Nonviolenza. Femminile plurale. 66



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NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE
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Supplemento settimanale del giovedi' de "La nonviolenza e' in cammino"
Numero 66 del primo giugno 2006

In questo numero:
1. Natasha Walker: Donne in Iraq
2. Giuliana Sgrena: Un popolo assediato alla ricerca di un futuro
3. Edoarda Masi: Rivoluzione culturale, un'utopia attuale
4. Saverio Aversa intervista Judith Malina
5. Rossana Rossanda presenta "La marcia su Roma" di Giulia Albanese

1. MONDO. NATASHA WALKER: DONNE IN IRAQ
[Ringraziamo Maria G. Di Rienzo (per contatti: sheela59 at libero.it) per
averci messo a disposizione nella sua traduzione il seguente articolo di
Natasha Walker, apparso sul quotidiano "The Guardian" dell'8 maggio 2006.
Natasha Walker, prestigiosa intellettuale femminista, e' editorialista del
"Guardian"]

Le donne in Iraq stanno vivendo un incubo nascosto all'occidente. Una di
esse e' diventata regista proprio per aprire a noi una finestra su cio' che
le donne sopportano.
Rayya Osseilly, ad esempio, e' una medica irachena che si prende cura delle
altre donne nell'assediata citta' di Qaim. Non e' sorprendente che la sua
testimonianza non sia felice. "Non provo mai la sensazione che l'oggi sia
migliore di ieri", dice nel filmato. Guardando ai resti bombardati
dell'ospedale in cui lavora, e' chiaro contro quali difficolta' stia
lottando.
Non e' usuale che sia dia uno sguardo piu' da vicino a cosa accade alle
donne in citta' come Qaim, che ha subito un pesante attacco dalle truppe
americane l'anno scorso. L'accesso ai media occidentali e' severamente
ristretto. Ora, tuttavia, abbiamo uno squarcio di questa realta' grazie ad
una donna irachena che ha viaggiato per l'intero paese e ha parlato con
vedove e bambine, dottoresse e studentesse, cercando la verita' delle vite
delle sue connazionali.
*
La regista vive a Baghdad e vuole mantenere segreta la propria identita' per
timore di ritorsioni, percio' la chiamero' Zeina. Quando le ho parlato al
telefono, la prima cosa che le ho chiesto era proprio perche' sentiva il
bisogno di nascondere il suo nome, e nella sua risposta non ha fatto alcuna
distinzione fra il governo e gli 'insorgenti', nel modo in cui noi la
facciamo. "Temo il governo e le milizie settarie", ha detto, "I pericoli in
Iraq vengono dagli statunitensi, dalle milizie settarie, e naturalmente
anche dai criminali, le gang, i rapitori".
Zeina ha deciso di realizzare questo film perche' le cose che lei vede ogni
giorno non sono viste dal resto del mondo. "Nessuno si accorge di cosa
stiamo passando. Tutti gli iracheni sono psicologicamente traumatizzati da
cio' che sta accadendo. Conosco bambini che cominciano a tremare se solo
sentono il suono di un aeroplano o vedono un soldato. Ho visto intere
famiglie smembrate. Ho visto donne costrette a prostituirsi a causa della
miseria delle loro famiglie".
Zeina non era una sostenitrice del regime di Saddam Hussein. Durante quel
periodo, lavorava come giornalista e traduttrice di critica letteraria. "A
livello politico, prima della guerra, non ero contenta. Molte cose erano
ingiuste. Non avevamo liberta' di parola o di espressione. Ma non avrei mai
immaginato che le cose cambiassero in peggio in questo modo. Non avevo mai
immaginato una situazione del genere".
Sin dall'inizio delle riprese, la cinquantenne regista sapeva che si sarebbe
assunta dei rischi. "Viaggiavo in compagnia di altre due o tre persone, in
un'automobile modesta. Quando viaggiavamo verso Qaim dovemmo attraversare il
deserto, perche' gli americani avevano bloccato la strada. Era buio quando
arrivammo a destinazione, e proprio di fronte a noi si gonfiava una nuvola
di polvere attraversata da lampi. Stavamo andando giusto incontro ai fucili.
La guidatrice si butto' fuori dalla strada cosi' in fretta che per poco non
ci rovesciammo. Poi, mentre stavamo filmando l'ospedale bombardato ed
eravamo saliti sul tetto, gli statunitensi cominciarono a spararci. Penso
che non volessero ucciderci, ma solo spaventarci. Volevamo mostrarci chi
comandava".
Le riprese del gruppo che trova rifugio dalle fucilate in un ospedale
distrutto sono nel film. Invero, il film che e' il risultato del viaggio di
Zeina non e' un prodotto ripulito, ma piuttosto una serie di sguardi
parlanti che entrano in profondita' nelle vite delle donne. Spesso lo
spettatore si sente frustrato, desideroso di maggiori spiegazioni di quel
che succede, ma data la situazione in cui sono costretti i giornalisti, e
che ha reso la maggior parte dell'Iraq invisibile, si perdonano volentieri
alla pellicola tutti i suoi limiti.
Il film e' particolarmente efficace nel catturare la struttura della vita
familiare in condizioni di totale insicurezza, ed una delle sezioni si
concentra sulla storia di una bambina di otto anni, sopravvissuta
all'attacco dell'automobile in cui viaggiava con suo padre, sua madre ed
altri iracheni. Fu trasportata a un ospedale militare, e per tre mesi se ne
perdettero le tracce. La sua famiglia non fu informata di dove si trovasse,
e nel frattempo la bambina subiva interrogatori in cui le mostravano
fotografie di cadaveri chiedendole di identificarli. Il nonno riusci' infine
a rintracciarla a Baghdad, e quando nel film la vediamo singhiozzare in
grembo all'uomo, sentiamo quasi fisicamente la frustrazione della famiglia:
non vi e' un'autorita' che risponda di cio' che e' accaduto, e che possa dar
risposta alla loro rabbia.
*
Zeina mostra anche, e in un modo che sicuramente dovrebbe suscitare una
pausa di riflessione anche in coloro che qui in Gran Bretagna sostengono la
guerra, come le vite delle donne siano state colpite dalla crescita dei
fondamentalismi religiosi che hanno preso piede nel vuoto di potere
imperante. "Alla tv e sui giornali c'e' una propaganda continua sulle
donne", racconta Zeina, "E' disgustosa, e non ha nulla a che fare con
l'Islam, ma solo con il rinchiudere le donne nelle case e privarle dei loro
diritti". Per mostrare gli effetti negativi di questi sviluppi, Zeina ha
viaggiato sino a Bassora. Per chi ha seguito l'evolversi della situazione
nel sud dell'Iraq, il fatto che le donne vi vengano costrette ad indossare
l'hijab e si impedisca loro di vivere liberamente le loro vite, non e' una
novita'. Ma il significato di questo stato di cose lo capisci veramente
quando vedi giovani donne e i loro familiari narrare di minacce di morte e
di pallottole inviate a scopo intimidatorio perche' una ragazza faceva
sport, o non indossava la sciarpa in testa.
Come Zeina sottolinea, questo tipo di esperienza e' nuovo per la maggioranza
delle donne irachene, che hanno goduto maggior liberta' economica e sociale
prima dell'occupazione. "Qualche tempo fa stavo riguardando le foto di mia
zia al college, negli anni '60. Indossa calzoncini corti e canottiera, e fa
sport nei campi della scuola. E poi ho guardato le foto delle studentesse di
oggi, nello stesso college, coperte di nero dalla testa ai piedi, con le
facce nascoste".
Zeina non ha dubbi nel ritenere l'occupazione la maggior responsabile di
queste situazioni: essa ha dato ai settarismi l'opportunita' di fiorire.
Ride, semplicemente, quando le chiedo se si sente grata per la democrazia
irachena. "Democrazia? Quale? Non abbiamo democrazia, qui. La democrazia di
cui parla Bush e' una struttura completamente vuota, che ha le sue basi su
interessi settari ed etnici. Che democrazia hai quando temi che la tua vita
sia in pericolo, o che tuo marito venga ucciso, se solo esprimi te stessa
liberamente? Questa democrazia e' una brutta barzelletta".
Rispetto all'occupazione, i pareri delle donne irachene sono divisi quanto
quelli degli uomini, e nell'Iraq occidentale ho sentito io stessa donne
inneggiare alla guerra statunitense. Ma e' difficile resistere alla forza e
alla passione con cui Zeina descrive il caos in cui la guerra ha precipitato
l'Iraq.
E desidera molto continuare a documentare la situazione in cui si trovano le
donne, nonostante gli strettissimi limiti in cui e' costretta a lavorare.
"Mi sento molto impedita. Voglio davvero raccontare delle intere famiglie
arrestate, dei corpi trovati, delle torture. Ma se non sei un giornalista
che lavora con gli americani, con il loro permesso, la tua vita e' in serio
pericolo quando dai testimonianza su questi fatti". Nonostante i pericoli,
Zeina e' ansiosa di comunicare la realta' che vede, e vorrebbe che noi la
ascoltassimo: "Vorrei che le persone in Gran Bretagna capissero che
l'occupazione dell'Iraq non fa gli interessi ne' del loro paese ne' del
nostro. I vostri soldati muoiono, e nulla migliora per il popolo iracheno.
Al contrario, la situazione sta andando di male in peggio, in special modo
per le donne".

2. MONDO. GIULIANA SGRENA: UN POPOLO ASSEDIATO ALLA RICERCA DI UN FUTURO
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 26 maggio 2006 riprendiamo il seguente
articolo parte di un piu' ampio reportage da Ramallah. Giuliana Sgrena,
giornalista, intellettuale e militante femminista e pacifista tra le piu'
prestigiose, e' tra le maggiori conoscitrici italiane dei paesi e delle
culture arabe e islamiche; autrice di vari testi di grande importanza, e'
stata inviata del "Manifesto" a Baghdad, sotto le bombe, durante la fase
piu' ferocemente stragista della guerra tuttora in corso. A Baghdad e' stata
rapita il 4 febbraio 2005; e' stata liberata il 4 marzo, sopravvivendo anche
alla sparatoria contro l'auto dei servizi italiana in cui viaggiava ormai
liberata, sparatoria in cui e' stato ucciso il suo liberatore Nicola
Calipari. Opere di Giuliana Sgrena: (a cura di), La schiavitu' del velo,
Manifestolibri, Roma 1995, 1999; Kahina contro i califfi, Datanews, Roma
1997; Alla scuola dei taleban, Manifestolibri, Roma 2002; Il fronte Iraq,
Manifestolibri, Roma 2004; Fuoco amico, Feltrinelli, Milano 2005]

La dignita' di un popolo si coglie nei piccoli gesti. Come quando, al
termine di una visita all'Hisham's palace, le rovine del palazzo dedicato al
califfo Omayyade a Jerico, la guida che ci illustra con dovizie di
particolari il sito archeologico e che non prende lo stipendio da almeno due
mesi rifiuta persino un piccolo contributo per il suo prezioso lavoro. Di
fronte al boicottaggio internazionale, la frustrazione maggiore dei
palestinesi e' quella di dover dipendere sostanzialmente dagli aiuti
esterni.
"Dobbiamo trovare il modo di renderci indipendenti, solo cosi' ci potremo
sentire veramente liberi", sostiene Fatemah Botmeh, incaricata della
formazione presso il ministero delle donne. La sua aspirazione e' condivisa
da molti palestinesi. Ma la sua realizzazione non e' semplice. "Non ci sara'
uno sviluppo in Palestina finche' ci sara' l'occupazione", sostiene Suad
Amiry, scrittrice e architetta che dirige l'ong Riwaq impegnata nel recupero
e la salvaguardia dei beni architettonici palestinesi. "Con tutta la
produzione di ortaggi e frutta che abbiamo, quando vado al mercato a fare la
spesa trovo solo prodotti israeliani e non e' facile boicottarli e
sostituirli con quelli palestinesi. Che peraltro non possono essere
esportati perche' devono passare attraverso Israele, cosi' come le
importazioni. Siamo tutti rinchiusi in un grande campo profughi", conclude
Suad Amiry. Del resto, e' l'israeliano Benvenisti a sostenere che "Israele
ha bisogno di occupare i territori palestinesi per continuare a confiscare
le terre", conclude Suad.
*
La Palestina e' un mercato israeliano
Non solo. "I territori palestinesi costituiscono per Israele un mercato
acquisito al quale non rinuncera' facilmente: l'unica fabbrica di latticini
palestinese di Hebron e' costretta ad importare il latte da Israele" afferma
Suhil Khader, responsabile internazionale del Palestine general federation
of trade unions, il sindacato palestinese. "Prima, almeno 150.000 lavoratori
(50.000 da Gaza e 100.000 dalla West bank) potevano andare a lavorare in
Israele, ma dall'inizio della seconda Intifada le frontiere sono state
chiuse". "Ieri la radio ha annunciato, aggiunge Mohammed Barakat, ex
sindacalista e vecchio compagno di lotte di Suhil, che il governo israeliano
permettera' l'ingresso in Israele di 8.000 lavoratori palestinesi, ma
dovranno appartenere a particolari fasce di eta' e soprattutto subire un
controllo minuzioso del loro passato". Il resto della manodopera viene ormai
importata da altri paesi (dall'Europa dell'est, soprattutto Romania, e dalla
Turchia per le costruzioni, mentre dalla Thailandia provengono i lavoratori
impegnati nell'agricoltura). Una soluzione non vantaggiosa per Israele,
perche' mentre i palestinesi pagavano molte tasse e non godevano dei servizi
visto che la sera tornavano a casa, i nuovi immigrati vivono in Israele e
quindi hanno bisogno di case e assistenza. E soprattutto, cosa fara' Israele
quando non gli serviranno piu'? "Non potra' certo chiudere i check point
come fa con i palestinesi", sostiene Mohammed.
*
Disoccupazione alle stelle
"Con la chiusura di Israele la disoccupazione a Gaza ha raggiunto il 75 per
cento, nella West bank il 47 per cento", precisa Suhil Khader. In Palestina
non ci sono fabbriche e quelle poche (a Nablus e Hebron) sono a conduzione
familiare. Le costruzioni in mancanza di soldi sono sostanzialmente
bloccate - si vedono gli scheletri di grandi edifici abbandonati - e i
negozi sono quasi tutti chiusi, nell'agricoltura sono impegnate in gran
parte donne. Un lavoro, quello agricolo, abbandonato dai maschi quando
avevano la possibilita' di andare a lavorare in Israele o altrove. Lavorare
la terra e' poco redditizio e sempre piu' difficile, con le continue
confische operate dagli israeliani che con la costruzione del muro si sono
annessi un'altra fetta della Cisgiordania (il 22 per cento del territorio,
l'80 per cento erano terre coltivabili). Il muro spesso ha anche separato le
case dei proprietari dai loro terreni costringendoli a percorrere chilometri
per arrivare al loro appezzamento da coltivare o, se non ce la fanno, ad
abbandonare la terra.
Tuttavia, la situazione sempre piu' drammatica, con famiglie ridotte
letteralmente alla fame, rende qualsiasi fazzoletto di terra prezioso. E
altrettanto prezioso diventa il lavoro avviato gia' dal 2002 dalla Rural
women's development society (Rwds), una ong che si occupa delle donne che
vivono nelle zone rurali, i cui problemi si sono accentuati con il
deterioramento della situazione causato dall'impossibilita' di muoversi a
causa dei check point, del muro, etc. La sede principale della ong si trova
a Ramallah, dove e' ospitata nel piano sotterraneo del grande edificio dei
Parc (Palestinian agricultural relief committees), ai quali e' affiliata. In
questi anni l'organizzazione si e' allargata a macchia d'olio: sono 12.000
le donne entrate a far parte di circoli sparsi in tutta la Palestina, Gaza
compresa. "Le donne sono molto interessate ad organizzarsi perche', pur
essendo il 60 per cento delle lavoratrici agricole, il loro lavoro non e'
riconosciuto visto che oltre a coltivare i campi sono costrette a sbrigare
anche i lavori di casa e a prendersi cura dei figli: un doppio lavoro
invisibile", sostiene Wafa abu Zaid, coordinatrice dei progetti.
*
I bisogni di base
E come nascono i progetti? "Prima individuiamo le necessita' e poi
realizziamo i progetti", risponde. Se l'obiettivo e' "migliorare la
conoscenza e l'abilita' delle donne rurali", le prime necessita' espresse
riguardavano i bisogni di base come la nutrizione, la creazione di posti di
lavoro e la possibilita' di guadagni per le giovani generazioni. Per questo,
spiega Wafa, "abbiamo concentrato i primi fondi ricevuti dai donatori
(cooperazione spagnola e francese, ong Usa, etc.) sui progetti di emergenza
(a cominciare dalla distribuzione di cibo) e per la coltivazione degli orti
di casa, fornendo strumenti e sementi, oltre a organizzare forme di
microcredito". Questo non e' l'unico obiettivo dell'organizzazione: occorre
dare alle donne l'opportunita' di giocare un ruolo nella loro comunita'. E
siccome molte donne non hanno avuto la possibilita' di studiare o hanno
dovuto interrompere gli studi, la Rwds organizza corsi di alfabetizzazione
per insegnare a leggere e scrivere e corsi di insegnamento a un livello piu'
elevato per permettere l'accesso all'universita'. Accanto a questo, c'e' un
lavoro di empowerment che ha permesso alle donne che vivono in ambienti
rurali di partecipare alle elezioni e di essere elette nelle amministrazioni
locali. Due donne dell'associazione erano anche candidate alle legislative
ma non sono state elette. Soprattutto, sostiene Wafa, e' importante dare
alle donne la consapevolezza dei propri diritti e individuare i mezzi per
ottenerne il riconoscimento.
*
Il club del microcredito
A Jerico abbiamo incontrato alcune donne di un club della Rwds impegnate
soprattutto nell'area del microcredito. Una di loro si lamentava per la mole
di lavoro domestico dovuto soprattutto al numero dei figli: "E' Fatah che ci
ha imposto di fare tanti figli, per questo ho votato Hamas", dice. Quando le
facciamo notare che su questo punto forse non c'e' differenza tra i due
rivali, lei taglia corto: "vuol dire che la prossima volta cambiero'
ancora".
E' un lavoro, quello della Rural Women's development society (e di molti
altri centri di donne), a stretto contatto con i bisogni delle comunita', un
impegno che invece e' stato abbandonato dai partiti di sinistra che anche
per questo sono stati penalizzati nelle ultime elezioni. "Non hanno piu'
contatto con le comunita', non fanno piu' il lavoro che facevamo noi
comunisti negli anni Ottanta, quando eravamo ancora clandestini", dice
Mohammad Barakat. Abbiamo girato l'accusa a uno dei due deputati eletti
dalla lista Badil, il comunista Bassam al Salhi. "Purtroppo e' vero, molti
errori sono stati commessi dalla sinistra che aveva gia' subito il
contraccolpo del collasso dell'Urss. Poi, dopo gli accordi di Oslo, si e'
concentrata sull'Anp, e non ha piu' svolto un un lavoro continuativo con la
base. Inoltre, la sinistra non ha saputo contrastare il sistema basato sulla
corruzione e il clientelismo. La sinistra si e' dedicata piu' ad agitare
slogan che non a lavorare, invece, sulle questioni sociali e della
democrazia", ammette il deputato.
*
Autostima e speranza
"Dobbiamo tornare ad avere fiducia in noi stessi, nei nostri mezzi, nelle
nostre comunita' e non dipendere solo dall'esterno. Se si perde la speranza
ci si affida a Dio e poi si vota Hamas", sostiene Fadwa Khader, candidata
cristiana di Gerusalemme che pero' non e' stata eletta e, dopo la campagna
elettorale, e' tornata a dirigere l'associazione delle donne rurali. Per ora
gli islamisti non hanno una presenza in campo rurale, limitano la loro
attivita' alle moschee e se si occupano di donne e' solo per insegnare loro
come diventare brave mogli.
Approfittando della distrazione di Fatah, impegnata a dimostrare la propria
fede con la costruzione di moschee invece che di scuole e ospedali, gli
islamisti hanno occupato un settore strategico per fare proselitismo, quello
dell'istruzione. "La maggior parte degli insegnanti sono militanti di
Hamas", sostiene Um Qais che lavora al ministero dell'educazione a Ramallah.
Insegnanti molto attivi che attraverso gli studenti cercano di raggiungere
anche le loro famiglie. E in questo caso il discorso si fa aggressivo. Nelle
scuole di Hebron gli insegnanti hanno cominciato a minacciare gli studenti
che ascoltano la musica, guardano la televisione o leggono riviste che non
rientrano nell'ordine islamico. E per essere piu' convincenti hanno
distribuito Cd da mostrare anche ai genitori in cui vengono illustrate le
pene dell'inferno per i trasgressori. "Mio nipote e' terrorizzato, non vuole
piu' andare a scuola", ci racconta Sara, una sindacalista che incontriamo in
un centro di donne a Hebron dove e' in corso una riunione per decidere come
far fronte alle minacce ricevute dai gruppi islamisti.
*
Lo spettro algerino
La Palestina non sara' l'Algeria, come dicono molti palestinesi, ma spesso
il pensiero torna ai ricordi delle esperienze vissute ad Algeri negli anni
Novanta. Um Qais e' d'accordo e aggiunge che Hamas, come il Fis, usa le
moschee per la propaganda piu' violenta: "Venerdi' scorso ho sentito il
sermone del presidente del parlamento, il 'moderato' Aziz Dweik, che dalla
vicina moschea prometteva ai fedeli l'istituzione di un califfato in
Palestina". Le premesse non sono certo di buon auspicio.

3. RIFLESSIONE. EDOARDA MASI: RIVOLUZIONE CULTURALE, UN'UTOPIA ATTUALE
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 25 maggio 2006. Edoarda Masi e' nata a
Roma nel 1927, intellettuale della sinistra critica, di straordinaria
lucidita', bibliotecaria nelle biblioteche nazionali di Firenze, Roma e
Milano, ha insegnato letteratura cinese nell'Istituto Universitario
Orientale di Napoli; ha vissuto a Pechino e a Shangai, dove ha insegnato
lingua italiana all'Istituto Universitario di Lingue Straniere. Ha
collaborato a numerose riviste, italiane e straniere, tra cui "Quaderni
rossi", "Quaderni piacentini", "Kursbuch", "Les temps modernes". Tra le
opere di Edoarda Masi: La contestazione cinese, Einaudi, Torino 1968; Per la
Cina, Mondadori, Milano 1978; Breve storia della Cina contemporanea,
Laterza, Bari 1979; Il libro da nascondere, Marietti, Casale Monferrato
1985; Cento trame di capolavori della letteratura cinese, Rizzoli, Milano
1991. Tra le sue traduzioni dal cinese in italiano: Cao Xuequin, Il sogno
della camera rossa, Utet, Torino 1964; una raccolta di saggi di Lu Xun, La
falsa liberta', Einaudi, Torino 1968; e Confucio, I dialoghi, Rizzoli,
Milano 1989. Non sara' inutile qui segnalare che la riflessione della Masi
e' l'opposto dell'apologetica e della reticenza  di coloro che a suo tempo
furono complici di crimini immani da parte dei regimi del cosiddetto
socialismo reale ed oggi con un semplice rovesciamento di giacchetta si son
fatti parimenti complici dei crimini immani del capitalismo trionfante;
detto questo, della rivoluzione culturale cinese non si dimentichino le
violenze e i crimini e le vittime: solo chi si colloca sempre e comunque
dalla parte delle vittime ha voce in capitolo su questo foglio (p. s.)]

Sono passati quarant'anni dall'inizio della rivoluzione culturale in Cina, o
meglio, da quando il movimento sfuggi' dalle mani della burocrazia, dopo il
dazebao della giovane Nie Yuanzi il 25 maggio 1966: per breve tempo,
giacche' nel corso del 1968 (febbraio o dicembre, secondo le varie
interpretazioni) era virtualmente conclusa. Esporre nelle linee essenziali
le vicende di quel movimento, i suoi contenuti, i motivi della sua
eccezionale importanza nella storia mondiale, le ragioni della sua sconfitta
e, ad un tempo, della sua attualita', risulta impossibile. Infatti il
pubblico al quale ci si rivolge ha subito trent'anni di lavaggio del
cervello, piu' che mai intenso e distruttore nell'ultimo decennio, a
proposito non tanto o non solo delle questioni cinesi, quanto della
conoscenza e dell'interpretazione della storia degli ultimi due secoli,
delle origini e dello sviluppo del movimento operaio internazionale, degli
attacchi violenti e ininterrotti ai paesi socialisti (che hanno contribuito
a deformarne irrimediabilmente il carattere); per non parlare dei contenuti
del pensiero socialista nelle sue diverse correnti, del marxismo critico e
antistalinista, della lunga lotta dei popoli asiatici e africani, nel
secondo dopoguerra, per formare un fronte di "terzo mondo" disimpegnato dai
due blocchi di potenza (distrutto al prezzo di un milione di morti in
Indonesia fra il 1965 e il 1966, ad opera dei servizi segreti Usa).
Sbaglia chi lamenta l'assenza di valori nella societa' di oggi, che in
realta' assume il profitto a valore dominante e universale - come Dio
indiscutibile e onnipotente. Non solo la conoscenza del pensiero socialista
e' stata interdetta, ma si e' disgregato lo stesso contesto dei valori
borghesi, di cui tutti si riempiono la bocca: democrazia, tolleranza,
liberta'... come le "menzogne viventi" di cui scriveva Sartre nel '62,
lanciate dalle citta' d'Europa in Africa, in Asia: ´"artenone!
Fraternita'!", risuonano vuote oggi fino nel centro delle metropoli. Hanno
la stessa funzione dei "variopinti legami" della societa' feudale di cui
dice il Manifesto del partito comunista. Li ha spazzati via, divorando la
stessa borghesia, un padrone anonimo come Dio indiscutibile e onnipotente,
che chiamano "mercato" per non usare il termine "capitale", che sarebbe piu'
corretto.
Il padrone anonimo domina oggi nel mondo, semina degrado dolore e
distruzione anche nei paesi che avevano cercato la via socialista; anche in
Cina, dopo che, con la morte di Zhou Enlai e di Mao Zedong, ebbero fine le
lunghe lotte con cui prima, durante e dopo la rivoluzione culturale, si era
tentato disperatamente di bloccarne l'ingresso. Si era arrivati, da parte
dei rivoluzionari cinesi, a riconoscere il dominio effettivo del capitale
anche nell'Unione Sovietica staliniana e brezneviana (le stesse conclusioni
alle quali, per altra via, e' giunto Istvan Meszaros); e ad attaccare
quanti, nel Pcc, intendevano seguirne la strada: quelli che oggi sono al
potere. Come gia' da un pezzo e ripetutamente e' stato dimostrato, il
degrado e la distruzione, l'allargamento oltremisura della forbice che
divide i ricchi dai poveri, la stratificazione sociale sempre piu' rigida,
la perdita di ogni reale cittadinanza da parte dei poveri - la stragrande
maggioranza - non sono fenomeni marginali, difetti ai quali porre un
rimedio, ne' residui di un passato di "arretratezza" da superare, ma il
risultato del meccanismo universale in atto e la condizione stessa della sua
esistenza. Rapidamente avanzano dalla periferia verso il cuore delle
metropoli: chiunque non sia del tutto cieco ne fa esperienza quotidiana.
Piu' si aggrava l'infelicita' della vita senza scopo, del lavoro idiota, del
lavoro con pericolo di morte e del non lavoro, dell'assenza di umanita',
della solidarieta' ridotta a beneficenza, anche nelle felici metropoli, dove
il nemico da combattere ha perduto anche i connotati culturali positivi
della borghesia, piu' diventa indispensabile per quest'ultimo che la massa
degli infelici sia accecata: che sia cancellata la nozione stessa di
un'alternativa possibile, e la storia di quelli che per essa sono morti, a
milioni nel corso di due secoli. Le figure piu' grandi delle rivoluzioni
borghese e socialista e dei movimenti anticolonialisti vengono dipinte come
quelle di pazzi e di criminali (Robespierre, Lenin, Mao) o di sognatori
(Gandhi, Ho Chi Min), con l'aggiunta magari di qualche pettegolezzo da
rotocalco sulla loro vita sessuale. Non solo, ma si arriva ad attribuire ai
dirigenti rivoluzionari la responsabilita' dei guasti provocati dalle
politiche attuali contro le quali si erano battuti. Quel che importa e'
eliminare la possibilita' che si arrivi a credere in qualcosa, che si scopra
che esistono verita' piu' vere dei "variopinti legami" ai quali per
convenzione e conformismo si deve fingere di credere - solo fingere.
Come raccontare allora che i giovani cinesi in rivolta gia' in quegli anni
lontani avevano sollevato questi problemi, tentato di fare un passo oltre,
verso una dimensione comunista dei rapporti umani (economici e sociali); che
avevano posto con grande liberta' le questioni del rapporto fra dirigenti e
diretti, fra partito e popolo, fra stato e individuo, fra colti e incolti,
fra le esigenze della produzione e quelle del benessere immediato di chi
lavora. Nelle grandi citta' industriali e nei loro hinterland sperimentando
forme audaci di organizzazione "orizzontale", di gestione decentrata del
territorio, di imprese miste agricolo-industriali; in alcune comuni,
realizzando forme inedite di gestione dal basso. Il punto d'approdo di oltre
un secolo di movimento dei lavoratori, e anche il momento che ne ha segnato
per ora la sconfitta (assai piu' del crollo del muro di Berlino, rilevante
per la politica delle potenze: il socialismo di Urss e satelliti era in coma
da molto tempo).
Tutta ideologia, ti diranno gli apologeti del presente, i cinici ideologi
del "mercato". La sola cosa possibile, allora, e' di consigliare a qualche
volenteroso di ricercare i vecchi documenti, ricominciare a studiarli: anche
per vedere se alla fine non possano essere di qualche utilita' qui e ora.

4. ESPERIENZE. SAVERIO AVERSA INTERVISTA JUDITH MALINA
[Dal quotidiano "Liberazione" del 27 maggio 2006.
Saverio Aversa vive a Roma dove lavora come educatore in un centro per
disabili, attivista del movimento glbt e per i diritti umani, giornalista
culturale, si occupa di culture delle differenze.
Judith Malina, straordinaria artista, intellettuale, attivista nonviolenta e
libertaria, con Julian Beck - scomparso nel 1985 - anima del Living Theatre,
che insieme avevano fondato nel 1947. Opere su Judith Malina: Cristina
Valenti (a cura di), Conversazioni con Judith Malina, Eleuthera, Milano
1995]

La citta' di Chieti e il teatro Marruccino hanno ospitato nei giorni scorsi
Judith Malina e Hanon Reznikov, direttori dello storico Living Teatre di New
York, un gruppo teatrale anarchico e pacifista che ha lasciato un segno
profondo nella cultura occidentale del secolo scorso. Il Living e' stato
protagonista di grandi battaglie politiche e sociali come quella contro
l'intervento americano in Vietnam.
"Love and politics" e' la serata di poesia e di testi teatrali proposta ai
teatini, uno spettacolo simbolo dell'impegno del gruppo, intensa espressione
di una particolare estetica visionaria. Amore e politica, temi svolti
attraverso brani di opere del repertorio del Living come Utopia e Metodo
zero. Malina e Reznikov hanno anche tenuto un laboratorio di cinque giorni
sulle tecniche e sulle pratiche di creazione teatrale che ha consentito ai
partecipanti di costruire un breve spettacolo intitolato Una giornata nella
vita della citta': un esperimento di vita quotidiana applicato ai vari
luoghi urbani. I partecipanti, oltre al lavoro sul corpo, sulla gestualita',
sulla voce e l'improvvisazione, hanno studiato la storia dei 59 anni del
Living attraverso la visione di alcuni documentari.
Tutto inizia nel 1947 a New York quando Julian Beck e Judith Malina, marito
e moglie, entrambi ebrei tedeschi scappati negli Stati Uniti durante il
nazismo, frequentano gli stage teatrali del loro connazionale Erwin
Piscator, regista e teorico della ricerca di un'arte legata ai bisogni
vitali. Qualche mese dopo Beck e Malina fondano il Living Theatre che gia'
con i primi spettacoli suscita reazioni scandalizzate. Il Living si oppone
radicalmente a Broadway e a tutto cio' che rappresenta, apre nuove
possibilita' alla rappresentazione teatrale e fornisce argomenti e
ispirazione ai teatranti anticonformisti di tutto il mondo. Julian Beck,
morto nel 1985, e' stato attore, regista e scenografo. Inizio' come pittore
legato all'espressionismo astratto e infatti firmo' le scene di quasi tutti
gli spettacoli del Living, dirigendone buona parte e facendo anche l'attore.
E' stato interprete cinematografico di film come l'Edipo Re di Pasolini e
Cotton Club di Coppola. Dopo la sua scomparsa Reznikov affianca Malina nella
vita e nella direzione del gruppo. Abbiamo incontrato la coppia proprio in
un camerino del Teatro Marruccino. Judith Malina ha risposto ad alcune
domande con qualche intervento di Hanon Reznikov.
*
- Saverio Aversa: Quali sono gli obiettivi principali del laboratorio di
Chieti?
- Judith Malina: Sicuramente la creazione collettiva alla quale si giunge
con degli esercizi che noi insegnamo ai partecipanti che pero' discutono fra
di loro sul soggetto da mettere in scena. Vogliamo che costruiscano lo
spettacolo che e' per loro importante. Naturalmente noi abbiamo i nostri
punti di vista ma non imponiamo la nostra ideologia: vogliamo che loro si
impossessino del potere, dell'autodeterminazione e quindi della capacita' di
essere decisivi. Noi mettiamo le nostre esperienze teatrali al servizio
delle loro idee. Li aiutiamo materialmente a scrivere il testo e a pensare
alle scene attraverso le tecniche dei surrealisti francesi.
*
- Saverio Aversa: Ha un valore aggiunto questo vostro impegno in una piccola
citta'?
- Judith Malina: Da almeno trent'anni portiamo il nostro teatro in Italia e
sosteniamo il decentramento culturale perche' conosciamo il vostro paese
molto bene, in tutti i suoi aspetti. Soprattutto i giovani sono molto
interessati e coinvolti dal nostro modo di fare teatro e sono stimolati
dalla possibilita' creativa istantanea, spontanea e di gruppo. Nello
specifico di questo workshop sono stati scelti sei temi: follia-normalita',
diversita'-collettivita', potere-capitalismo, comunicazione, le paure,
l'integrazione spirituale.
*
- Saverio Aversa: I giovani quindi sono una grande risorsa per un futuro
migliore?
- Judith Malina: Ne siamo convinti. Dopo la "rivoluzione" del 1968 il
privato ha prevalso sul pubblico, si e' perso un certo ottimismo poiche' le
cose non sono andate come speravamo, la sinistra e' rimasta schiacciata da
una grande delusione. I giovani oggi hanno di nuovo la volonta' di cambiare
la societa' come allora. Li abbiamo visti anche al G8 di Genova dove abbiamo
realizzato, insieme a molti di loro, una serie di performance di teatro di
strada. I ragazzi del duemila possono essere ancora piu' radicali e
rivoluzionari di quelli di quaranta anni fa.
*
- Saverio Aversa: Le recenti proteste degli studenti e dei giovani
lavoratori francesi ne sono una dimostrazione?
- Judith Malina: Sono straordinari, forse perche' sono i discendenti dei
protagonisti della rivoluzione del 1789. Sono riusciti a far cambiare una
legge del governo. E intanto altri governanti giocano con le armi come
fossero bambini inconsapevoli, fanno le guerre piu' sanguinarie.
*
- Saverio Aversa: L'arte, il teatro, sono in grado di far scomparire le
guerre?
- Judith Malina: Attraverso un discorso educativo si puo' raggiungere questo
scopo. L'unico metodo e' entrare nell'animo delle persone e cambiarne i
comportamenti. Soprattutto questo puo' essere utile, meno incisiva si e'
dimostrata la politica. Due settimane fa a New York abbiamo debuttato con
uno spettacolo contro la guerra. Siamo sempre stati antimilitaristi e a
Times Square, davanti ad un ufficio di reclutamento di soldati da mandare in
Iraq, in risposta ad uno spot pubblicitario dell'esercito trasmesso da un
grande schermo interagiamo con un'azione teatrale che si intitola "No,
sir!".

5. LIBRI. ROSSANA ROSSANDA PRESENTA "LA MARCIA SU ROMA" DI GIULIA ALBANESE
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 26 maggio 2006.
Rossana Rossanda e' nata a Pola nel 1924, allieva del filosofo Antonio
Banfi, antifascista, dirigente del Pci (fino alla radiazione nel 1969 per
aver dato vita alla rivista "Il Manifesto" su posizioni di sinistra), in
rapporto con le figure piu' vive della cultura contemporanea, fondatrice del
"Manifesto" (rivista prima, poi quotidiano) su cui tuttora scrive. Impegnata
da sempre nei movimenti, interviene costantemente sugli eventi di piu'
drammatica attualita' e sui temi politici, culturali, morali piu' urgenti.
Tra le opere di Rossana Rossanda: L'anno degli studenti, De Donato, Bari
1968; Le altre, Bompiani, Milano 1979; Un viaggio inutile, o della politica
come educazione sentimentale, Bompiani, Milano 1981; Anche per me. Donna,
persona, memoria, dal 1973 al 1986, Feltrinelli, Milano 1987; con Pietro
Ingrao et alii, Appuntamenti di fine secolo, Manifestolibri, Roma 1995; con
Filippo Gentiloni, La vita breve. Morte, resurrezione, immortalita',
Pratiche, Parma 1996; Note a margine, Bollati Boringhieri, Torino 1996; La
ragazza del secolo scorso, Einaudi, Torino 2005. Ma la maggior parte del
lavoro intellettuale, della testimonianza storica e morale, e della
riflessione e proposta culturale e politica di Rossana Rossanda e' tuttora
dispersa in articoli, saggi e interventi pubblicati in giornali e riviste.
Giulia Albanese (Venezia, 1975), storica, si e' laureata in storia
all'Universita' di Venezia nel 1999 e ha successivamente conseguito il
dottorato di ricerca al dipartimento di Storia e civilta' dell'Istituto
Universitario Europeo nel 2004. Nel 2003-4 e' stata borsista dell'Istituto
italiano per gli studi storici e nel 2005 ha collaborato per alcuni mesi
come research assistant ad un progetto di ricerca dell'Istituto Europeo.
Attualmente ha una borsa di post-dottorato presso l'Universita' di Padova.
E' nella redazione degli Annali della Societa' italiana per lo studio della
storia contemporanea dal 2001 ed e' consigliera del direttivo dell'Istituto
veneziano per la storia della Resistenza. Si occupa in particolare di crisi
del liberalismo e violenza politica negli anni '20, finora con particolare
riferimento all'Italia. Si e' occupata anche di Resistenza e ha collaborato
ad una ricerca sul primo maggio in Europa. Tra le opere di Giulia Albanese:
Alle origini del fascismo. La violenza politica a Venezia, 1919-1922, Il
Poligrafo, Padova 2001; Pietro Marsich, Cierre, Padova 2003; (a cura di, con
Marco Borghi), Nella Resistenza. Vecchi e giovani a Venezia sessant'anni
dopo, Nuovadimensione, Portogruaro 2004; (a cura di, con Marco Borghi),
Memoria resistente. La lotta partigiana a Venezia e provincia nel ricordo
dei protagonisti, Nuovadimensione, Portogruaro 2005; La marcia su Roma,
Laterza, Roma-Bari 2006]

Come e' successo che la Marcia su Roma sia rimasta nella memoria piu' come
una passeggiata cialtronesca che come il culmine di quei tre anni di
agitazioni e violenza squadrista? Non che Mussolini lo nascondesse: la
esalto' come una salutare frustata al paese infiacchito, ne irrise il
parlamento. Quella che era avvenuta non era una crisi di governo, era una
rivoluzione in senso pieno.
E pero' garantita nella continuita' simbolica della nazione dall'accordo
della monarchia e dall'essere state le istituzioni stesse a chiamare
Mussolini come capo del governo. Meno di dieci anni dopo questa era la
versione che trovavo nelle scuole dalle elementari all'universita'. Degli
anni torbidi, appena alle spalle, poco si parlava, e come d'un pericolo
sovversivo dal quale la saggezza del re e la determinazione di Mussolini ci
avevano scampato. La violenza ando' sullo sfondo, in ogni caso apparve una
sana reazione a una pessima violenza dei rossi, che retrospettivamente non
andava enfatizzata a ogni buon conto neanche quella, e quindi un dato
secondario. Si era fatto qualche falo' di associazioni perente, gazzette
inesistenti. Nelle antologie restava un episodio crudele, un giovane
fascista fiorentino, Berta, che si aggrappava con le mani sul bordo e i
sovversivi gli pestavano le dita fino a farlo precipitare. Qualcuno, ma non
i testi, ricordava l'olio di ricino, piu' umiliante che tremendo.
Questa banalizzazione e' la prima cosa che colpisce chi ha la mia eta'
leggendo l'appena uscito La marcia su Roma di Giulia Albanese (Laterza, pp.
293, euro 18), che esamina la violenza fascista dal 1919 al 1923, e segnala
come essa sia stata, e perfino teorizzata, un ingrediente inseparabile
dell'avanzata del regime. La giovane storica, allieva di Mario Isnenghi e
studiosa dell'Istituto veneziano per la storia della Resistenza e della
societa' contemporanea, se ne era gia' occupata, ma in questo volume ne
traccia l'intero quadro e il contesto.
*
Contesto che muta: e' nella tarda primavera del 1919 che si sa del complotto
di palazzo Braschi, vagheggiato dalla destra interventista e nazionalista
con sicure complicita' nell'esercito e del duca d'Aosta. E' ancora questa
destra a rilanciare propositi di riscatto di Fiume - impresa gloriosa di
Gabriele D'Annunzio e, questa si', a lungo celebrata - e di altre terre,
fino a un delirio di marcia su Vienna, che offrira' a Mussolini il destro
per dire: Ma perche' luoghi cosi' lontani mentre c'e' Roma su cui marciare?
Poco dopo l'acutizzarsi della crisi postbellica chiarisce e in parte muta la
fisionomia dello scontro, fra destra proprietaria e sinistra del lavoro, dei
sindacati, delle amministrazioni socialiste: quando le elezioni del 1921 le
confermano, le squadre fasciste le attaccano e le prefetture, invece che
proteggerle, le commissariano con il pretesto dell'ordine pubblico. La
classe dirigente liberale prima ha taciuto, poi minimizzato, poi approvato
la violenza fascista come reazione al pericolo di sovversione rossa, poi la
finanzia e la aiuta.
Ancora sorprende la sordita' delle dirigenze politiche e imprenditoriali.
Alla Camera il solo a cogliere la gravita' del pericolo e' Nitti che
chiamera' a resistere, facendo appello anche ai finora temuti lavoratori e
alle loro organizzazioni. Ma sara' accusato lui di incitare alla
sovversione, mentre le camere del lavoro bruciano, i giornali sono occupati,
le tipografie devastate, e dopo Trieste e Venezia, gli scontri e gli
assassinii si moltiplicano in Emilia - Bologna, Ferrara, Piacenza, poi
Rovigo ne sono le piu' colpite: invasione di prefetture, bastonature e
omicidi, assalti a gruppi o a singoli, urla e minacce. Giulia Albanese non
ha scoperto nulla di segreto, la documentazione e' fitta e agli atti, sta
nei rapporti della polizia e delle prefetture, nelle discussioni alla
Camera, nelle relazioni degli ambasciatori. Perche' viene cosi' facilmente
obliterata?
E' vero che l'aura di bonomia che circonda il fascismo e' un'operazione del
dopoguerra, che lo ha volentieri confrontato con il nazismo, traendo la
conclusione che il fascismo, si', e' nato da noi, vero prodotto nazionale,
ma non e' in Italia che sono stati sterminati sei milioni di ebrei,
polacchi, russi, comunisti, non siamo noi che in Francia abbiamo messo a
ferro e a fuoco Oradour. Del nostro comportamento in Abissinia si occupano
in pochi (Del Boca) e di quello in Grecia, soprattutto nei Balcani, ancora
meno.
*
Ma la verita' cui Giulia Albanese ci mette davanti in queste sue pagine
compatte perfino fredde, tanto raramente lascia trasparire lo sgomento che
l'ha presa nella ricerca, e' che la banalizzazione della violenza si e'
costruita fin dagli inizi: Mussolini persegui' e impose una cesura totale
nella legalita' ma con la copertura delle istituzioni, la monarchia e il
governo Facta. E chi la subi' pensava o diceva che era gia' tanto che
l'esercito non si schierasse sanguinosamente dalla parte del fascismo. Le
prefetture occupate finsero di non esserlo perche' dialogarono subito con le
squadracce che le invadevano, solo i giornali protestarono quando non furono
del tutto chiusi, perfino il sindacato, e non solo d'Aragona, pensarono che
fosse meglio conciliare. Nella corrispondenza di Anna Kuliscioff con Turati
e' lei che percepisce per prima il pericolo. Benedetto Croce neppur vi pone
attenzione. Non sono molti quelli che, come Gaetano Salvemini o Luigi
Albertini sul "Corriere", non si ingannano. Ma anche chi vede, perlopiu'
pensa che un appeasement sia il meno peggio. Lo stato d'emergenza dichiarato
da Facta e' derisorio: viene ritirato subito. Tanto che, appena Mussolini e'
chiamato al governo, il suo problema e' come gestire i bollori delle sue
truppe, e lo fara' istituendo le sue Milizie a fianco dell'esercito, che non
apre bocca come non la apre il re. Occorrera' che l'establishment si trovi
addosso il cadavere mutilato di Giacomo Matteotti perche' ci sia un
sussulto, ma siamo gia' nel 1924, e' tardi, Mussolini puo' giocare la sua
carta piu' azzardata e rivendicarne la responsabilita'. Poi saranno le leggi
eccezionali. Per Gramsci nel 1926 e' il carcere, per Turati l'esilio. Il
libro di Giulia Albanese si ferma al 1923, anniversario della Marcia su
Roma, anno primo dell'Era Fascista.
*
Il fascismo in Italia s'e' insediato cosi', scavandosi con la violenza e
molte complicita' uno spazio che diventera' presto anche di rappresentanza
formale con trentacinque deputati. I quali tenteranno di impedire l'ingresso
al deputato comunista Misiano. E vi consumeranno enormita' verbali che
sgomentano, Mussolini ottenendo di regola il voto finale. Il fascismo in
Italia e' cresciuto cosi'. Anche il nazismo matura non illegalmente nella
Repubblica di Weimar, dove giungera' a un certo punto a vincere le elezioni
per poi tosto abolirle. C'e' in quegli anni - e su questo tema di una
ulteriore ricerca si chiude il lavoro di Giulia Albanese - una destra
sovversiva in Europa che tira fuori la testa dovunque. Proprio mentre matura
il complotto di palazzo Braschi viene sconfitto in Germania quello del
generale Kapp. Sconfitto - si consolano una torpida borghesia e una Camera
che si scopre, leggendo i resoconti parlamentari, a trovarsi davvero sorda e
grigia. Piu' Mussolini la prende a schiaffi e piu' si inchina. In verita',
alla luce della storia che segue, i tentativi di colpi di stato appaiono
goffe accelerazioni; quando la democrazia era sufficientemente fradicia da
potersi liquidare senza strappi. Non e' Francisco Franco che fa la regola,
nel 1936 fara' l'eccezione e seguira' una lunga guerra civile. Da noi e'
seguito, salvo fra pochissimi, un blando oblio.
*
Questa e' la conclusione piu' tragica. Sul "Corriere della sera" dello
scorso 8 aprile, Aurelio Lepre si lascia andare a una invettiva scomposta
contro Giulia Albanese: perfido libro! Non che quel che scrive sia falso, ma
perche' ricordare quelle violenze opportunamente dimenticate? Per fini
politici dell'oggi? Per polemica, o peggio, ignoranza del definitivo sigillo
storico posto da Renzo de Felice con la prova che il fascismo ebbe il
consenso della maggioranza degli italiani? Certo che lo ebbe, e se non di
tutti, di molti. Lo ebbero anche le sue violenze. E' qui che la faccenda
brucia. Lo ebbero per l'inclinazione all'illegalita' di gran parte della
classe dirigente liberale e per la debolezza endemica della sinistra. Giulia
Albanese parla di ottanta anni fa, ma chi legge riconosce con allarme piu'
di una eco di oggi, o almeno degli ultimi venti anni.
Un solo appunto a questo prezioso lavoro: e' stata cosi' grande e
determinata la rimozione del secolo scorso, che gioverebbe alla lettura, e
non solo dei piu' giovani, una breve tavola cronologica. Chi prova a citare
agli amici il complotto di Kapp o, peggio, le giornate di Cremona incontra
il buio piu' assoluto.

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NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE
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Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
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Numero 66 del primo giugno 2006

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