
di non piegarsi a quel sopruso. L'11 settembre 1906 diviene cosi' il giorno
della nascita della nonviolenza.
Questo termine - che uno dei suoi sostenitori piu' lucidi, Aldo Capitini,
insegnera' a scrivere (e a pensare) tutto attaccato, per distinguerlo dalla
"non violenza", la semplice assenza di violenza, e declinarlo invece come
lotta tenace, limpida e coerente contro ogni violenza - racchiude in se' due
concetti complementari elaborati da Gandhi ma, per sua stessa affermazione,
"antichi come le montagne": quello di ahimsa (lotta contro la violenza,
in-nocenza come rifiuto di nuocere, riconciliazione) e quello di satyagraha
(forza della verita', ma anche energia di amore, rispetto per la pienezza
della vita). Ma l'aspetto piu' significativo della nonviolenza e' il suo
essere al contempo teoria e prassi, riflessione e azione, interiorita' e
lotta.
Cosi' la storia ha conosciuto declinazioni diverse di questo convincimento
interiore che si fa agire concreto: se Tolstoj, per esempio, ne ha
valorizzato soprattutto l'aspetto di ritrovata armonia con se stessi, con
gli altri e con la creazione, Martin Luther King l'ha interpretato come
"forza dell'amore" capace di abbracciare anche il nemico per disarmarlo,
mentre i quaccheri lo vivono ancora oggi come pacifismo radicale che rifiuta
ogni guerra.
E se diversi e complementari sono stati gli approcci teorici a questa
visione del mondo e dei rapporti sociali, altrettanto svariati sono stati e
possono essere gli strumenti utilizzati per tradurre le convinzioni in
prassi capace di mutare gli eventi della storia: digiuni e marce,
boicottaggi e difesa popolare nonviolenta, battaglie legislative e
interposizioni disarmate.
Ma l'obiettivo costante di ogni iniziativa nonviolenta va ben al di la' del
coinvolgimento del maggior numero possibile di uomini e donne nella lotta e
mira a ricondurre anche l'avversario all'interno di un'unica comunita' umana
riconciliata. Con estrema lucidita' lo storico inglese Arnold J. Toynbee ha
osservato che il satyagraha predicato e attuato da Gandhi "ci ha reso
impossibile continuare a governare l'India, ma ci ha permesso di partire
senza rancore e senza disonore". Cosi', se si confrontano due lotte di
liberazione dalla presenza coloniale vissute a una dozzina d'anni di
distanza - quella dell'Algeria dalla Francia e quella dell'India dalla Gran
Bretagna - non si puo' fare a meno di constatare che la prima, condotta
principalmente con metodi violenti, ha causato quasi un milione di perdite
umane e ha tuttora pesanti strascichi di incomprensione e di insofferenza,
mentre la seconda, condotta con mezzi essenzialmente nonviolenti, ha
conosciuto appena un migliaio di morti - pur in un paese ben piu' popoloso -
e ha facilitato da subito nuovi rapporti di cooperazione e scambio pacifico.
Si', il rispetto della vita e della dignita' anche del peggior nemico e'
parte integrante della nonviolenza perche' scopo di quest'ultima non e' il
trionfo di una fazione contro un'altra ma il riconoscimento e la
valorizzazione dell'umanita' comune a tutti gli esseri umani. E' lo stesso
concetto, espresso con il termine africano di ubuntu, che ha reso possibile
uno dei piu' straordinari processi di guarigione della memoria che il nostro
mondo abbia conosciuto: la "Commissione per la verita' e la riconciliazione"
istituita in Sudafrica dopo la fine dell'apartheid e' riuscita la' dove ha
fallito il tribunale di Norimberga e dove si sta arenando quello
internazionale dell'Aia: rileggere il passato, riconoscere e condannare il
male commesso offrendo nel contempo a vittime e carnefici la possibilita' di
cogliere un senso nel dolore, di pesarne le ferite e la speranza di poter
vivere un futuro liberato dalle atrocita' conosciute.
*
Certo, ci si chiedera' come sia possibile vivere la nonviolenza nel contesto
tragicamente inedito del terrorismo suicida e della guerra asimmetrica tra
eserciti nazionali o sovranazionali e civili assoldati per imprese mortifere
disperate: non e' forse utopia pensare di contrastare le bombe a mani nude?
Ma la storia ci dovrebbe insegnare che la risposta violenta e armata non
solo e' altrettanto inadeguata a fronteggiare questi nuovi scenari
apocalittici, ma sempre piu' spesso si mostra non come la soluzione del
problema bensi' come il suo progressivo aggravamento: la spirale della
violenza, infatti, non viene spezzata ma accelerata da una violenza piu'
forte che non fa che precipitare tutti sempre piu' velocemente nel baratro
della disumanizzazione. Ecco allora che l'11 settembre 1906 ha ancora molto
da insegnare a noi sconvolti dall'inaudito piombatoci dal cielo l'11
settembre 2001.

3. TESTIMONIANZE. CINDY SHEEHAN: EHI, GEORGE
[Ringraziamo Maria G. Di Rienzo (per contatti: sheela59 at libero.it) per
averci messo a disposizione nella sua traduzione il seguente intervento di
Cindy Sheehan.
Cindy Sheehan ha perso il figlio Casey nella guerra in Iraq; per tutto il
successivo mese di agosto e' stata accampata a Crawford, fuori dal ranch in
cui George Bush stava trascorrendo le vacanze, con l'intenzione di parlargli
per chiedergli conto della morte di suo figlio; intorno alla sua figura e
alla sua testimonianza si e' risvegliato negli Stati Uniti un ampio
movimento contro la guerra; e' stato recentemente pubblicato il suo libro
Not One More Mother's Child (Non un altro figlio di madre), disponibile nel
sito www.koabooks.com; sta per uscire il suo secondo libro: Peace Mom: One
Mom's Journey from Heartache to Activism, per Atria Books.
Maria G. Di Rienzo e' una delle principali collaboratrici di questo foglio;
prestigiosa intellettuale femminista, saggista, giornalista, narratrice,
regista teatrale e commediografa, formatrice, ha svolto rilevanti ricerche
storiche sulle donne italiane per conto del Dipartimento di Storia Economica
dell'Universita' di Sydney (Australia); e' impegnata nel movimento delle
donne, nella Rete di Lilliput, in esperienze di solidarieta' e in difesa dei
diritti umani, per la pace e la nonviolenza. Tra le opere di Maria G. Di
Rienzo: con Monica Lanfranco (a cura di), Donne disarmanti, Edizioni Intra
Moenia, Napoli 2003; con Monica Lanfranco (a cura di), Senza velo. Donne
nell'islam contro l'integralismo, Edizioni Intra Moenia, Napoli 2005]

Ehi, George, per caso mi sono imbattuta nello scambio che hai avuto con il
giornalista Matt Lauer nel corso del programma televisivo "Today Show". Mi
piacerebbe, da americana, poterti rispondere.
*
- Matt Lauer: Nondimeno lei ha ammesso che c'erano queste sedi segrete per
la Cia, no?
- Presidente Bush: E allora? Non e' tutto legale?
- Matt Lauer: I vertici di Amnesty International dicono che questi luoghi
segreti sono contrari alla legge internazionale.
- Presidente Bush: Bene, noi non siamo d'accordo. Inoltre, il mio lavoro e'
quello di proteggervi. E la maggioranza del popolo americano, se io dicessi
che abbiamo quel che pensiamo essere il regista dell'11 settembre, mi
direbbe: "Vedi tu se riesci ad ottenere informazioni senza torturarlo.", che
e' quel che abbiamo fatto.
- Matt Lauer: Non vorrei lasciar cadere questa questione dell'"e' tutto
legale". Voglio dire, se come in effetti pare essere accaduto, si e' usata
quella che chiamano "tavola d'acqua" con Khalid  Sheikh Mohammed, e lo dico
per gli spettatori: si tratta in breve di legare qualcuno ad un tavolo e
dirgli che si sta per annegarlo mettendo il tavolo sott'acqua, se questo e'
legale e rispetta la legge, perche' non si poteva farlo a Guantanamo?
Perche' dobbiamo avere luoghi segreti in giro per il mondo?
- Presidente Bush: Non intendo parlare di tecniche. E non voglio spiegare al
nemico cosa stiamo facendo. Tutto quello che intendo dire e' rispondere a
cio' che lei mi ha chiesto, ovvero se stavamo o no facendo queste cose per
proteggere il popolo americano, e voglio che il popolo americano sappia che
e' quel che abbiamo fatto.
*
Prima di tutto, sono profondamente grata ai giornalisti come Matt Lauer e
Keith Olbermann della Msnbc per averti finalmente portato, George, a parlare
delle tue bugie e dei tuoi crimini contro l'umanita'. La tortura e' un
crimine contro l'umanita', e le informazioni ottenute tramite tortura sono
altamente compromesse e comunque non producibili in un tribunale, percio' le
informazioni che hai crudelmente estorto da sospetti "terroristi" sono di
fatto inutili per la protezione dell'America.
In secondo luogo, io non voglio che alcuno dei miei fratelli o delle mie
sorelle in seno all'umanita' venga torturato per "proteggermi". Non voglio
che tu mi usi, George, come americana, per giustificare le tue politiche di
sadismo. Se uno solo dei miei simili esseri umani deve essere torturato per
dare a me un falso senso di sicurezza, allora io non lo voglio. Preferirei
vivere tutta la mia vita sull'orlo dell'angoscia che lasciarti torturare
qualcuno in nome mio, in apparente impunita' e brutale giubilo.
Io non voglio vedere un bambino di piu' macchiato dal sangue, in Iraq ed
Afghanistan, urlare per il massacro della sua famiglia, di modo che noi si
possa "combatterli laggiu'". Perche' abbiamo permesso che tu facessi dei
bambini di questi paesi i nostri nemici? Gli adulti di quei paesi non
riescono neppure a difendere se stessi dalle tue politiche folli, come
abbiamo potuto permetterti di demonizzare bambini iracheni e afgani per far
sentire l'America piu' sicura?
Io non mi sento piu' sicura. Io sento che tu stai uccidendo questi miei
preziosi piccoli per soddisfare la tua avidita' di potere e ricchezze. Io
non voglio piu' vedere bare avvolte dalla bandiera tornare a casa, dal Medio
Oriente, con il corpo senza vita di uno dei nostri figli. Lui o lei non ha
perso la vita per proteggere me, ed io non voglio protezione se questo
significa la morte di una sola delle nostre care speranze, di una sola parte
del futuro del nostro paese.
Tu stai uccidendo i nostri figli affinche' la Coca-Cola possa aprire uno
stabilimento in Afghanistan e affinche' la Esso e l'Halliburton possano
conquistare un livello di ricchezza da far impallidire Re Mida.
Prima dell'orripilante 11 settembre che ha impaurito il nostro paese e
deciso la sorte di decine di migliaia di innocenti in tutto il mondo,
ammazzati dalla tua guerra del terrore agita contro uomini e donne e bambini
inermi, a te non importava un bel nulla della sicurezza dell'America.
Il 6 agosto 2001 ti venne consegnato un rapporto sull'attivita' di
spionaggio mentre te ne stavi in vacanza a Crawford, dal titolo "Bin Laden
determinato a colpirci negli Usa" e secondo Ron Susskind nel suo libro "The
One Percent Solution", tu rispondesti all'agente della Cia che te l'aveva
portato: "Con questo ci siamo coperti il didietro". Poi andasti avanti a
goderti la tua vacanza con giri in bicicletta e partite di golf sotto il
caldo sole texano.
Quindi il peggior attacco terroristico mai sferrato contro la nostra nazione
accadde, ed il giorno dopo tu farfugliasti della "nuova Pearl Harbor" che
gli architetti della tua amministrazione sognavano per implementare la Pax
Americana.
Ti ho chiesto per due anni di dimetterti, dopo che avevi rubato un'altra
elezione, e ti sto ancora chiedendo di dimetterti. Non so quanti dei nostri
figli e quanti dei figli del mondo siano stati uccisi in questi due anni. Tu
sei una disgrazia ed un pericolo per il nostro paese. Tu non hai protetto
ne' me ne' la mia famiglia. In effetti tu hai danneggiato i miei figli e i
miei nipoti, perche' le tue tattiche non hanno funzionato in altro modo che
come reclutamento per al-Qaida di gente che non si era mai sognata di essere
mia nemica prima che le tue politiche ammazzassero le loro famiglie. I miei
nipoti e bisnipoti pagheranno per il buco nero che tu hai creato con le tue
inammissibili occupazioni militari.
Se tu non vuoi dimetterti, allora spero che il Congresso finalmente si
svegli e faccia la cosa giusta incriminando te ed il resto dei bugiardi
della tua amministrazione. Il mondo non puo' aspettare piu' a lungo di avere
giustizia. E se il Congresso non fara' la cosa giusta, allora spero che
siano i miei concittadini, i quali sono stati pure danneggiati dalla tua
guida insensibile ed insensata, ad alzarsi in piedi e a licenziare il
Congresso, rimpiazzandolo con uno nuovo che faccia cio' per cui lo
ingaggiamo: rispettare la Costituzione e proteggere i nostri diritti.
In fede, Cindy Sheehan
Camp Casey Peace Institute, 7440 Lone Star Parkway, Crawford, Texas 76638.
*
P. S.: Nel frattempo, George, sto ancora aspettando una risposta: quale
nobile causa?

4. RIFLESSIONE. ENRICO PEYRETTI: NONVIOLENZA E RIFORMA DI RELIGIONE
[Ringraziamo Enrico Peyretti (per contatti: e.pey at libero.it) per averci
messo a disposizione il testo del suo intervento alla tavola rotonda su
"Nonviolenza e riforma di religione" tenutasi il 10 settembre 2006
nell'ambito del convegno di Pisa nel centenario della nascita del
satyagraha. Enrico Peyretti (1935) e' uno dei principali collaboratori di
questo foglio, ed uno dei maestri della cultura e dell'impegno di pace e di
nonviolenza; ha insegnato nei licei storia e filosofia; ha fondato con
altri, nel 1971, e diretto fino al 2001, il mensile torinese "il foglio",
che esce tuttora regolarmente; e' ricercatore per la pace nel Centro Studi
"Domenico Sereno Regis" di Torino, sede dell'Ipri (Italian Peace Research
Institute); e' membro del comitato scientifico del Centro Interatenei Studi
per la Pace delle Universita' piemontesi, e dell'analogo comitato della
rivista "Quaderni Satyagraha", edita a Pisa in collaborazione col Centro
Interdipartimentale Studi per la Pace; e' membro del Movimento Nonviolento e
del Movimento Internazionale della Riconciliazione; collabora a varie
prestigiose riviste. Tra le sue opere: (a cura di), Al di la' del "non
uccidere", Cens, Liscate 1989; Dall'albero dei giorni, Servitium, Sotto il
Monte 1998; La politica e' pace, Cittadella, Assisi 1998; Per perdere la
guerra, Beppe Grande, Torino 1999; Dov'e' la vittoria?, Il segno dei
Gabrielli, Negarine (Verona) 2005; Esperimenti con la verita'. Saggezza e
politica di Gandhi, Pazzini, Villa Verucchio (Rimini) 2005; e' disponibile
nella rete telematica la sua fondamentale ricerca bibliografica Difesa senza
guerra. Bibliografia storica delle lotte nonarmate e nonviolente, ricerca di
cui una recente edizione a stampa e' in appendice al libro di Jean-Marie
Muller, Il principio nonviolenza, Plus, Pisa 2004 (libro di cui Enrico
Peyretti ha curato la traduzione italiana), e che e stata piu' volte
riproposta anche su questo foglio, da ultimo nei fascicoli 1093-1094; vari
suoi interventi sono anche nei siti: www.cssr-pas.org, www.ilfoglio.info e
alla pagina web http://db.peacelink.org/tools/author.php?l=peyretti Una piu'
ampia bibliografia dei principali scritti di Enrico Peyretti e' nel n. 731
del 15 novembre 2003 di questo notiziario]

1. La nonviolenza ha bisogno di religione
2. La persona nonviolenta ha bisogno di religione
3. La religione ha bisogno di nonviolenza, di riforma nonviolenta
4. La nonviolenza e' una fede?
5. Ma quale tipo di fede? fede fanatica? assolutistica? fondamentalista?
6. Violenza giusta?
7. Ne' azzardo, ne' garanzia
8. La politica e' mista
9. Quasi per conclusione provvisoria
*
1. La nonviolenza ha bisogno di religione
Capitini fa opposizione "religiosa" al fascismo. Gandhi da' un fondamento
"religioso" alla nonviolenza, addirittura - dice - impossibile a chi non
crede in Dio. Martin Luther King, Abdul Ghaffar Khan: tutti questi maestri
hanno una politica ispirata dalla religione. Si tratta, per ciascuno di
loro, di una religione che non e' anzitutto rigida istituzione, tradizione,
dottrina, culto, ma soprattutto spirito, sentire, centro profondo della
persona e luogo di relazione-incontro-unione con gli altri.
Mi aiuta spesso un antico verso riferito da Aulo Gellio, nelle Noctes
Atticae (XX, 4, 9), con il quale credo che si possa interpretare il senso di
"religione" per i maestri della nonviolenza, e per questa nostra
riflessione: "Religentem esse oportet, religiosus nefas": e' cosa nefasta
essere "religioso", cioe' ritenere di rapportarsi, in senso dipendente e
passivo, ad un Originario, quasi che fosse ormai a propria disposizione,
come un oggetto, una cosa; ma bisogna essere "religente", cioe' di quelli
che attivamente sempre di nuovo, in atto, si collegano per qualche via
all'Originario, e cosi' anche collegano, congiungono tutti gli esseri e
tutte le cose (cfr Maria Cristina Bartolomei, Intersezioni tra scrittura e
interpretazione: la Bibbia, Libreria Cuem, Milano 1990, pp. 85-86).
Dunque, una religione quanto mai libera da forme di imposizione e di
violenza spirituale-psicologica-intellettuale, una religione che, sebbene
attraverso questa o quella specifica confessione o credenza, sempre di nuovo
attinge alla scaturigine universale piu' genuina e profonda dello spirito,
la' dove essa si libera e si autentica, e dove trova anche il punto
d'incontro dell'amicizia umana universale: sia in Dio, per chi crede in lui,
sia nel cammino e nella ricerca dell'umanita' di tutti, per ogni essere
umano.
Perche' dico che la nonviolenza "ha bisogno" di religione? Perche' se non
avesse l'inquietudine e l'anelito religioso, che cerca e prefigura piu' e
"altro" dal mondo cosi' com'e', la nonviolenza sarebbe una piccola prudenza,
un meschino schivare il pericolo; sarebbe la nonviolenza dei deboli o dei
vili; sarebbe una tattica possibile come un'altra, con valore strumentale e
funzionale, non la qualita' di vita piu' vera e giusta; non sarebbe il
Principio nonviolenza (titolo del libro di Jean-Marie Muller, Pisa
University Press 2004).
*
2. La persona nonviolenta ha bisogno di religione
La nonviolenza e' un profondo cambiamento di mentalita', alternativa alla
cultura dominante, e sempre da rinnovare. Richiede una riforma interiore
continua, una con-versione (vedi gli atti del convegno di Perugia dell'11
maggio 2002, nel libro curato da Matteo Soccio, Convertirsi alla
nonviolenza?, Il Segno dei Gabrielli, Negarine 2003, pp. 19, 20). Voglio
forse dire che non e' possibile essere nonviolenti senza fede in Dio? (cosi'
Gandhi e Tolstoj; cfr: Soccio p. 2).
Nel senso piu' ampio intendiamo con "religione" qualcosa di molto importante
e profondo per la persona, che da' un senso all'esistenza e ci unisce come
persone; "religione" del riconoscimento universale dell'uguale dignita'
umana, da non violare; "religione" della Verita' (Satyagraha), che per
Gandhi e' Dio, al di la' delle diverse teorizzazioni.
In pratica, il nonviolento ha bisogno di "religione" in questo senso:
"relazione" quotidiana profonda (empatia) col prossimo (anche tra noi, che
non siamo sempre gentili, non sempre disposti a comprendere, non sempre
nonviolenti!). E' possibile che si verifichi anche una violenza
dell'affermazione ideale opposta e imposta alla realta' umana attuale, senza
misericordia (che e' pure un'espressione di nonviolenza). Percio' e'
importante il "potere su di se'", che e' la prima forma del potere
nonviolento; controllare il proprio carattere, non giustificare il proprio
imporsi con il fatto che l'idea e' giusta, perche' nessuna verita' ci
autorizza a sentirci nel giusto e a giudicare gli altri.
A volte, chi osserva i nonviolenti trova che c'e' una "violenza dei
nonviolenti". Riconosciamo uno spazio legittimo all'invettiva per la verita'
contro l'ipocrisia (anche Gesu' inveisce: Matteo 23), ma ci chiediamo: come
dare segno insieme di mitezza e di persuasione forte? Questo e' un problema
del lavoro interiore, spirituale, dei cercatori di nonviolenza.
*
3. La religione ha bisogno di nonviolenza, di riforma nonviolenta
C'e' una violenza delle religioni, sugli spiriti e sui corpi. Senza ridurre
le religioni a violenza, e' pur vero che c'e' un appoggio delle religioni ad
istituzioni violente (alleanza trono-altare, non solo nel cristianesimo).
C'e' una giustificazione e consacrazione religiosa delle violenze. C'e' una
spinta religiosa e una causa religiosa delle violenze, quando le religioni
sono pervase da una pretesa di possesso della verita' e si arrogano il
diritto di imporla e di condannare e persino eliminare chi vedono in errore.
Ci sono nelle religioni e nei libri sacri immagini violente di Dio e del
divino, percio' divinizzazioni della violenza. C'e' una storia violenta del
cristianesimo, opposta alla storia dello spirito evangelico.
Riguardo in particolare al cristianesimo, ho una testimonianza di Ernesto
Balducci. In una lettera del 21 gennaio 1989 (pubblicata su "Il foglio" n.
238, aprile 1997, www.ilfoglio.info), mi scriveva: "Sono convinto,
diversamente da Kueng [ il quale accusa Erasmo, in confronto a Lutero, di
"troppo poco coraggio paolino" e di "fuga"; cfr Hans Kueng, Teologia in
cammino, Mondadori 1987, pp. 21-55, spec. p. 48], che Erasmo, tra Roma e
Lutero, aveva visto giusto: la questione dirimente, che avrebbe portato con
se' anche la riforma della chiesa, era quella della pace. Non e' forse oggi
la vera questione ecumenica?". Questo importante giudizio di Balducci su
Erasmo si ritrova anche nel suo libro L'Altro, Giunti, Firenze 2004, a p.
27.
Il 12 marzo dello stesso 1989, tornando sul tema, a proposito del libro di
Paolo Ricca, Le chiese evangeliche e la pace (Edizioni cultura della pace,
S. Domenico di Fiesole - Firenze - 1989), Balducci mi scriveva: "Io resto
convinto che la vera via della Riforma era quella di Erasmo", e cioe' la via
della pace.
Dunque, la chiesa cristiana occidentale ebbe, col movimento protestante, una
riforma evangelica (e' la fede che salva, non le opere; non la gerarchia e'
misura della verita', ma la Bibbia e lo Spirito), che non fu, salvo
minoranze significative, una conversione delle chiese alla pace e alla
nonviolenza. Si legga Erasmo sulla pace (specialmente il piccolo trattato
sulla guerra e la pace, ancora attuale, Dulce bellum inexpertis, piu' che la
Querela pacis, piu' famosa ma meno significativa) e si vedra' la verita' del
giudizio di Balducci: se le chiese cristiane avessero seguito la via di
Erasmo, la chiesa sarebbe diventata piu' evangelica con Lutero e piu'
pacifica con Erasmo, e forse la modernita' sarebbe stata meno violenta.
Oggi i cristiani hanno scoperto la nonviolenza evangelica per lo stimolo
venuto da maestri non cristiani, come Gandhi, o post-cristiani, come
Capitini. Se le chiese cristiane si convertiranno cordialmente alla
nonviolenza, superando certe remore (Antonino Drago spinge ad esaminare
quali siano queste remore), troveranno il modo piu' evangelico di servire il
mondo con l'amore di Cristo, senza farsi servire.
Abbiamo un compito di critica nonviolenta delle religioni, in particolare di
cristianesimo e islam, per una loro chiara riforma nonviolenta. Capitini ha
dato e avviato un contributo molto significativo.
*
4. La nonviolenza e' una fede?
Non basta alla nonviolenza la ragionevolezza, la saggezza, l'etica umana
universale? Certo, sono qualita' importanti. Ma molti maestri nonviolenti
sono stati sostenuti e animati da una fede. Bonhoeffer diceva addirittura:
"Osare la pace per fede". Cio' vale anche per i "diversamente credenti"
(secondo l'espressione di Gian Enrico Rusconi).
Ma la nonviolenza e' una fede? Su cosa sia la fede (intimo atteggiamento
personale, cosa diversa dalla dottrina di una determinata confessione
religiosa), dice Raimon Panikkar: "La fede e' la costitutiva apertura
dell'uomo verso la trascendenza [e verso la migliore umanita', la Verita'].
E' la consapevolezza di essere in/finito, non/gia'/finito, e dunque di poter
crescere. Ogni uomo e' aperto a questo 'piu''. E' un'apertura esistenziale,
di cui ogni uomo e' capace. L'atto di fede, che salva, e' l'atto con cui
l'uomo si riconosce non/finito, non perfetto. Ogni uomo, poi, cerca di far
cristallizzare questa visione in proposizioni, in formulazioni. Queste sono
le credenze, diverse dalla fede, anche se la fede che non si esprime in
credenze puo' restare vaga, inefficace" (dai miei appunti di una
conversazione dell'ottobre 1992, a St. Jacques, pubblicati col titolo Dopo
il cristianesimo, Cristo, in "Il foglio" n. 195, dicembre 1992). Cio' che
qui Panikkar chiama fede, in altri linguaggi e' denominato come
religiosita', spiritualita': l'atteggiamento interiore e aperto che accomuna
persone di religioni diverse e anche senza religione.
Lo stesso Panikkar parla della pace come del "mito emergente e unificatore
del nostro tempo" (La torre di Babele. Pace e pluralismo, Edizioni cultura
della pace, S. Domenico di Fiesole - Firenze - 1990, pp. 173-174;  ma per un
interrogativo su di cio' vedi Soccio, op. cit., p. 21), dove "mito"
significa "l'orizzonte che rende possibile la definizione", e l'orizzonte e'
cio' che non "prendi" mai e non "perdi" mai. Il mythos non puo' essere
separato dal logos, ne' puo' essere identificato con esso, dice Panikkar.
Percio' un determinato concetto (logos) di pace non puo' essere imposto:
farebbe perdere e ridurre l'orizzonte della pace, che e' concetto
polisemico, comprensivo.
Dunque la pace, e la nonviolenza come la forma piu' positiva e attiva di
pace, puo' essere detta una fede, perche' e' tensione ad una ulteriorita'
verso cui siamo aperti e confidenti; ed e' una religione, perche' unifica
gli umani anche se fanno diversi cammini e hanno diversi concetti di pace,
purche' correlativi e non assoluti, non escludenti; anzi, unifica
incoativamente e amorevolmente anche con chi si pone come "nemico".
*
5. Ma quale tipo di fede? fede fanatica? assolutistica? fondamentalista?
L'idea volgare della nonviolenza e' quella di un'utopia mite, ingenua, ma
anche pericolosa, perche' ispira fanatici assolutisti, in quanto rifiutano
la realta' dura e le responsabilita' che la realta' impone. Anche Bobbio
criticava la nonviolenza assoluta perche' lascerebbe mano libera al
violento.
Giuliano Pontara si impegna a dimostrare che pacifismo e nonviolenza, alla
scuola di Gandhi, non sono assolutisti. Ecco qualche indicazione
bibliografica sul non-assolutismo della nonviolenza gandhiana: Gandhi,
Teoria e pratica della nonviolenza,  Einaudi 1996, pp. 69, 72, 73, 74, 77,
78-116, 103-104, 116; Giuliano Pontara, Se il fine giustifichi i mezzi, Il
Mulino 1974, pp. 44-46. 49. 51-52; idem, Antigone o Creonte. Etica e
politica nell'era atomica, Editori Riuniti, Roma 1990, pp. XII-XIV, 51,
88-90, 96; idem, Guerre, disobbedienza civile, nonviolenza, Edizioni Gruppo
Abele, Torino 1996, pp. 108-116; idem, La personalita' nonviolenta, Edizioni
Gruppo Abele, Torino 1996, pp. 42-48 e specialmente 46-47; Enrico Peyretti,
Esperimenti con la verita'. Saggezza e politica di Gandhi, Pazzini editore,
Villa Verucchio 2005, pp. 31-33.
Proprio in base all'etica della responsabilita' (cioe' degli effetti
dell'atto, e non dei soli principi, o delle intenzioni), Pontara pensa che
non e' possibile, a suo giudizio, sostenere in teoria che la norma che
proibisce la violenza sia una norma ultima e assoluta, ma sostiene "la tesi
per cui e' desiderabile che a livello pratico, di morale positiva, gli
individui interiorizzino una norma che proibisce l'uso della violenza"; e
cio' perche' tale norma pratica di comportamento riduce meglio la violenza
complessiva.
Cioe', non e' assoluta la norma nonviolenta perche', nel caso di un
conflitto tra diversi doveri - a) non uccidere o non infliggere sofferenze a
qualcuno; b) salvare la vita o risparmiare gravi sofferenze a molte
persone - questo secondo dovere prevale sul dovere di non uccidere qualcuno
(norma nonviolenta). Infatti, lasciar uccidere, cioe' omettere l'atto di
salvare la vita, equivale moralmente - osserva Pontara - al commettere
l'atto di uccidere; tra due doveri incompatibili (non uccidere alcuni; non
lasciare che molti siano uccisi), si deve scegliere il male minore; dunque
si puo' avere il dovere di uccidere se cio' comporta meno violenza e
sofferenza (La personalita' nonviolenta, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1996,
pp. 44-47).
Gia' Gandhi afferma che ci sono situazioni tragiche in cui uccidere puo'
essere un dovere. Jean-Marie Muller contesta Gandhi affermando che fare
violenza non puo' mai essere un dovere, ma solo una tragica necessita', in
cui non si ha liberta' di scelta. Forse non c'e' differenza sostanziale: in
quella necessita' si e' obbligati a fare il male minore perche' si ha il
dovere di evitare il male maggiore. Ma Muller ha ragione nel dire che "la
necessita' di uccidere non sopprime affatto il comandamento di non
uccidere", che uccidere non puo' mai diventare un diritto, che "la
necessita' della violenza non sopprime l'esigenza della nonviolenza" (Il
principio nonviolenza, cit., pp. 69, 77, 78, 275). Muller pero' deve
riconoscere che il principio nonviolenza non puo' essere realizzato sempre e
comunque, in modo assoluto, nella realta' stretta. Quindi la norma di non
fare violenza, di non uccidere, permane sempre: un atto concreto puo' andare
contro questa norma quando cosi' facendo impedisce che siano uccisi molti di
piu', e cioe' che la norma sia violata piu' abbondantemente e gravemente.
La nonviolenza ha qualcosa di assoluto, cioe' di "religioso", che fonda e
vincola, ma non e' cieca di fronte alle situazioni difficili e drammatiche:
non dice "fiat justitia, pereat mundus", perche' la giustizia e' che il
mondo non perisca. E questo si realizza sempre solo in qualche misura, non
totalmente, e mentre dobbiamo cercare di realizzarlo nella maggiore misura
possibile, dobbiamo anche accettare che, spesso, in qualche misura non si
puo' realizzare. Se non accettassimo questo limite, abbandoneremmo
l'impresa, accontentandoci di proclamare il principio.
*
6. Violenza giusta?
Qui incontriamo un problema: si potra' obiettare che l'escludere
un'assolutezza teorica della nonviolenza, ristabilisce la teoria della
"guerra giusta" (meglio: giustificata), cioe' della violenza giusta
(insegnata anche dalle religioni compromesse coi poteri violenti). Regge
questa obiezione? Mi pare di no: la nonviolenza non e' principalmente una
teoria che conceda patenti di giustizia alla violenza di necessita'. La
nonviolenza e' verita' e politica, religione e azione; e' attenzione ad un
valore ultimo, massimo, non per contemplarlo o pensarlo, ma per realizzarlo
qui e ora.
Jean-Marie Muller ritiene che Gandhi, nonostante il linguaggio religioso,
piu' che un religioso sarebbe un razionale, un filosofo e  un politico (Il
principio nonviolenza, p. 250), sarebbe piu' uno scienziato del conflitto
che un uomo della trascendenza, piu' un pratico che un contemplativo
("idealista pratico", dice Gandhi di se stesso).
Quindi la nonviolenza cerca la maggior verita' possibile della vita,
riducendo la violenza reale al minimo possibile: la violenza da cui non
riesce a liberarsi non e' qualcosa di giusto, ma e' l'ingiustizia che non
sappiamo ancora superare, nella quale riconosciamo umilmente di essere
ancora impastoiati. La violenza che non riusciamo a superare (p. es.
mangiare, anche un'insalata) non diventa giusta per il fatto che ci e'
necessaria, ma resta ingiustizia, anche se attualmente inevitabile.
Naturalmente, ogni violenza residua e' tanto piu' colpevole quanto meno
cerchiamo, con impegno e immaginazione, i modi per superarla: la guerra puo'
essere superata, percio' non va giustificata.
Ma riconosco che resta il problema, l'obiezione possibile: se una violenza
e' tragicamente necessaria (uccidere chi sta uccidendo, se non c'e' altro
modo di fermarlo), allora e' anche dovere e giustizia?
Riformando nella verita' e nell'amore la pratica della vita, la nonviolenza
riforma le religioni (ogni religione e' un'interpretazione del senso della
vita), cioe' le porta alla loro migliore verita'; non permette che
sacralizzino questa presente realta' limitata, che consacrino di aura
religiosa la realta' cosi' com'e' (esse che hanno consacrato spesso la
guerra omicida come "guerra santa"!).
La nonviolenza non e' una religione fanatica, totalitaria (con pretesa di
sapere tutto, vedere e avere tutto), e, influendo sulle religioni, toglie o
riduce in esse quei fattori di assolutismo e totalitarismo che le rendono
violente.
*
7. Ne' azzardo, ne' garanzia
Un altro problema: la nonviolenza e' una fede provata, dimostrata, certa? Ha
la forza dell'evidenza che si impone (dato che evidente e' la necessita' di
eliminare la grande violenza per sopravvivere)? Essa e' fondata, anche su
esperienze storiche e su esigenze vitali, logiche, politiche, ma non sulla
certezza di fatti acquisiti, o sulla dimostrazione scientifica della sua
realizzabilita', bensi' nell'esigenza umana essenziale di non distruggere
cio' che siamo. Come ogni fede non e' un puro azzardo, senza ragione e
fondamento, ma neppure e' un obiettivo garantito. Comporta una fiducia, un
"affidamento", un "far credito", che e' il "credere", e non lo stringere in
pugno una certezza.
Ha una forza di verita', ma ha anche la debolezza della ricerca di cio' che
ci manca. La nonviolenza non deve essere fideistica, mitica, ma critica:
cioe' consapevole della sua in-certezza, delle resistenze presenti nella
realta' storica come nelle persone dei nonviolenti, della gradualita',
imperfezione, parzialita' e quindi delle contraddizioni inevitabili dei suoi
passi nella storia.
Vediamo, p. es., la previsione parziale di Gandhi di voler fare a meno
dell'esercito, ma di non poter fare a meno della polizia. Pur nella
differenza tra forza della polizia e violenza della guerra, Gandhi
riconosce la "imperfezione" di questa sua visione e non riesce a superarla.
*
8. La politica e' mista
Il movimento ampio per la pace ha incontrato questi problemi. Ci siamo anche
divisi tra noi nelle valutazioni concrete, recentemente, riguardo alle
spedizioni militari italiane di guerra, sul come e quando diminuirle o
ritirarle, dati gli equilibri politici italiani difficili, e sul se e come
partecipare alla missione Onu in Libano, presentata sperabilmente come di
polizia internazionale, di interposizione, sostitutiva dell'unilateralismo
bellico statunitense (che ha imperato dal 2001), mentre altri la vedono
invece come funzionale a questa politica bellicosa.
E' molto dubbio che il personale e le strutture militari siano preparati e
adeguati a stabilire la pace; pero', oggi, nonostante il generoso
volontariato, mancano strutture sufficienti, preparate e sostenute per
interventi di pace non armati e nonviolenti.
La politica e' sempre mista, mai allo stato puro, quasi mai e' una scelta
tra bene e male, quasi sempre solo tra approssimazioni incerte all'uno o
all'altro. Chi non considera questo fatto, giudica tradimento morale
l'accettare questa incertezza, e la dura lentezza del piano politico, che
pero' e' necessario per introdurre il valore nella realta'.
Mi spiego con un brano di un'altra lettera a me di Balducci, del 6 novembre
1988 (pubblicata come l'altra suindicata). Il 20 ottobre precedente aveva
avuto un dibattito in tv col generale Carlo Jean, vinto da Balducci. Gli
scrissi chiedendogli perche' non aveva parlato della difesa popolare
nonviolenta. Mi rispondeva, tra l'altro: "Io ritengo che sia venuto il tempo
dell'abbandono delle armi, ma a tale scopo mancano ancora le condizioni
soggettive della comunita' civile di cui faccio parte. Come fare a far
maturare l'opportuna coscienza comune? Accettando, come vogliono le regole
della dialettica, le posizioni contrarie per dimostrare che esse sono
contraddittorie e che dalla contraddizione non si esce se non adottando la
posizione di chi tira tutte le conseguenze dalla novita' dell'era atomica.
Mi basta che nel grande pubblico il mio discorso abbia fatto breccia".
Se, per raggiungere un obiettivo necessario, e' necessario attendere che
maturino le "condizioni soggettive della comunita' civile" e la "coscienza
comune", altrettanto e' necessario mantenere le condizioni politiche meno
peggiori, anche se al momento non raggiungono la capacita' di decidere bene
su guerra e pace, mentre l'alternativa politica che si minacciava (se sul
voto sull'Afghanistan fosse caduto il governo) avrebbe certamente deciso in
modo ben peggiore. Con un paragone alpinistico, direi: non lasciare un
appiglio nella roccia, seppure precario (un centro-sinistra
insoddisfacente), se non ne hai un altro migliore (una maggioranza
pacifista), ma rischi (fuor di metafora) una nuova deriva a quella destra
che abbiamo conosciuto.
*
9. Quasi per conclusione provvisoria
La nonviolenza abbia profondita' di impegno (personale e collettivo, di
pensiero e di azione) e obiettivi di alto valore, "come" una religione:
dedizione e azione radicata nell'interiorita' dello spirito, che da' senso
al vivere, faticare, morire, verso risultati non tutti a noi visibili.
La nonviolenza sia un ramo di quella "vera religione" che Gandhi  vede
trascendere e unire tutte le religioni storiche, positive, e tutta la
ricerca umana di verita' (Enrico Peyretti, Esperimenti  con la verita',
cit., p. 79); o anche di quella "vera religione" che, nella Bibbia tutta,
dai profeti fino al Nuovo Testamento (basti indicare Isaia 58; Matteo 15,
1-9; Marco 12, 33; Giacomo 1, 27), e' la vita giusta, in soccorso attivo al
prossimo bisognoso, al contrario del solo culto formalista e  ipocrita, o di
uno spiritualismo disincarnato.
La religione "vera", non come superiore giudizio di falsita' sulle altre
(per Arturo Paoli cio' sarebbe una "dichiarazione di guerra"), ma come
religione non esclusiva, ma intera, inclusiva, aperta (Gandhi) e religione
operante nell'amore (Bibbia).
Senza pensare, ovviamente, di assorbire o soppiantare le religioni storiche,
la tradizione nonviolenta le puo' fecondare (come sta facendo), riducendo i
loro fattori di violenza teologica e morale, e badando di non farsi
contaminare dai loro fattori di assolutismo. La nonviolenza e' religione sui
generis in quanto fiducia in un bene, possibile, presente in seme, da
coltivare e sviluppare; ha da essere esempio alle religioni di fede non
fanatica, di amore del valore nel corpo della realta' storica contingente,
senza evasioni.
La nonviolenza (come ogni religione) ha qualcosa di assoluto e qualcosa di
relativo: se stiamo nell'assoluto ci sembra di avere piena ragione, di
essere in piena luce di verita', e se stiamo nel relativo ci sembra di
perdere qualcosa. Ma e' davvero cosi'? Nel relativo si attua parzialmente -
facciamo si' che cio' significhi progressivamente! - la ragione possibile.
Nell'assoluto si rischia di sacrificare il reale all'ideale, l'uomo al
sabato, lo spirito alla lettera, l'errante alla legge, la parte al tutto, il
concreto all'astratto, la pazienza del cammino alla precipitazione violenta
dall'arrivo forzato.
La nonviolenza e' storicita', e' verita' nella storia, e' "varco della
storia" (Capitini) verso la sua liberazione e autenticita'.
La nonviolenza e' una passione calda e una ragione fredda; e' persuasione e
amore, ed e' anche ricerca, opinione e dubbio; e' una strada giusta, non
senza inciampi ritardi ed errori; e' una fede, con la quale criticare il
mondo, ma una fede critica, che si lascia criticare dai fatti e dalla
storia; cerca la fecondita' lunga nel tempo piu' dell'efficacia immediata,
ma non rinuncia a cercare pronta doverosa efficacia di fronte a offese e
dolori patiti dall'umanita' violentata. La nonviolenza non puo' essere
semplificata, ridotta ad uno solo di questi suoi lati, senza venire
impoverita e tradita. La nonviolenza e' gioiosa coscienza di spendere la
vita per verita' e giustizia, ed e' anche, spesso, lavoro faticoso e oscuro
nelle radici della nostra umanita' personale e, in infinitesima ma reale
misura da parte di ciascuno, nelle radici della umanita' universale e del
suo futuro buono.

5. LETTURE. RITA BORSELLINO: NATA IL 19 LUGLIO
Rita Borsellino, Nata il 19 luglio, Melampo, Milano 2006, pp. 120, euro 10.
In questo prezioso libriccino a cura di Livio Colombo Rita Borsellino,
sorella di Paolo e figura generosa e autorevole dell'impegno antimafia,
racconta le sue esperienze e riflessioni; un'appassionata ed insieme sobria
e gentile testimonianza di una persona che lotta senza odio per la verita' e
la giustizia, contro la violenza, per l'umanita'.

6. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.

7. PER SAPERNE DI PIU'
* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per
contatti: azionenonviolenta at sis.it
* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia:
www.peacelink.it/users/mir; per contatti: mir at peacelink.it,
luciano.benini at tin.it, sudest at iol.it, paolocand at libero.it
* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per
contatti: info at peacelink.it

LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 1419 del 15 settembre 2006

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