La nonviolenza e' in cammino. 1336



LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 1336 del 24 giugno 2006

Sommario di questo numero:
1. No
2. "Fuori le atomiche dall'Italia e dalla storia"
3. Barbara Spinelli: L'Europa nel Manifesto di Ventotene
4. Ida Dominijanni presenta "La vita e le regole" di Stefano Rodota'
5. La "Carta" del Movimento Nonviolento
6. Per saperne di piu'

1. EDITORIALE. NO

Un vecchio affiliato alla P2 tuttora in carriera, i capimanipolo di un
movimento razzista, gli eredi del partito neofascista, pretendono il nostro
consenso alla demolizione della Costituzione della Repubblica Italiana.
No.
*
Pretendono la nostra acquiescenza all'autoritarismo plebiscitario,
all'antiparlamentarismo totalitario, alla disgregazione territoriale e
sociale, alla barbarie della sopraffazione e dell'esclusione, dell'egoismo e
dell'irresponsabilita', all'anomia.
No.
*
Pretendono la nostra complicita' con il colpo di stato.
No.

2. APPELLI. "FUORI LE ATOMICHE DALL'ITALIA E DALLA STORIA"
[Da varie persone amiche riceviamo e volentieri diffondiamo il seguente
appello. Per adesioni, informazioni e contatti: www.vialebombe.org]

Fuori le atomiche dall'Italia, fuori le atomiche dalla storia.
Il prossimo 7 luglio si terra' a Pordenone la prima udienza dell'azione
civile intentata da cinque pacifisti contro il governo Usa, con la richiesta
di rimozione delle 50 atomiche presenti nella base Usaf di Aviano. E' una
causa storica: per la prima volta un giudice viene chiamato a decidere sulla
legittimita' della presenza di atomiche sul territorio italiano.
Noi riteniamo che quelle atomiche costituiscano una flagrante violazione del
Trattato di non proliferazione (Npt), che la loro presenza non abbia
alcunche' di deterrente o difensivo, che siano pericolose ed immorali, che
compromettano pesantemente la convivenza pacifica tra i popoli.
Mantenere li' quelle atomiche e' anche un vero e proprio tradimento: si
preferisce accodarsi alla volonta' di un governo straniero piuttosto che
rispettare la volonta' dei propri cittadini.
Scriveva Guenther Anders, quasi cinquant'anni fa, a proposito della pretesa
di politici e militari a decidere nel campo dei problemi atomici senza
coinvolgere la popolazione, invitata a non immischiarsi: "Se la parola
'democrazia' ha un senso, e' proprio quello che abbiamo il diritto e il
dovere di partecipare alle decisioni che concernono la 'res publica', che
vanno, cioe', al di la' della nostra competenza professionale e non ci
riguardano come professionisti, ma come cittadini o come uomini. E non si
puo' dire che cosi' facendo ci 'immischiamo' di nulla, poiche' come
cittadini e come uomini siamo 'immischiati' da sempre, perche' anche noi
siamo la 'res publica'. E un problema piu' 'pubblico' dell'attuale decisione
sulla nostra sopravvivenza non c'e' mai stato e non ci sara' mai".
Ecco, noi abbiamo deciso di immischiarci: la questione nucleare e' troppo
importante per lasciarla in mano ai generali.
Per questo abbiamo costituito, in appoggio a questa azione legale, il
Comitato "Via le bombe" e chiediamo a tutti di aderirvi. Il comitato
interverra' nella causa a nome di tutti i suoi aderenti e quanti piu'
saremo, tanto maggiore sara' l'impatto di questa azione legale: immaginate
quale effetto dirompente potrebbero avere centinaia, migliaia, e - perche'
no - milioni di persone che chiedono il rispetto della legalita'
internazionale, che esigono di essere trattati come cittadini e non come
ostaggio o bersaglio delle partite a risiko planetario tra i signori della
guerra.
Cosi' come, quattro anni fa, pochi ragazzi si misero in testa di far
sventolare la bandiera della pace da ogni balcone e nel giro di qualche mese
pochi fiocchi divennero valanga, cosi' anche oggi tanti piccoli gesti,
ciascuno il segno di un impegno personale e collettivo, possono innescare
una reazione a catena di proporzioni inimmaginabili.
Tocca a noi scegliere, cos'e' che vogliamo veder deflagrare: un'esplosione
di pace o gli arsenali nucleari.
*
La sottoscrizione dell'appello puo' essere inviata a:
adesioni at vialebombe.org
L'adesione al Comitato e altre informazioni nel sito: www.vialebombe.org

3. RIFLESSIONE. BARBARA SPINELLI: L'EUROPA NEL MANIFESTO DI VENTOTENE
[Dal quotidiano "La stampa" del 21 maggio 2006.
Barbara Spinelli e' una prestigiosa giornalista e saggista; tra le sue opere
segnaliamo particolarmente Il sonno della memoria, Mondadori, Milano 2001,
2004; una selezione di suoi articoli e' in una sezione personale del sito
del quotidiano (www.lastampa.it).
Su Eugenio Colorni dal sito www.serendip.it riprendiamo la seguente scheda
biobibliografica a cura di Luca Baranelli: "Eugenio Colorni nasce a Milano
il 22 aprile 1909 da genitori ebrei. Il padre Alberto e' un imprenditore
commerciale di origine mantovana, la madre Clara Pontecorvo e' di famiglia
pisana (il fisico nucleare Bruno e il regista cinematografico Gillo sono
figli di un suo fratello). Nella formazione di adolescente di Eugenio - come
racconta egli stesso nella Malattia filosofica - conta molto il rapporto con
i cugini Enrico, Enzo ed Emilio Sereni, tutti maggiori di lui. Enzo in
particolare, socialista e sionista convinto, esercita una forte influenza
ideale e religiosa, tanto che a quattordici anni Eugenio si avvicina per
breve tempo al sionismo. Durante il liceo - frequenta il Manzoni di Milano -
si appassiona al Breviario di estetica di Benedetto Croce. Nel 1926 si
iscrive alla facolta' milanese di Lettere e filosofia: i suoi insegnanti
prediletti sono Giuseppe Antonio Borgese e Piero Martinetti, col quale si
laurea in filosofia nel 1930 discutendo una tesi su Sviluppo e significato
dell'individualismo leibniziano (a Leibniz dedichera' in seguito la maggior
parte dei suoi studi). Risale agli anni universitari l'amicizia con Guido
Piovene, poi giornalista e scrittore, che s'interrompera' bruscamente nel
1931 a causa di alcuni articoli antisemiti pubblicati da Piovene su
'L'Ambrosiano'. In quel periodo partecipa all'attivita' dei Gruppi
goliardici per la liberta' di Lelio Basso e Rodolfo Morandi. Nel 1928, con
lo pseudonimo di G. Rosenberg pubblica su 'Pietre', la rivista di Basso, un
articolo sull'estetica di Roberto Ardigo'. Nel 1930 si accosta al gruppo
milanese di Giustizia e Liberta'; collabora in seguito col nucleo giellista
torinese, che fa capo prima a Leone Ginzburg e poi a Vittorio Foa. Nel 1931
compie un viaggio di studi a Berlino: oltre a incontrare Benedetto Croce e
discutere con lui, conosce la giovane ebrea berlinese Ursula Hirschmann, che
sposera' nel 1935 e dalla quale avra' tre figlie (Silvia, Renata, Eva). Dal
1931 comincia a scrivere recensioni e articoli per 'Il Convegno', 'La
Cultura', 'Civilta' moderna', 'Solaria' e la 'Rivista di filosofia' di
Martinetti. Nel 1932 pubblica L'estetica di Benedetto Croce. Studio critico
(Societa' editrice 'La Cultura', Milano). Nel 1932-'33 e' lettore d'italiano
all'Universita' di Marburgo; con l'avvento del nazismo torna in Italia. nel
1933, conclusa la tesi di perfezionamento su La filosofia giovanile di
Leibniz, vince il concorso per l'insegnamento di storia e filosofia nei
licei; dopo una prima assegnazione al liceo Grattoni di Voghera, nel 1934
ottiene la cattedra di filosofia e pedagogia all'istituto magistrale
Carducci di Trieste; qui conosce e frequenta, fra gli altri, Umberto Saba
(ritratto poi in Un poeta), Pier Antonio Quarantotti Gambini, Bruno
Pincherle e Eugenio Curiel. Nel 1934, nella collana scolastica che Giovanni
Gentile dirige per Sansoni, pubblica una traduzione della Monodologia di
Leibniz, preceduta da una lunga introduzione: Esposizione antologica del
sistema leibniziano. Come scrive Eugenio Garin, 'Leibniz lo costringe ad
affrontare studi di logica e di matematica, a rimettere in discussione il
modo stesso di concepire la scienza, e i rapporti fra scienza e filosofia...
Riparti' da Kant e dalla problematica kantiana, e medito' sulle conseguenze
che la fisica teorica e la psicanalisi potevano avere per la dissoluzione di
impostazioni filosofiche tradizionali'. Quando, come si legge in Un poeta,
Umberto Saba gli domandera' 'perche' fa filosofia?', Colorni conclude: 'Da
quel giorno, io non faccio piu' filosofia'. 'In realta' non era la filosofia
che rifiutava, ma un orientamento legato a quell'idealismo di cui erano
seguaci... Croce come Gentile e Martinetti' (Garin). Intensifica intanto
l'impegno politico e l'attivita' antifascista. Quando gli arresti del maggio
1935 annientano il gruppo torinese di Giustizia e Liberta', prende contatto
con il Centro interno socialista creato a Milano nell'estate del 1934 da
Rodolfo Morandi, Lelio Basso, Lucio Luzzato, Bruno Maffi e altri.
Nell'aprile del 1937, dopo gli arresti di Luzzato e Morandi, Colorni
diventera' uno dei principali dirigenti del Centro. Nell'estate del 1937, in
occasione del IX Congresso internazionale di filosofia, incontra a Parigi
Carlo Rosselli, Angelo Tasca, Pietro Nenni e altri esponenti della direzione
del Psi. Con vari pseudonimi, ma soprattutto con quello di Agostini, nel
1936-'37 pubblica importanti articoli su 'Politica socialista' e sul 'Nuovo
Avanti'. L'8 settembre 1938, all'inizio della campagna razziale, e'
arrestato a Trieste come ebreo e antifascista militante: in ottobre vengono
pubblicati contro di lui, sul 'Piccolo' di Trieste e sul 'Corriere della
Sera', alcuni articoli di particolare livore antisemita. Dopo qualche mese
di carcere a Varese, viene condannato a cinque anni di confino. Dal gennaio
1939 all'ottobre 1941 e' nell'isola di Ventotene, dove prosegue i suoi studi
filosofico-scientifici e discute intensamente con gli amici confinati,
Ernesto Rossi, Manlio Rossi Doria e Altiero Spinelli: un'eco fedele di
quelle discussioni si ritrova nei sette Dialoghi di Commodo, scritti in
collaborazione con Spinelli e pubblicati postumi. E' di questo periodo la
sua adesione alle idee federaliste, elaborate soprattutto da Spinelli e
Rossi (nel 1944, con una sua prefazione, Colorni pubblichera' a Roma il
Manifesto di Ventotene, redatto da Rossi e Spinelli nel 1941). Nell'ottobre
del 1941, grazie anche all'intervento di Giovanni Gentile, ottiene di essere
trasferito a Melfi, in provincia di Potenza. Nel 1942, insieme con Ludovico
Geymonat, elabora il progetto di una rivista di metodologia scientifica. Il
6 maggio 1943 riesce a fuggire a Roma ed entra in clandestinita'. Si dedica
all'organizzazione del Psiup, nato dalla fusione del Psi col gruppo
giovanile del Movimento di unita' proletaria. Il 27-28 agosto partecipa a
Milano, in casa di Mario Alberto Rollier, alla riunione che da' vita al
Movimento federalista europeo. Dopo l'8 settembre svolge a Roma
un'intensissima attivita' nella Resistenza: fa parte della direzione del
Psiup, e' redattore capo dell''Avanti!' clandestino, s'impegna a fondo nella
ricostruzione della Federazione giovanile socialista e nella creazione della
prima brigata partigiana Matteotti. Il 28 maggio 1944, pochi giorni prima
della liberazione di Roma, viene fermato in via Livorno da una pattuglia di
militi fascisti della banda Koch: tenta di fuggire, ma e' inseguito in un
androne e ferito gravemente da tre colpi di pistola. Trasportato
all'Ospedale San Giovanni, muore il 30 maggio sotto la falsa identita' di
Franco Tanzi. Opere di Eugenio Colorni: Scritti, a cura di Norberto Bobbio,
la Nuova Italia, Firenze 1975; Il coraggio dell'innocenza, a cura di Luca
Meldolesi, La Citta' del Sole (Istituto Italiano per gli Studi Filosofici),
Napoli 1998 (contiene altri scritti di Colorni); Un poeta e altri racconti,
con prefazione di Claudio Magris, Il Melangolo, Genova 2002. Opere su
Eugenio Colorni: Elvira Gencarelli, Profilo politico di Eugenio Colorni,
'Mondo Operaio', n. 7, luglio 1974, pp. 49-54; Elvira Gencarelli, Eugenio
Colorni, voce in Il Movimento Operaio Italiano. Dizionario Biografico,
Editori Riuniti, Roma 1976, vol. II, pp. 74-81; Leo Solari, Eugenio Colorni.
Ieri e sempre, Marsilio, Venezia 1980 (oltre a un lungo saggio introduttivo,
contiene scritti di Colorni anche di carattere politico); Norberto Bobbio,
Maestri e compagni, Passigli, Firenze 1984; Massimo Orlandi, Il socialismo
federalista di Eugenio Colorni, tesi di laurea (inedita), Universita' degli
studi di Firenze, Scienze Politiche, anno accademico 1991-1992, relatore
prof. Gaetano Arfe'; Gaetano Arfe', Eugenio Colorni, l'antifascista,
l'europeista, in aa. vv., Matteotti, Buozzi, Colorni. Perche' vissero,
perche' vivono, Franco Angeli, Milano 1996, pp. 58-77; Sandro Gerbi Tempi di
malafede. Una storia italiana tra fascismo e dopoguerra. Guido Piovene ed
Eugenio Colorni, Einaudi, Torino 1999; Geri Cerchiai, L'itinerario
filosofico di Eugenio Colorni, in 'Rivista di storia della filosofia', n. 3,
2002".
Ernesto Rossi, nato nel 1897 e scomparso nel 1967, antifascista, federalista
europeo, pubblicista di straordinario impegno civile. Opere di Ernesto
Rossi: cfr. almeno Elogio della galera, Laterza, Bari (raccolta delle
lettere dal carcere fascista); Settimo: non rubare; Lo Stato industriale; Il
malgoverno; I padroni del vapore; Aria fritta; Il Sillabo; Il manganello e
l'aspersorio; Elettricita' senza baroni; le sue veementi Pagine
anticlericali sono state recentemente ristampate da Massari Editore,
Bolsena. Opere su Ernesto Rossi: Giuseppe Fiori, Una storia italiana,
Einaudi, Torino. Dal sito www.societaperta.it riprendiamo la seguente scheda
biobibliografica su Ernesto Rossi a cura di Gaetano Pecora: "Ernesto Rossi
nacque a Caserta nel 1897. Non ancora diciannovenne ando' volontario in
guerra. Di ritorno dal fronte, l'ostilita' per i socialisti che s'erano
fatti un punto d'onore a vilipendere i sacrifici dei reduci di guerra e il
disprezzo per una classe politica chiusa ad ogni respiro ideale e come
ripiegata su se stessa, l'una e l'altra cosa insieme vellicarono gli istinti
antiparlamentari e condussero Ernesto Rossi ad accarezzare le stesse
speranze ed i medesimi obiettivi dei nazionalisti prima e dei fascisti poi.
Fu in quel giro di tempo, dal 1919 al 1922, che Rossi prese a collaborare al
"Popolo d'Italia", il quotidiano diretto da Mussolini. Ma fu precisamente in
quel periodo che egli conobbe Gaetano Salvemini. A Salvemini, Ernesto Rossi
si lego' fin da subito e il vincolo dell'amicizia, oltre che
dall'ammirazione e dall'affetto, venne ben presto cementato dalla piena
intesa intellettuale. 'Se non avessi incontrato sulla mia strada - ebbe a
scrivere Ernesto Rossi - al momento giusto Salvemini, che mi ripuli' il
cervello da tutti i sottoprodotti della passione suscitata dalla bestialita'
dei socialisti e dalla menzogna della propaganda governativa, sarei
facilmente sdrucciolato anch'io nei Fasci di combattimento'. Dopo di allora,
il suo percorso non conobbe sviamenti ne' fu punteggiato dal dubbio. Una
certezza vibro' sempre affermativa nelle sue opere, e tutto - l'intrepida
moralita', la causticita' sibilante, l'astuzia affilata - tutto, proprio
tutto, venne posto al servizio di questa certezza, che poi era la certezza
di dover difendere comunque e ad ogni costo le ragioni della liberta'. Di
qui l'implacabile determinazione con la quale avverso' il regime fascista.
Quale dirigente, insieme con Riccardo Bauer, dell'organizzazione interna di
'Giustizia e Liberta'', pago' la sua intransigenza con una condanna del
Tribunale speciale a venti anni di carcere, di cui nove furono scontati
nelle patrie galere e quattro al confino di Ventotene. Qui, con Altiero
Spinelli ed Eugenio Colorni maturo' piu' compiutamente quelle idee
federalistiche che nel 1941 dovevano ricevere il loro suggello nel celebre
Manifesto di Ventotene. All'indomani della Liberazione, in rappresentanza
del Partito d'Azione, fu sottosegretario alla Ricostruzione nel Governo
Parri e presidente dell'Arar (Azienda Rilievo Alienazione Residuati) fino al
1958. Dopo lo scioglimento del Partito d'Azione aderi' al Partito Radicale
di Pannunzio e Villabruna di cui pero', sentendosi come 'un cane in chiesa'
(sono parole sue), rifiuto' ogni incarico direttivo preferendo dedicarsi
alla scrittura di libri e al giornalismo d'inchiesta sul 'Mondo'. La
collaborazione al 'Mondo', iniziata sotto i migliori auspici nel 1949
(quando Mario Pannunzio, proprio lui, il direttore dalla vigilanza occhiuta
e minuziosa, gli promise che i suoi articoli li avrebbe letti 'solo dopo
pubblicati'), la collaborazione al 'Mondo', dicevamo, iniziata nel 1949,
continuo' ininterrotta per tredici anni, fino al 1962. Fu la stagione d'oro
di Ernesto Rossi, durante la quale egli pote' assecondare il genio profondo
che lo agitava dentro, quello che lo traeva a tirare per il bavero anche le
barbe piu' venerande, denunciandone le malefatte, irridendone le asinerie,
sbugiardandone le falsita'. I suoi articoli migliori Ernesto Rossi li
raccolse in volumi dai titoli famosissimi, cosi' famosi da diventare
patrimonio della lingua comune. Due per tutti: I padroni del vapore (Bari,
1956) e Aria fritta (Bari, 1955). Dal 1962 in avanti svolse la sua attivita'
di pubblicista su 'L'Astrolabio' di Ferruccio Parri. Nel 1966, quando la
strada della sua vita andava ormai discendendo, gli fu conferito il premio
'Francesco Saverio Nitti', che molto lo conforto' e, in parte, lo ripago' di
un'esistenza scontrosa che gli era stata assai avara di riconoscimenti
accademici. L'anno successivo, il 9 febbraio del 1967, Ernesto Rossi moriva
a Roma. Aveva sessantanove anni. Pochi mesi prima, in una lettera a Riccardo
Bauer, aveva scritto parole presaghe che vibrano di un'accensione poetica:
'se ci domandiamo a cosa approdano tutti i nostri sforzi e tutte le nostre
angosce non sappiamo trovare altre risposte fuori di quelle che dava
Leopardi: si gira su noi stessi come trottole, finche' il moto si rallenta,
le passioni si spengono e il meccanismo si rompe'. E poi: 'Io non ho mai
avuto paura della morte. Mi e' sempre sembrata una funzione naturale,
inspiegabile com'e' inspiegabile tutto quello che vediamo in questo porco
mondo. Crepare un po' prima o un po' dopo non ha grande importanza: si
tratta di anticipi di infinitesimi, in confronto all'eternita', che non
riusciamo neppure ad immaginare. Ma ho sempre avuto timore della cattiva
morte'. Sia consentito aggiungere che se la 'cattiva morte' e' di chi non ha
saputo vivere della tranquillita' della propria coscienza, e' assolutamente
da escludere che la morte possa essere stata 'cattiva' con Ernesto Rossi. Il
pensiero: in una lettera indirizzata ad Ernesto Rossi, Gaetano Salvemini
scriveva cosi': 'se avessi potuto fabbricarmi un figlio su misura, me lo
sarei fabbricato pari pari come te'. E perche' la piena dei sentimenti non
lo travolgesse, subito stemperava il suo affetto in una increspatura
lievemente canzonatoria: 'ma anche quel figlio - aggiungeva - sarebbe andato
a male come te e come me'. E' vero: per molti aspetti chi dice Rossi dice
Salvemini. La chiarezza e la logica che informa i suoi scritti e' la stessa:
stringente, incalzante, che nulla concede alla magniloquenza della retorica
e che mai si impantana in guazzabugli incomprensibili. Cosi' come da
Salvemini derivo' la stessa passione per la giustizia, e identico fu
l'istinto di liberta'. Sorgenti morali, queste, limpidissime che con gli
anni trassero Ernesto Rossi a riconoscersi nel medesimo liberalismo del
Salvemini maturo; un liberalismo fermentato da aspirazioni egualitarie, le
cui ascendenze empiriche lo trattennero dall'involarsi nei cieli delle
astrazioni. Non il Progresso, la Rivoluzione o il Popolo lo interessava, ma
lo studio dei problemi concreti specie se questi problemi gli rivelavano
l'esistenza di soprusi a danno degli umili. Degli umili in carne ed ossa,
con tanto di nome e di cognome. E' allora che Ernesto Rossi dava il meglio
di se': puntuali e documentate fino alla pignoleria, le sue denunzie
inchiodavano i responsabili alle loro colpe. Il tutto senza indulgere al
melodramma e tenendosi discosto dalle pose accigliate e un po' ferali dei
predicatori di quaresima. Tali requisitorie, infatti, venivano percorse e
come illeggiadrite da una vena sbarazzina che incanta per la sua freschezza;
era tale lo sfavillio delle arguzie, tanta la felicita' della battuta e
dello sberleffo che le stesse vittime ne riuscivano sedotte e quasi forzate
a ridere delle loro bestialita'. Riderne di un riso verde, si capisce. E si
capisce altresi' perche' un simile liberalismo subisse l'ingiuria dell'oblio
dopo la scomparsa del suo artefice. Nessuno era interessato a riscoprirlo
perche' nessuno, proprio nessuno, venne risparmiato dalla sue bordate
polemiche. Ripercorrerne a cento anni dalla nascita la vicenda umana e
politica puo' dunque impedire che l'ombra avvolga definitivamente questa
figura fuori dall'ordinario, risoluta e indipendente fino alla
spregiudicatezza e soprattutto poco disposta a patteggiare con gli altri
perche' poco incline a transigere con se stessa. Il che, alla saggezza
filistea dei suoi compatrioti e alla soffice indolenza dei loro dirigenti
dovette apparire una novita' oltremodo strana e sgradevole. Di qui la
solitudine che l'accompagno' per tutta la vita. Si', Ernesto Rossi fu un
uomo solo; solo ma libero. Un uomo che della propria liberta' non ebbe paura
e che se ne avvalse per lanciare i suoi strali nelle piu' diverse direzioni.
In direzione del cattolicesimo, di cui respingeva l'ideale di una societa'
controllata e ubbidiente e al quale imputava l'allentamento della fibra
morale degli italiani. In direzione del comunismo, che egli aborriva per il
suo programma economico e al quale rimproverava la stessa religione dei
cattolici, sia pure nella versione secolarizzata del marxismo-leninismo. E
neppure ai liberali e ai socialisti lesinava i suoi puntuti giudizi. Dei
liberali - dei "liberaloni con la tuba" come li chiamava - denunziava i
sofismi con i quali essi tradivano i principi della liberta' (anche di
quella economica) e accreditavano come collettivi quelli che invece erano
sordidi interessi di gruppo. Dei socialisti - di questi 'comunisti mal
riusciti' come ebbe a battezzarli - sottolineava causticamente il
comportamento pendolare, sempre combattuto tra l'alternativa: o ci fate
ministri o diventiamo rivoluzionari. Se e' vero percio' che Ernesto Rossi
distribuiva le sue bastonate a destra e a manca, contro il coriaceo
antiliberalismo dei cattolici e dei comunisti e contro quello piu' subdolo
ma non meno pervicace degli imprenditori e dei sindacati, se e' vero tutto
questo, si capisce bene perche' fino ad ieri nessuna associazione, nessun
organismo politico fosse interessato al suo lascito intellettuale. Oggi
pero' che le cose sono cambiate e che le idealita' liberali paiono riuscire
meno estranee all'orientamento degli spiriti, e' lecito attendersi una
maggiore attenzione per un pensiero che non e' invecchiato. Purche',
beninteso, questo pensiero venga conosciuto. Donde la necessita' di
ripubblicare gli scritti di Ernesto Rossi; e bene ha fatto una
intraprendente casa editrice romana (Il Mondo 3 Edizioni) a ristampare
l'Elogio della galera, la raccolta delle lettere che Rossi scrisse dal
carcere negli anni che vanno dal 1930 al 1943. Ed ha fatto bene intanto
perche' l'Elogio della galera e' un commovente, straordinario epistolario la
cui lettura potrebbe segnare per sempre i giovani e i giovanissimi; in ogni
caso i migliori fra loro. E poi perche' proprio qui si trovano scolpiti come
con caratteri indelebili tutti i principi politici e tutti i convincimenti
economici che in seguito, all'indomani della scarcerazione, avrebbero
guidato l'attivita' di Ernesto Rossi. Ecco: proporsi obiettivi concreti
legati al suo nome e non avvolgerne la memoria nel sudario di auliche
declamazioni. E' quanto non sarebbe dispiaciuto ad Ernesto Rossi. Un po' di
bibliografia: a' parte l'Elogio della galera di cui si e' gia' detto, tra le
opere di Ernesto Rossi ancora disponibili in libreria ricordiamo: Pagine
anticlericali, (Edizioni Erre Emme, 1996); Abolire la miseria (Laterza,
Roma-Bari 1977). Per il resto, bisogna che il lettore si armi di buona
pazienza e vada in biblioteca. E' solo li', infatti, che potra' consultare
gli altri scritti di Rossi. Tra quelli di maggiore spessore teorico citiamo:
Critica delle costituzioni economiche (Comunita', Milano 1965); Il
manganello e l'aspersorio (Laterza, Bari 1968); Ernesto Rossi. Un
democratico ribelle, Scritti e testimonianze di Ernesto Rossi, a cura di
Giuseppe Armani (Guanda, Parma 1975). I volumi che testimoniano della sua
attivita' pubblicistica sono molteplici. Ricordiamo quelli piu' famosi:
Settimo: non rubare (Laterza, Bari 1953); Il Malgoverno (Laterza, Bari
1954); Aria fritta (Laterza, Bari 1956). Quanto, invece, agli scritti su
Rossi ci limitiamo a segnalare di Gian Paolo Nitti, Appunti
bio-bibliografici su Ernesto Rossi, in 'Il movimento di liberazione in
Italia', nn. 86-87, gennaio-giugno 1967; di Gaetano Pecora, Ernesto Rossi:
un maestro di vita e di pensiero, in Uomini della democrazia (Esi, Napoli
1986); di AA. VV., Ernesto Rossi. Una utopia concreta, a cura di Piero
Ignazi (Comunita', Milano 1991); la godibile biografia di Giuseppe Fiori,
Una storia italiana. Vita di Ernesto Rossi (Einaudi, Torino 1997); e, ultimo
in ordine di tempo, l'ottimo profilo critico di Livio Ghersi, Ernesto Rossi,
in 'Pratica della liberta'', anno I, n. 4, ottobre-dicembre 1997".
Altiero Spinelli, nato a Roma nel 1907, antifascista, promotore del
federalismo europeo, autore con Ernesto Rossi del Manifesto di Ventotene
(1941). E' scomparso nel 1986. Opere di Altiero Spinelli: cfr. almeno
L'Europa non cade dal cielo; e l'autobiografico Come ho tentato di diventare
saggio; Il Mulino, Bologna. Dal sito del Movimento federalista europeo
(www.mfe.it) riprendiamo la seguente scheda biografica: "Altiero Spinelli
(1907-1986) aderisce molto giovane al Partito Comunista Italiano,
partecipando alla lotta clandestina contro il fascismo. Arrestato nel 1927,
sconta dieci anni di prigione e sei di confino. Durante il suo confino a
Ventotene, studiando i testi dei federalisti anglosassoni, abbandona il
comunismo e abbraccia il federalismo. In quel periodo elabora, assieme a
Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni, il Manifesto di Ventotene (1941). Spinelli
si rende presto conto del fatto che la battaglia per la federazione europea
richiede la creazione di un'organizzazione politica nuova, immune dai
feticci nazionali e dei limiti delle ideologie tradizionali. Sulla base di
questa convinzione promuove la fondazione del Movimento Federalista Europeo
(Milano 27-28 agosto 1943). Agli inizi degli anni Cinquanta, l'azione di
Spinelli e del Movimento Federalista Europeo sul governo italiano si rivela
decisiva per fare della costituente europea la questione centrale nelle
trattative intergovernative per la creazione della Comunita' europea di
difesa (Ced). E' grazie a questa azione che l'Assemblea ad hoc (l'assemblea
allargata della Ceca) viene incaricata di elaborare lo statuto della
Comunita' politica europea... L'Assemblea assolve al suo mandato elaborando
un testo di costituzione, ma la sua opera viene vanificata dalla mancata
ratifica della Ced da parte della Francia (1954). Nonostante questa
sconfitta, fra il 1954 e il 1960 Spinelli e il Mfe rilanciano la lotta
federalista impegnandosi per mobilitare l'europeismo ormai diffuso in una
protesta popolare crescente - azione del Congresso del popolo europeo -
diretta contro la legittimita' stessa degli stati nazionali. Dopo aver
abbandonato il Movimento Federalista Europeo negli anni Sessanta, nel 1970
viene nominato membro della Commissione esecutiva della Cee. Dal 1976 al
1986 e' membro del Parlamento europeo, divenendo nel 1984 presidente della
Commissione istituzionale. E' nel Parlamento europeo che Spinelli, per la
seconda volta, ha l'opportunita' di avviare un'azione di tipo
costituzionale, promuovendo all'interno del Parlamento europeo, ormai eletto
direttamente, l'elaborazione di un Progetto di Trattato di Unione europea
(approvato a larghissima maggioranza il 14 febbraio 1984). Questa iniziativa
viene frenata e insabbiata dai governi nazionali, che nel 1985 varano il
meno ambizioso Atto unico europeo. Essa segna tuttavia l'ingresso sulla
scena europea del Parlamento europeo come nuovo soggetto politico nel
processo di democratizzazione delle istituzioni comunitarie. Muore a Roma il
23 maggio 1986.
Il Manifesto di Ventotene e' stato recentemente ripubblicato: Altiero
Spinelli, Ernesto Rossi, Il manifesto di Ventotene, Mondadori, Milano 2006,
pp. X + 246, euro 8,40, con due altri classici saggi di Spinelli,
l'altrettanto classica prefazione di Eugenio Colorni all'edizione a stampa
dei tre scritti nel '44, un ampio profilo di Spinelli ("Altiero Spinelli,
fondatore del movimento per l'unita' europea") di Lucio Levi, e una
presentazione odierna di Tommaso Padoa-Schioppa]

Quando il nuovo Presidente della Repubblica evochera' la nascita del
progetto di unificazione europea, oggi nell'isola di Ventotene, saranno in
tanti a domandarsi: chissa' come nacque quell'idea, e come divenne pensiero
dominante d'un continente, e com'e' infine entrata nella vita di ciascuno di
noi sotto forma non solo di promessa o rimorso per le cose incompiute, ma di
tante leggi che prevalgono ormai sulle leggi nazionali. Chissa' come mai ci
si ostina a dare, a simile idea, il nome sublime ma traballante di sogno.
Giorgio Napolitano fara' rivivere quella che allora, in piena guerra tra
europei, sembrava una fantasia nata nelle menti di tre confinati
antifascisti - Altiero Spinelli, Ernesto Rossi, Eugenio Colorni. Tale
apparve in effetti quello che essi avevano pensato: la nascita di un'Europa
dove non ci sarebbero state piu' guerre, e dove avrebbe messo radice una
convinzione fondamentale riguardante gli Stati nazione. Questi ultimi
avevano scavato la propria tomba, trasformando le sovranita' statali
assolute in arma di annientamento reciproco e infine di auto-annientamento.
Come in una tragedia greca, dal dolore e dalla colpa doveva scaturire un
apprendimento che avrebbe condotto l'Europa a una vita nuova. Questa era la
catarsi proposta come farmaco nel Manifesto di Ventotene.
A guardarlo da vicino si trattava di un sogno ben singolare. Era piu' simile
alla visione profetica di chi cerca le radici inconfessate del presente, e
su tale disvelamento abbozza la realta' probabile del domani. L'animava un
principio fortissimo di realta' - che sempre impone alle aspirazioni
politiche e individuali il rispetto delle condizioni date dall'esistente - e
dunque un profondo senso pratico, fondato sull'esperienza e la memoria di
innumerevoli guerre europee. Se continuo' a esser definito come sogno o
utopia, e' perche' gli Stati vollero che questa fosse la vulgata, necessaria
alla salvaguardia delle sovranita' nazionali assolute. Non fu cosi' per i
fondatori della Comunita': Adenauer, Monnet, Schuman, De Gasperi avevano
chiara in mente la sequela tragica della storia d'Europa, e consideravano
l'Unione praticamente indispensabile, non solo utopisticamente desiderabile.
Ma i custodi del nazionalismo non hanno smesso lungo i decenni di
agguerrirsi con comodi sotterfugi. Sin dall'inizio, la loro principale arma
e' consistita nel definire l'avventura europea un'illusione, declinata al
passato come altre utopie.
Varrebbe la pensa rileggere gli articoli che scrissero James Hamilton e John
Jay fra l'autunno 1787 e la primavera 1788, nella raccolta intitolata Il
Federalista e sotto il comune pseudonimo di Publius, quando si tratto' di
far ratificare la Costituzione americana adottata dalla Convenzione di
Filadelfia il 17 settembre 1787. Nel sesto saggio, Hamilton spiega dove si
annidano le vere illusioni, le vere "speculazioni utopistiche". A coltivarle
non erano i federalisti ma chi li avversava, preferendo l'inviolabile
sovranita' dei tredici Stati americani o, al massimo, parziali
confederazioni. Hamilton e' severo: sono questi ultimi che immaginano sia
possibile una "pace perpetua tra Stati anche qualora essai siano smembrati e
divisi l'uno dall'altro". E' loro l'ottimismo imprevidente di chi ritiene lo
spirito repubblicano sostanzialmente pacifico ("Le repubbliche non si sono
dimostrate meno proclivi alla guerra delle monarchie"). Rileggere Publius
aiuta a penetrare l'imbroglio di un'utopia che usa avvolgersi - ieri come
oggi - nel manto della rispettabilita' pragmatica: "E' tempo di svegliarsi
dall'ingannevole sogno di un'eta' dell'oro - scrive Hamilton - e di adottare
quale massima pratica per l'orientamento della nostra condotta politica il
fatto che noi, come tutti gli altri abitanti del globo, siamo ancora ben
lontani dal felice regno della perfetta saggezza e della perfetta virtu'".
Anche per l'Europa di oggi e' cosi'. Certo hanno ragione coloro che vedono
nei fondamenti postbellici qualcosa di nobile ma non piu' trascinante:
proprio perche' l'Unione in parte gia' esiste, non e' facile immaginare
nuove guerre tra europei. Non per questo l'Europa diventa oscuro oggetto di
desideri utopistici, retorica vecchia su un mondo che non c'e'. Il mondo
delle minacce da cui nacque l'idea europea esiste ancora, solo che minacce e
sfide son mutate: si chiamano economia mondializzata, terrorismo, scarsita'
e uso politico dell'energia. Oggi come ieri i singoli Stati non possono
fronteggiarle da soli, e i loro dirigenti in cuor loro lo sanno anche quando
sono riluttanti a delegare sovranita'. Se son capaci di guardare dentro la
propria storia sanno che non e' neppure autentica sovranita', la loro: e'
un'ombra quella che stringono. E' l'illusione cosi' come la descrive Nicola
Abbagnano nel Dizionario di filosofia: e' "un'apparenza erronea che non
cessa quando viene riconosciuta come tale... e' come vedere spezzato un
bastone immerso nell'acqua". Delegando poteri decisionali all'Europa, gli
Stati possono riacquistare una sovranita' oggi perduta.
E' dunque per senso di realta' che tocchera' fare l'Europa e darle capacita'
di governo, proprio come negli anni Quaranta e Cinquanta. E' per spirito
pratico che urge un'Unione pronta a operare anche quando non c'e' accordo
unanime, non bloccata dal diritto di veto. Ancora una volta e' l'esperienza
storica a imporre questa sequela, determinata dal sogno profetico ma fondata
sulla razionalita'. Illusorio e' oggi lo Stato nazione, quando si finge non
vulnerabile e addirittura s'ammanta di realpolitica e pragmatismo. La stessa
retorica democratica e' esercizio illusionistico che rischia di nascondere
il reale. Naturalmente e' essenziale che l'Europa sia accettata dai popoli.
Ma senza governo efficiente non ha senso mettere in primo piano tale
esigenza: senza governo l'Europa sara' magari piu' democratica ma del tutto
priva di peso.
Anche questa e' una lezione preziosa che viene dai federalisti americani del
'700. I generosi slanci democratici possono "trasformarsi in passioni
maligne e accidiose"; una troppo scrupolosa preoccupazione dei pericoli che
corrono i diritti del popolo puo' tramutarsi in "pura falsita' e in vaga
lusinga per ottenere popolarita' a scapito del pubblico bene", dice Publius
nel Federalista. L'ambizione pericolosa e' quella di chi "si nasconde sotto
la speciosa maschera dello zelatore dei diritti del popolo", e non di chi,
preferendo la strada piu' difficile, "si preoccupa della solidita' e
dell'efficienza del governo" (Hamilton, nel primo saggio). La democrazia in
certe condizioni puo' divenire perfino inganno. I referendum sull'adesione
della Turchia promessi in Francia e Austria sono in realta' un mezzo per
accampare il diritto di veto di singoli Stati sulla futura politica estera
europea. Piu' che rispettati, i popoli vengono in tal modo strumentalizzati.
Un sogno realistico dell'Unione e' oggi la Costituzione, e non e' casuale
che anch'essa sia dichiarata morta, come accade alle utopie condannate dalla
realta'. I due referendum in Francia e Olanda, nel maggio-giugno 2005,
avrebbero affossato l'idea di un governo europeo adeguato, capace di
completare i governi nazionali. Naturalmente converra' fare qualcosa, in
attesa che la Francia si dia un nuovo capo di Stato nel 2007: qualcosa di
pragmatico con i trattati esistenti, ha detto il presidente della
Commissione Barroso proponendo - in vista del vertice europeo del 15
giugno - una comune politica di sicurezza interna e antiterrorismo. Ma non
bastera', finche' i poteri decisionali in Europa non saranno chiariti oltre
che suddivisi, e solo una Costituzione puo' servire a questo scopo. Se
possibile, una Costituzione approvata stavolta da tutti i popoli in
simultanea.
Anche questo progetto non e' illusorio, e chi ha gia' ratificato il Trattato
costituzionale lo sa. Il cancelliere Angela Merkel ha detto che non intende
rassegnarsi: il popolo tedesco e tanti altri Paesi hanno votato per la
Costituzione, dunque il progetto non puo' esser gettato via con disinvolta
presunzione da alcune nazioni. Quindici Stati su venticinque hanno
ratificato (fra poco saranno sedici, con la Finlandia) e questo significa
che una maggioranza vuole la Costituzione. Anche la maggioranza dei
cittadini - circa 250 milioni su 450 - la vuole. Far rivivere il sogno
realistico vuol dire partire da qui, da questa Europa che gia' si esprime
maggioritariamente per un governo europeo funzionante, e per un continente
che pesi nell'economia-mondo e nel farsi della politica internazionale.
Bisogna tener conto dell'insoddisfazione di chi denuncia i difetti
dell'Unione, ma anche della volonta' possente di chi l'Unione vuol
completarla e darle una Costituzione. Tornare indietro sarebbe non solo
illusorio: sarebbe un tradimento e una rottura dei patti, perche' tutti i
governi si sono impegnati a portare il Trattato a ratifica entro due anni,
quando l'hanno firmato il 29 ottobre 2004. E' importante che l'Italia abbia
di nuovo un gruppo dirigente che questa avventura l'ha promossa e che vuole
addirittura migliorarla (abolendo ad esempio il paragrafo del Trattato che
impone l'unanimita' per le revisioni costituzionali): Napolitano seguira' in
questo la battaglia di Ciampi e altri s'aggiungeranno, a cominciare da Prodi
che aveva proposto un Trattato costituzionale ancora piu' ardito - il
progetto Penelope - come presidente della Commissione. A questo punto si'
che sara' ottima cosa far rivivere i sogni realistici, e metter fine alle
utopistiche illusioni nazionali: illusioni che non cessano anche quando son
riconosciute come tali.

4. LIBRI. IDA DOMINIJANNI PRESENTA "LA VITA E LE REGOLE" DI STEFANO RODOTA'
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 21 giugno 2006.
Ida Dominijanni, giornalista e saggista, docente a contratto di filosofia
sociale all'Universita' di Roma Tre, e' una prestigiosa intellettuale
femminista. Tra le opere di Ida Dominijanni: (a cura di), Motivi di
liberta', Angeli, Milano 2001; (a cura di, con Simona Bonsignori, Stefania
Giorgi), Si puo', Manifestolibri, Roma 2005.
Stefano Rodota' e' nato a Cosenza nel 1933, giurista, docente
all'Universita' degli Studi di Roma "La Sapienza" (ha inoltre tenuto corsi e
seminari nelle Universita' di Parigi, Francoforte, Strasburgo, Edimburgo,
Barcellona, Lima, Caracas, Rio de Janeiro, Citta' del Messico, ed e'
Visiting fellow, presso l'All Souls College dell'Universita' di Oxford e
Professor alla Stanford School of Law, California), direttore dele riviste
"Politica del diritto" e "Rivista critica del diritto privato", deputato al
Parlamento dal 1979 al 1994, autorevole membro di prestigiosi comitati
internazionali sulla bioetica e la societa' dell'informazione, dal 1997 al
2005 e' stato presidente dell'Autorita' garante per la protezione dei dati
personali. Tra le opere di Stefano Rodota': Il problema della
responsabilita' civile, Giuffre', Milano 1964; Il diritto privato nella
societa' moderna, Il Mulino, Bologna 1971; Elaboratori elettronici e
controllo sociale, Il Mulino, Bologna 1973; (a cura di), Il controllo
sociale delle attivita' private, Il Mulino, Bologna 1977; Il terribile
diritto. Studi sulla proprieta' privata, Il Mulino, Bologna 1981; Repertorio
di fine secolo, Laterza, Roma-Bari, 1992; (a cura di), Questioni di
Bioetica, Laterza, Roma-Bari, 1993, 1997; Quale Stato, Sisifo, Roma 1994;
Tecnologie e diritti, Il Mulino, Bologna 1995; Tecnopolitica. La democrazia
e le nuove tecnologie della comunicazione, Laterza, Roma-Bari, 1997;
Liberta' e diritti in Italia, Donzelli, Roma 1997. Alle origini della
Costituzione, Il Mulino, Bologna, Il Mulino, 1998; Intervista su privacy e
liberta', Laterza, Roma-Bari 2005; La vita e le regole, Feltrinelli, Milano
2006]

"La vita e' un movimento ineguale, irregolare e multiforme", scriveva
Montaigne nei suoi Saggi piu' di quattro secoli fa. Il diritto invece e'
forma e norma, e per sua vocazione tende a uguagliare, regolare, uniformare.
La tensione fra La vita e le regole - titolo dell'ultimo libro di Stefano
Rodota' - sta tutta qui, ed e' una tensione ineliminabile, uno jato
irriducibile. Se prova a eliminare questa tensione e a ridurre questo jato,
il diritto da' il peggio di se': diventa bulimico e onnivoro,
autoreferenziale e arrogante, assume per se' quella volonta' di potenza
della tecnica e della politica che invece sarebbe deputato a contrastare. Se
invece interroga la tensione e rispetta lo jato, trova la sua misura e il
suo limite, e riguadagna la sua fecondita'. Non sara' il padrone della Vita
ne' il suo insindacabile arbitro, ma si mettera', piu' umilmente, "al
servizio del mestiere di vivere".
Vita, diritto, tecnica, politica: gli ingredienti del libro sono questi, e
giocano di rimbalzo su un registro multidimensionale, specchio del tempo
presente in cui il libro si iscrive e a cui si rivolge. Nessuno si da' senza
l'altro, neanche il primo, giacche' la vita stessa e' oggi intrisa di
tecnica, di norme e di politica dall'inizio alla fine; e quanto agli altri
tre, che dovrebbero concorrere a fare di ogni vita una buona esistenza,
fanno piuttosto a gara a appropriarsene e a dominarla. Limitare questa loro
gara equivale percio' a restituire alla vita quella "esperienza della
liberta'", direbbe Jean Luc Nancy, che e' connaturata alla nascita. Ed e'
un'istanza di liberta' infatti quella che muove il libro di Rodota', che non
per caso porta in esergo la citazione da Montaigne, e per sigla finale una
dedica a Pier Paolo Pasolini.
*
Come sempre tuttavia la liberta' corre su un filo; e qui non c'e' traccia di
quella liberta' dal diritto e dalla politica che nutre la retorica
liberista, e nemmeno di quella liberta' dalla tecnica che nutre i divieti
teocon sulla procreazione assistita o sull'eutanasia. La vita e le regole e'
una freccia scagliata contro le pretese onnipotenti del diritto che tutto
vuole normare e del linguaggio giuridico che tutto vuole irregimentare nella
sua grammatica e nella sua sintassi. Ma non sostituisce a questo pieno il
vuoto di legge; perche' nel vuoto vede il pericolo che venga meno quella
funzione emancipatrice del diritto e dei diritti, strumento dei deboli
contro i forti. Aperto sul tempo di oggi, Rodota' riporta al presente le
conquiste di ieri: del costituzionalismo novecentesco che limita i poteri e
stabilisce l'indecidibilita' dei diritti fondamentali e l'indivisibilita'
dei diritti politici, civili, sociali e di terza e quarta generazione.
Guadagnare liberta' non significhera' quindi liberarsi del diritto, ma
sganciarlo da logiche proprietarie, emergenziali, eccezionalistiche,
disciplinari, normalizzanti, omologanti: "si tratta di riconoscere
l'andamento irregolare della vita, sostituendo a un diritto che ha gia'
deciso una volta per tutte una disciplina che accompagna la varieta' delle
vite concrete".
Si tratta dunque di intendere il diritto come una condizione di possibilita'
per l'autonomia e l'autodeterminazione singolare, e non come sua
mortificazione e negazione. Affrontando di conseguenza nell'orizzonte della
liberta', e non della repressione o della forza, i dilemmi che all'esercizio
della liberta' sono inevitabilmente connessi, e che oggi la tecnica e le
tecnologie moltiplicano. La scelta di come mettere al mondo e di come
morire, di come evitare che il proprio corpo sia ridotto a cosa dalla
ricerca scientifica o a merce dalle multinazionali, di come costruire e
presentare agli altri la propria identita' e di come evitare che essa ci
venga rinviata deformata dai motori di ricerca in Internet; i modi per
tutelare i propri movimenti e la propria dignita' dall'invasione delle
tecnologie della sorveglianza; le vie per salvaguardare la propria intimita'
dalle banche dati e dalle regole dell'apparenza della societa' dello
spettacolo. Il mestiere di vivere si fa insieme piu' ricco di potenzialita'
e di trappole, rischia per ogni chance in piu' anche un divieto in piu', o
un microchip sottopelle o un test genetico fatto abusivamente. Rodota'
riversa in questo libro non solo la sua sapienza di giurista, ma anche la
sua esperienza di ex garante della privacy, e quello che ne deriva non e'
solo una bussola teorica per orientarsi fra potenza e limiti del diritto, ma
anche una mappa pratica per inoltrarsi nella selva delle ambivalenze in cui
tecnologie in evoluzione e norme incerte ci fanno trovare quotifdianamente.
"L'Ottocento sarebbe stato il secolo della liberta' economica, il Novecento
quello della liberta' politica. La liberta' finale, quella che riguarda le
determinazioni proprio sulla vita, segnerebbe il secolo che stiamo vivendo.
Una liberta' non prigioniera dell'egoismo ma promotrice anche di
solidarieta', legame sociale, valori condivisi". E' la liberta' piu'
difficile da fare, nel tempo in cui la tecnica puo' liberare e imprigionare,
la genetica puo' salvare e discriminare, il caso puo' - come sempre -
eguagliare o infierire, e la legge puo' reprimere o soccorrere. In un tempo
cosi' tuttavia ancorare il diritto al suo limite e' una mossa prioritaria,
perche' il nostro e' anche il tempo in cui la politica non riesce piu' a
pensarsi al di fuori del diritto, non ha autonomia dalla norma, non sa
risolvere alcun conflitto se non imponendo regole. Ricordare al diritto il
suo limite significa dunque anche, o almeno cosi' a me pare, liberare spazi
per una politica che non si identifichi con la politica del diritto, e fra
la forza e la norma ritrovi la capacita' di mettere al mondo altre e piu'
efficaci mediazioni.

5. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.

6. PER SAPERNE DI PIU'
* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per
contatti: azionenonviolenta at sis.it
* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia:
www.peacelink.it/users/mir; per contatti: mir at peacelink.it,
luciano.benini at tin.it, sudest at iol.it, paolocand at libero.it
* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per
contatti: info at peacelink.it

LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 1336 del 24 giugno 2006

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