La nonviolenza e' in cammino. 1176



LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 1176 del 15 gennaio 2006

Sommario di questo numero:
1. Ida Dominijanni: Il silenzio
2. Renato Raffaele Martino: La pace tra pacifici, pacifisti e pacificatori
3. Enrico Peyretti: La pace tra pacifici, pacifisti e pacificatori. Un
commento al testo che precede
4. Wislawa Szymborska: Il poeta e il mondo
5. Un incontro con Cindy Sheehan a Roma il 18 gennaio
6. Due incontri con Cindy Sheehan e Alice Mahon a Torino il 19 e 20 gennaio
7. La "Carta" del Movimento Nonviolento
8. Per saperne di piu'

1. RIFLESSIONE. IDA DOMINIJANNI: IL SILENZIO
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 12 gennaio 2006. Ida Dominijanni,
giornalista e saggista, docente a contratto di filosofia sociale
all'Universita' di Roma Tre, e' una prestigiosa intellettuale femminista.
Tra le opere di Ida Dominijanni: (a cura di), Motivi di liberta', Angeli,
Milano 2001; (a cura di, con Simona Bonsignori, Stefania Giorgi), Si puo',
Manifestolibri, Roma 2005]

"Usciamo dal silenzio", lo slogan che ha accompagnato la preparazione delle
manifestazione sull'aborto di sabato a Milano in concomitanza con quella sui
Pacs a Roma, e' uno slogan da discutere. In verita' sull'aborto, e su una
vasta materia connessa che riguarda la procreazione e la sessualita', dal
silenzio le donne sono uscite piu' di trent'anni fa, e non ci sono mai piu'
rientrate. Non va scambiata per silenzio una produzione di parola e di
sapere che manca la scena politica e mediatica ufficiale; perche' proprio
con la battaglia di trent'anni fa sull'aborto, che non fu fatta solo di
manifestazioni ma soprattutto di elaborazione, e' diventato chiaro una volta
per tutte che l'ordine del discorso della politica delle donne eccede quello
della politica ufficiale, delle sue parole d'ordine riduttive, dei suoi
schieramenti rigidi. Il che non vuol dire che questa distanza vada
incoraggiata - al contrario, andrebbe ridotta; vuol dire pero' prendere bene
le misure del conflitto in corso sull'aborto, sulla procreazione, sulla
sessualita'. Letizia Paolozzi, ad esempio, giustamente si chiede
(www.donnealtri.it) se a essere sotto attacco oggi sia l'aborto come tale, o
non piuttosto "la parola delle donne, giudicata poco credibile, poco seria,
irresponsabile". E chiunque abbia seguito le argomentazioni zelanti dei
teocon nostrani in questi mesi, nonche' la debole risposta della cultura
laica, sa quanto l'una e l'altra si avvalgano di una sistematica
adulterazione della parola femminile (la riduzione dell'aborto a diritto,
del desiderio a capriccio, del primato femminile nella procreazione a
strapotere autarchico e via dicendo).
Un effetto auspicabile della manifestazione di sabato e' che questa parola
torni piu' potentemente in circolo e contamini esperienze e generazioni
diverse, anche al di la' della manifestazione stessa e del suo impatto
immediato. Non si tratta di "trasmettere" ad altre l'esperienza degli anni
settanta: la genealogia femminile non vive di trasmissione ma di scommesse,
non si nutre solo di continuita' ma anche e soprattutto di differenze. Cio'
che scarta dalla battaglia per l'aborto di trent'anni fa e' rilevante quanto
cio' che le assomiglia; e dunque e' tanto importante ricostruire il discorso
sull'aborto di allora, quanto rilanciarlo all'altezza delle domande di oggi.
Ed e' infatti su questo crinale fra continuita' e discontinuita' che molte
si interrogano nei siti femministi (un segno non trascurabile del mutamento
intervenuto nelle forme della comunicazione e della scrittura). Il rifiuto
di ridurre l'aborto a un diritto; la consapevolezza del carattere
compromissorio della 194 di quante volevano che l'aborto fosse semplicemente
depenalizzato; l'autocoscienza sui legami fra aborto e sessualita' maschile:
le "scoperte" degli anni settanta (una utilissima ricostruzione in un interv
ento di Laura Colombo, www.libreriadelledonne.it) possono funzionare da
griglia per non affidarsi oggi alla grammatica dei diritti, per non
attestarsi su una trincea puramente difensiva (Luisa Muraro, stesso sito),
per squarciare il silenzio sulla sessualita', e soprattutto sulla
sessualita' maschile e sullo stato attuale dei rapporti fra donne e uomini,
che il rumore sull'aborto copre.
Giacche' se silenzio c'e', e' soprattutto nel campo degli uomini che va
denunciato. Ancora Letizia Paolozzi si chiede se nell'aggressivita' politica
maschile di oggi contro l'aborto sia piu' giusto vedere "un desiderio di
revanche contro la liberta' femminile o la spinta ad assumersi una nuova
responsabilita'", che pure non trova le parole per dirsi. Lea Melandri (in
un articolo su "Liberazione" riportato nel gia' citato sito della Libreria
delle donne di Milano) mette in guardia dal rischio che la pura
riaffermazione del primato femminile nella procreazione presti il fianco
"alla misoginia di ogni tipo", e alle "paure profonde" che riattivano negli
uomini "il fantasma di una madre distruttiva e poco accogliente" (Sara
Gandini). La stessa Gandini, con l'intento di "interpretare il presente
partendo dalle conquiste del passato", traccia una discriminante
interessante fra ieri e oggi: se ieri la riappropriazione del desiderio
femminile richiedeva il taglio della separazione dagli uomini, oggi
viceversa la liberta' femminile guadagnata consente e domanda una relazione
piu' forte con l'altro sesso. Nella quale gli uomini accettino lo squilibrio
del primato femminile nella procreazione, ma mettano in gioco la loro
esperienza. La prima parola e l'ultima restano femminili, ma in mezzo non
puo' esserci vuoto di parola maschile.

2. RIFLESSIONE. RENATO RAFFAELE MARTINO: LA PACE TRA PACIFICI, PACIFISTI E
PACIFICATORI
[Ringraziamo Enrico Peyretti (per contatti: e.pey at libero.it) per averci
inviato - insieme al suo commento di seguito riprodotto - il seguente testo
del cardinal Martino su "La pace tra pacifici, pacifisti e pacificatori"
estratto da Renato Raffaele Martino, Pace e guerra, Cantagalli, 2005. Renato
Raffaele Martino, cardinale, e' presidente del Pontificio Consiglio
Giustizia e Pace; dal sito www.vatican.va riprendiamo i seguenti brevi cenni
biografici a cura della sala stampa della Santa Sede: "Il cardinale Renato
Raffaele Martino, presidente del Pontificio Consiglio della Giustizia e
della Pace, e' nato a Salerno il 23 novembre 1932. E' stato ordinato
sacerdote il 20 giugno 1957 e ha conseguito la laurea in diritto canonico.
E' entrato nella diplomazia vaticana nel 1962 ed ha lavorato nelle
nunziature di Nicaragua, Filippine, Libano, Canada e Brasile. Tra il 1970 e
il 1975 e' stato responsabile della sezione per le organizzazioni
internazionali della Segreteria di stato. Il 14 settembre 1980 e' stato
nominato arcivescovo titolare di Segerme e pro-nunzio in Thailandia,
delegato apostolico in Singapore, Malaysia, Laos e Brunei, ricevendo
l'ordinazione episcopale il 14 dicembre dello stesso anno dalle mani
dell'allora segretario di stato, cardinale Agostino Casaroli, nella basilica
romana dei Santi Dodici Apostoli. Nel 1986 ha ricevuto l'incarico di
osservatore permanente della Santa Sede alle Nazioni Unite di New York. E'
stato il terzo ecclesiastico a ricoprire questo alto mandato, dopo mons.
Alberto Giovanetti e l'arcivescovo, poi cardinale, Giovanni Cheli. In questa
veste ha partecipato attivamente alle maggiori Conferenze internazionali
promosse dall'Onu, in particolare a New York (Usa) nel 1990 al Summit
mondiale sull'infanzia; a Rio de Janeiro (Brasile) nel 1992 al Vertice su
ambiente e sviluppo; nel 1994 alle Barbados alla Conferenza sui piccoli
stati insulari in via di sviluppo, e nello stesso anno al Cairo (Egitto)
alla Conferenza su popolazione e sviluppo; a Pechino (Cina) nel 1995 alla
Conferenza sulle donne; a Istanbul (Turchia) nel 1996 a quella sull'habitat;
a Roma nel 1998 alla Conferenza diplomatica dei plenipotenziari per
l'istituzione della Corte penale internazionale; a New York nel 2000 per il
summit del millennio; a Monterrey (Messico) nel 2002 alla Conferenza sul
finanziamento per lo sviluppo. Ancora nel 2002 a Madrid (Spagna)
all'Assemblea sugli anziani e, sempre nello stesso anno, a Johannesburg (Sud
Africa) alla Conferenza sullo sviluppo sostenibile. Notevole eco poi hanno
avuto costantemente i suoi numerosi interventi alle Assemblee dell'Onu dal
1987 al 2002, trattando i piu' vari argomenti, dal disarmo allo sviluppo,
dalla poverta' alla difesa dei diritti dei minori, dalla Palestina ai
rifugiati, alla liberta' religiosa e alla promozione dei diritti umani. Nel
1991, nell'ambito delle sue funzioni alle Nazioni Unite, ha istituito la
"Path to Peace Foundation" allo scopo di sostenere e potenziare le
iniziative della Missione della Santa Sede all'Onu. Dopo sedici anni passati
alle Nazioni Unite a New York come osservatore permanente della Santa Sede,
e' stato chiamato da Giovanni Paolo II il I ottobre 2002 a guidare il
Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace. E' succeduto in questo
incarico a personalita' prestigiose come il cardinale francese Roger
Etchegaray e il compianto cardinale vietnamita Francois-Xavier Nguyen Van
Thuan. Gia' all'inizio del mandato ha rivolto il suo interesse alla
difficile situazione in Venezuela e al grave conflitto civile in Costa
d'Avorio. Soprattutto non ha fatto mancare la sua voce sulla tragica
situazione in Medio Oriente. Nel XL anniversario dell'enciclica Pacem in
terris, durante tutto l'anno 2003, e' stato impegnato in numerose sedute di
studio, dibattiti e conferenze sull'attualita' e sull'importanza
dell'enciclica di Giovanni XXIII. Il 25 ottobre 2004, il dicastero guidato
dal cardinal Martino ha pubblicato l'atteso Compendio della Dottrina Sociale
della Chiesa. Nel marzo 2005 il Pontificio Consiglio della Giustizia e della
Pace, in collaborazione con diversi Istituti universitari cattolici si e'
fatto promotore di un congresso internazionale in Vaticano per celebrare il
XL anniversario della costituzione conciliare Gaudium et spes. Per la sua
costante attivita' in favore delle pacifiche e proficue relazioni tra i
popoli, della promozione umana e della cultura, al cardinal Martino sono
state conferite numerose lauree honoris causa ed onorificenze. Da Giovanni
Paolo II e' stato  creato e pubblicato cardinale nel Concistoro del 21
ottobre 2003, diacono di S. Francesco di Paola ai Monti. E' altresi' membro
della Congregazione per l'evangelizzazione dei popoli; del Pontificio
Consiglio 'Cor Unum'; dell'Amministrazione del Patrimonio della Sede
Apostolica; della Pontificia Commissione per lo Stato della Citta' del
Vaticano"]

1. La pace e' un  patrimonio della persona, una sua qualita' etica e
spirituale. Pacifiche non sono primariamente le istituzioni, i trattati
internazionali, le relazioni fra le cancellerie. Pacifico e' prima di tutto
l'uomo, ogni singola persona capace, per dono di Dio e per virtu' propria,
di vivere un rapporto non conflittuale con se stessa e con gli altri. La
pace e' la ricchezza umana propria degli uomini di pace, dei "pacifici" di
cui parla Gesu' nel discorso della montagna: "Beati gli operatori di pace,
perche' saranno chiamati figli di Dio" (Mt 5, 9). Il messaggio di salvezza
di Cristo riguarda anche tutte le realta' secolari, ma la sua proposta si
rivolge innanzitutto e direttamente al cuore dell'uomo e da li' passa anche
alle relazioni interpersonali e alle strutture. Non avremo mai strutture di
pace senza uomini di pace, persone pacifiche. Troppo spesso, in passato, ci
si e' illusi che a garantire un mondo di pace bastassero dei meccanismi e
dei processi strutturali senza piu' bisogno di uomini pacifici. Quale e' la
principale risorsa per la pace? Certamente le intese internazionali, il
prevalere del diritto e della legge, gli organismi e le agenzie che operano
per essa sono tutte risorse importanti, e tuttavia secondarie e indirette.
Cause strumentali, potremmo dire, perche' la principale risorsa sono gli
uomini di pace, i pacifici.
*
2. L'uomo di pace semina la pace attorno a se', da lui essa si diffonde in
cerchi concentrici alle persone vicine, all'ambiente di lavoro e via via a
tutte le relazioni in cui egli e' impegnato, alla societa'. L'uomo di pace
e' pacifico sempre, in ogni occasione della vita, in quanto la pace
appartiene al suo essere, e' un habitus che egli non dismette. Gli
atteggiamenti di pace gli vengono spontanei ed egli vive con grande
serenita' una moralita' della pace tale che la lotta e la guerra non trovano
nemmeno udienza al suo cospetto.
*
3. Pacifista e', invece, chi si mobilita per la pace e ne fa un progetto
sociale e politico. Il pacifismo e' una cosa buona ma puo' anche degenerare.
Esso trae tutti i propri frutti positivi solo se e' portato avanti da uomini
di pace. Si puo' dire che l'autentico pacifismo dipende dall'essere
pacifici. Il pacifismo senza protagonisti pacifici rischia addirittura di
tradire lo scopo della pace. Puo' diventare una ideologia, manichea nei suoi
giudizi e perfino intollerante, insensibile alla complessita' delle
situazioni, alle responsabilita' in gioco, ai tempi che talvolta sono
richiesti perche' una prospettiva maturi progressivamente. Questo pacifismo
non si accontenta di testimoniare, vuole convincere, acquisire consenso,
tradursi in proposta vincente e, quindi, anche di potere. Si tratta di
aspettative e di processi legittimi che possono pero' adoperare, per
raggiungere i risultati, la violenza delle parole e degli atteggiamenti,
l'esclusione e il facile giudizio, la scelta di parte assolutizzata come
l'unica espressione di un autentico pacifismo. IL pacifismo e' utile perche'
diffonde una passione per la pace e crea occasioni di educazione vicendevole
all'ideale della pace, ma ha bisogno di essere continuamente emendato,
ricondotto alle sue ragioni piu' profonde, ossia alla pace che alberga nei
cuori degli uomini pacifici. A ben rileggere la storia del pacifismo, ci si
accorge, in effetti, che esso ha avuto tanto piu' successo quanto piu' e'
riuscito a incarnarsi in uomini pacifici. E' riuscito a mobilitare le
coscienze e a ottenere anche concreti risultati politici proprio in quanto i
suoi protagonisti hanno saputo guidare il movimento pacifista mediante le
loro qualita' di uomini pacifici, liberi e disponibili al richiamo della
pace.
*
4. Il pacifismo nel senso ora descritto non va confuso con la testimonianza
profetica per la pace, di cui parlero' piu' avanti. Il Concilio Vaticano II
elogia "coloro che, rinunciando all'azione violenta nel rivendicare i
diritti, ricorrono a mezzi di difesa che sono alla portata anche dei piu'
deboli, purche' cio' si possa fare senza lesione dei diritti e dei doveri
degli altri o della comunita'" (Gs, 78). Nella chiesa e' sempre esistito un
atteggiamento decisivo e audace che punta esclusivamente all'utilizzo di
forme di difesa non violenta e si assume il compito di una testimonianza
profetica della pace e della comunione del Regno. Chi compie tali scelte
viene spesso chiamato "pacifista", ma io preferirei definirlo "testimone
profetico della pace", in quanto egli si ispira immediatamente alle parole
di Cristo e non si pone nell'ottica del movimento politico cui la parola
"pacifismo" allude. Il testimone profetico della pace e' piuttosto affine al
pacifico di cui si e' detto in precedenza, solo vi aggiunge una chiara
testimonianza esterna, disposto a pagarne le conseguenze.
*
5. Nell'ultimo decennio del millennio scorso e in questi primi anni del
presente la Chiesa e il papa Giovanni Paolo II hanno levato fortemente la
propria voce contro la guerra, ma, come e' stato giustamente osservato, "il
papa non puo' essere qualificato come pacifista" (A. Riccardi, Governo
carismatico. 25 anni di pontificato, Mondadori, 2003, p. 165). Innanzitutto
perche' egli ha sempre reso onore a chi ha offerto la propria vita per la
salvezza della patria; secondariamente perche' non ha mai condannato a senso
unico le guerre, ma sempre e solo "la" guerra, ed e' stato, spesso, l'unico
a rammentare alla coscienza dell'umanita' anche tante guerre "dimenticate";
in terzo luogo perche' e' stato tra i primi a ipotizzare anche forme
adeguate di intervento umanitario e di interposizione (cfr Messaggio per la
pace 2000).  Ma soprattutto Giovanni Paolo II non puo' essere annoverato tra
i pacifisti per via di quella sapienza del realismo cristiano secondo cui
l'unico modo di servire la pace e' di non impossessarsene, ma di lasciarsi,
invece, da essa conquistare. Nel pacifismo militante c'e', in fondo, una
volonta' di possedere la pace e di imporla. Non c'e' dubbio che essa debba
anche essere posta e, entro certi limiti, imposta, ma e' altrettanto vero
che la pace deve germinare e crescere. La si puo' coltivare, produrla e'
difficile. La sapienza del realismo cristiano sa bene che la pace e' un dono
di Dio prima che una conquista umana, sa anche che la pace piena non e' cosa
di questo mondo e, quindi, con pazienza, spinge a lasciarsi conquistare
dalla pace piuttosto che a conquistarla. Non si diventa "operatori di pace"
se non ci si e' resi capaci di accogliere la pace dentro di se'.
*
6. Eccoci, cosi', al pacificatore. Egli trae alimento da suo essere un uomo
di pace per collegarsi ad altri uomini di pace e, come tale, inserirsi
dentro le situazioni storiche di conflitto per portare parole, atteggiamenti
e soluzioni di pace. Se quello del pacifico e' un modo di essere e il
pacifismo un  processo, quella pacificatrice e' un'azione. Quanto il
pacifismo puo' essere utopistico e astratto, tanto l'azione pacificatrice e'
concreta e realistica. Quanto il pacifismo semplifica, giudica e talvolta
condanna, tanto l'azione pacificatrice vuole invece capire la complessita',
aiutare a crescere, proporre soluzioni migliorative, convertire alla pace
convertendosi ad essa. Il pacificatore entra nei conflitti  della storia e
si fa lievito. Se il pacifismo e' guidato spesso dall'ideologia e percorre
un progetto politico, il pacificatore, "operatore di pace", e' guidato prima
di tutto dall'amore, perche', come scriveva Agostino, "avere la pace
significa amare". In questo senso, davanti ai molteplici conflitti
verificatisi durante il lungo pontificato di Giovanni Paolo II, e
specialmente in occasione della guerra in Iraq, il Santo Padre ha piu' volte
invitato ad essere uomini di pace e a farsi pacificatori. Proprio lui,
infatti, stabili' una netta distinzione fra "pacifismo" e "apostolato della
pace" (cfr A. Riccardi, Governo carismatico, p. 166). Per essere seminatori
di pace (cfr Gc. 3, 18) occorre essere personalmente pacifici: "Vivete in
pace e il Dio dell'amore e della pace sara' con voi" (2 Cor 13, 11; cfr
anche Rom 12, 18; 1 Ts 5, 13).
*
7. La distinzione fra i tre termini - pacifico, pacifista, pacificatore -
trova alimento nel primato della pace intesa come dono di Dio rispetto alla
pace concepita come conquista dell'uomo. Senza la distinzione di questi due
livelli complementari non si  capirebbe mai perche' i primi pacificatori
sono gli uomini di preghiera. Ne' si capirebbero le due grandi iniziative di
preghiera proposte da Giovanni Paolo II e attuate ad Assisi nel 1986 e nel
2002. la pace e' prima di tutto un dono di Dio: "Vi lascio la mia pace, vi
do la mia pace. Non come la da' il mondo, io la do a voi" (Gv 14, 27). La
consapevolezza che gli uomini da soli non sanno darsela pone in crisi il
pacifismo ideologico e apre lo spazio per i pacifici e i pacificatori.
*
8. Nel discorso del 1987 al Corpo Diplomatico accreditato presso la Santa
Sede, Giovanni Paolo II immaginava una probabile domanda alla quale subito
dava risposta. Ecco la domanda: "Alcuni diplomatici si chiederanno forse:
come puo' la preghiera per la pace promuovere la pace?". Ed ecco la
risposta: "Il fatto e' che la pace e' innanzitutto un dono di Dio".
*
9. C'e' bisogno di uomini pacifici e pacificatori perche' la pace non sara'
mai solo un frutto di funzionamenti strutturali o di meccanismi giuridici e
politici. Una pace "impersonale", frutto di logiche indipendenti dalla
persona, e' una contraddizione in termini. Nelle pagine precedenti non si e'
inteso altro che profilare, in alcune delle sue linee essenziali, la
prospettiva - concettuale, spirituale e relazionale - di una umanita'
"pacifica e pacificatrice".

3. RIFLESSIONE. ENRICO PEYRETTI: LA PACE TRA PACIFICI, PACIFISTI E
PACIFICATORI. UN COMMENTO AL TESTO CHE PRECEDE
[Ringraziamo Enrico Peyretti per questo intervento. Enrico Peyretti (1935)
e' uno dei principali collaboratori di questo foglio, ed uno dei maestri
piu' nitidi della cultura e dell'impegno di pace e di nonviolenza; ha
insegnato nei licei storia e filosofia; ha fondato con altri, nel 1971, e
diretto fino al 2001, il mensile torinese "il foglio", che esce tuttora
regolarmente; e' ricercatore per la pace nel Centro Studi "Domenico Sereno
Regis" di Torino, sede dell'Ipri (Italian Peace Research Institute); e'
membro del comitato scientifico del Centro Interatenei Studi per la Pace
delle Universita' piemontesi, e dell'analogo comitato della rivista
"Quaderni Satyagraha", edita a Pisa in collaborazione col Centro
Interdipartimentale Studi per la Pace; e' membro del Movimento Nonviolento e
del Movimento Internazionale della Riconciliazione; collabora a varie
prestigiose riviste. Tra le sue opere: (a cura di), Al di la' del "non
uccidere", Cens, Liscate 1989; Dall'albero dei giorni, Servitium, Sotto il
Monte 1998; La politica e' pace, Cittadella, Assisi 1998; Per perdere la
guerra, Beppe Grande, Torino 1999; Dov'e' la vittoria?, Il segno dei
Gabrielli, Negarine (Verona) 2005; Esperimenti con la verita'. Saggezza e
politica di Gandhi, Pazzini, Villa Verucchio (Rimini) 2005; e' disponibile
nella rete telematica la sua fondamentale ricerca bibliografica Difesa senza
guerra. Bibliografia storica delle lotte nonarmate e nonviolente, ricerca di
cui una recente edizione a stampa e' in appendice al libro di Jean-Marie
Muller, Il principio nonviolenza, Plus, Pisa 2004 (libro di cui Enrico
Peyretti ha curato la traduzione italiana), e che e stata piu' volte
riproposta anche su questo foglio, da ultimo nei fascicoli 1093-1094; vari
suoi interventi sono anche nei siti: www.cssr-pas.org, www.ilfoglio.org e
alla pagina web http://db.peacelink.org/tools/author.php?l=peyretti Una piu'
ampia bibliografia dei principali scritti di Enrico Peyretti e' nel n. 731
del 15 novembre 2003 di questo notiziario]

Un amico impegnato in un movimento cattolico per la pace mi chiede
un'opinione su una pagina del libro "Pace e guerra" del presidente del
Pontificio Consiglio Giustizia e Pace, card. Renato Raffaele Martino. Ho
trascritto la pagina aggiungendovi la numerazione dei singoli capoversi per
semplificare i riferimenti. Faro' alcune osservazioni che sono correnti
nella cultura di pace intesa come nonviolenza attiva.
*
E' ben vero che la pace e' una qualita' delle persone (capoverso 1), ma non
meno e' una qualita' della relazione tra le persone. Ha radici interiori, ma
fiorisce nella relazione. Solo la pace interiore, la pace con se stessi, di
chi non e' intimamente scisso, e' una qualita' tutta personale, sebbene
anch'essa dipenda non poco dalla qualita' delle relazioni che si hanno o si
sono avute con gli altri, e si manifesti principalmente nella buona
relazione con gli altri.
La beatitudine evangelica non parla di persone "in pace", ma di coloro che
"fanno pace", operano per la pace, costruiscono pace: "eirenepoioi" (Matteo
5, 9). Riguarda direttamente la pace delle giuste relazioni sociali, non
principalmente la tranquillita' individuale (che, anzi, Gesu' e' venuto a
turbare).
L'odierna cultura di pace non e' cosi' ingenua e superficiale da affidarsi
solo agli strumenti giuridici e politici. Sa bene che la pace si radica
dentro la persona, nella educazione interiore, nella sanita' psicologica,
nella comunicazione aperta e rispettosa. Per tutto questo, la pace va vista
come una realta' allo stesso tempo personale e sociale. Il rapporto tra le
due dimensioni mi sembra debba essere visto come circolare, senza un prima e
un dopo. Ognuno dei due momenti nasce dall'altro e produce l'altro.
*
"L'uomo di pace semina la pace attorno a se'" (capoverso 2): questo e' un
fatto, ma non e' tutta la verita'. Una generosa ingenuita' delle persone
buone fa loro pensare che basti essere buoni perche' ci sia pace nelle
relazioni, nella societa'. Non basta. Persone buone in strutture cattive
fanno cose cattive. Un buon padrone di schiavi non odia e non maltratta i
suoi schiavi, ma, fin quando non li riconosce liberi come lui, mantiene la
struttura della schiavitu', che e' in se' un rapporto ingiusto, diseguale,
percio' una struttura violenta. Quel padrone e' buono, ma fa una cosa
cattiva. Un buon marito, ama e rispetta la moglie, ma, se la ritiene per
natura e diritto inferiore a se', e' un marito buono nelle azioni e violento
nelle idee. Ma le idee violente producono sempre, qua o la', fatti violenti.
La violenza non e' solo quella fisica, ma, piu' profondamente, quella
strutturale e, ancor piu', quella culturale. Vedere la radice culturale
(mentale, interiore) della violenza, non permette di perdere di vista le
concrezioni della violenza nelle strutture sociali e tradizionali, che
producono  violenza oggettiva degli atti. E viceversa: la bonta' dei singoli
atti e comportamenti, non deve far perdere di vista la violenza consolidata
in strutture e forme sociali ingiuste, giustificate da idee ingiuste e
violente. Bisogna che le persone spirituali, preziose per la pace, si
guardino dallo spiritualismo, che riduce la visione intera della realta'. Lo
spirito puo' essere forte, ma la carne - cioe' le forme sociali storiche -
possono essere deboli, scarse di giustizia, ingiuste. Altrimenti, ecco che i
potenti violenti onorano i discorsi spirituali di pace personale e privata e
continuano nella loro violenza pubblica.
*
Del pacifismo, l'Autore di questa pagina parla soprattutto con sospetto
(capoverso 3): puo' degenerare, tradire lo scopo della pace, diventare una
ideologia, voler vincere, farsi un potere violento. Eh! Sembra piu'
pericoloso della guerra! E' utile il pacifismo, dice Martino, diffonde
passione per la pace e educa alla pace, ma deve essere sempre "emendato",
cioe' ricondotto alla pace interiore. Ora, se un pacifismo e' coerente, se
cioe' non condanna solo alcune guerre, ma tutte, e' buona cosa. Sara' meno
credibile se non e' un'azione di persone giuste, e tuttavia chiede alla
politica una cosa giusta. Il suo limite e' di essere unicamente contro la
guerra, che e' solamente la forma piu' grossolana e vistosa di violenza, ma
non la piu' profonda e grave. Percio' la nonviolenza vale piu' del
pacifismo, perche' lo include ma lotta soprattutto contro le piu' profonde
violenze, strutturali e culturali, coi mezzi forti dell'umanita' e della
verita'.
*
"Testimone profetico della pace" (capoverso 4) e' il termine con cui questo
testo chiama, senza nominarli, i nonviolenti (citando il Concilio, Gaudium
et Spes 78). Sembra pero' che la loro ispirazione sia soltanto religiosa
cristiana, il che non e' giusto, perche' ci sono molti nonviolenti di altre
religioni, o senza religione, ma con forte sensibilita' umana. Scrive
Martino che "nella chiesa e' sempre esistito un atteggiamento decisivo e
audace che punta esclusivamente all'utilizzo di forme di difesa non
violenta".
Due osservazioni doverose: scrivendo "non violenta" in due parole staccate,
l'idea che si esprime e' negativa: difesa senza uso di mezzi violenti. Ma la
"nonviolenza" - che, per questa ragione, si scrive ormai correntemente negli
studi specifici in parola unica - e' idea e pratica positiva: dice la
resistenza e la lotta giusta con mezzi giusti (le molte tecniche e le regole
morali dell'azione nonviolenta), piu' profondamente forti ed efficaci della
violenza che vuole difendere alcuni con l'offendere e l'uccidere altri.
Seconda osservazione: e' vero che nella chiesa ci sono sempre state persone
individualmente nonviolente, ma non e' proprio vero che nella chiesa abbia
avuto consistenza e riconoscimento la nonviolenza come forma di difesa
collettiva; normalmente l'istituzione ecclesiale, fino ad oggi, assolve le
coscienze che obbediscono all'autorita' politica anche nel fare la guerra e,
fino al Concilio, condannava per superbia morale e presunzione chi facesse
obiezione di coscienza al dovere militare di uccidere. La dottrina morale
ufficiale non condannava ne' criticava le teorie e le pratiche politiche che
con tutta facilita' giustificavano le guerre. L'autorita' religiosa si e'
per lo piu' dimostrata piu' delicata coi potenti che con le coscienze dei
"testimoni profetici della pace". Molti di questi testimoni sono stati
lasciati soli o, peggio, condannati. Oggi l'autorita' ecclesiastica esorta i
potenti a non fare la guerra, ma non accompagna le coscienze pacifiche ad
opporre disobbedienza civile ai comandi di guerra. E' vero o non e' vero?
Questo non si puo' negare per amor di chiesa.
*
Nella giusta rivendicazione dell'azione degli ultimi papi per la pace
(capoverso 5; ma si doveva cominciare da Giovanni XXIII), la prima strana
preoccupazione di Martino e' difendere i papi - specialmente Giovanni Paolo
II - dalla qualifica di "pacifisti", per tre ragioni (proposte da Andrea
Riccardi).
La prima e' questa: ha sempre reso onore a chi e' morto per la patria, cioe'
ai militari. Vale a dire: non ha messo in discussione la difesa militare.
Chi muore militare, muore dopo aver ucciso, o perche' non e' riuscito ad
uccidere. Senza mancare di pieta', e senza giudicare le coscienze, bisogna
pure, nella ricerca della pace, giudicare l'uso del dare la morte per
comando politico. Che ne e' del comandamento di "non uccidere" in questa
sbrigativa assoluzione, attribuita a papa Wojtyla, dell'azione militare, per
timore di vederlo accomunato ai "pacifisti", cioe' appunto a coloro che,
credenti o non credenti in Dio, in nome del "non uccidere", vogliono che
anche nelle contese politiche si obbedisca a questa sua parola?
La seconda ragione per cui il papa non e' pacifista, secondo Riccardi e
Martino, e' che non ha mai condannato "a senso unico" le guerre, come se
tutti i pacifisti, per definizione, condannassero alcune guerre e non altre,
a loro comodo. Questo discorso non e' giusto ne' corretto.
La terza ragione e' che quel papa, tra i primi, ha ipotizzato nel 2000 forme
di intervento umanitario e di interposizione. Si puo' dire questo solo
ignorando, o volendo ignorare, per dare lustro indebito al papa, che tali
azioni sono ben precedenti, per iniziative dal basso del popolo della pace.
Papa Wojtyla ha veri meriti nella ricerca della pace e non merita che gli si
attribuiscano primati non suoi.
Ma c'e' una quarta ragione (ripresa dal capoverso 3): il pacifismo e'
soprattutto una cosa brutta, perche' non ha la "sapienza del realismo
cristiano", e perche' e' volonta' di imporre la pace (che sarebbe, ohibo',
impedire al proprio governo di fare la guerra), invece di attenderla come
dono di Dio e lasciarsene conquistare nell'intimo. Cosi' siamo di nuovo allo
spiritualismo iniziale, riduzione unilaterale della spiritualita' pacifica
staccata dall'azione civile e politica, che ne e' il sano frutto.
*
Siamo, cosi', alla figura del "pacificatore" (capoverso 6), o "operatore di
pace": e' colui che agisce in modo concreto e realistico nei conflitti
storici portando parole, atteggiamenti e soluzioni di pace. Confrontata col
pacifismo, mosso spesso da "ideologia" e "progetto politico" (e' forse un
male?), l'azione pacificatrice e' invece mossa dall'amore (perche', nel
pacifismo non c'e' amore?). Questa insistenza stucchevole a denigrare il
pacifismo (i nonviolenti ne criticano i limiti, ma non lo disprezzano) e a
prenderne accuratamente le distanze, costringe a sospettare che il
diplomatico ecclesiastico si preoccupi di non trovarsi tra i critici dei
governi dalle politiche bellicose. Aggiungo: stiamo attenti almeno al
linguaggio: il titolo di "pacificatore" spesso e' stato fatto proprio da
azioni militari che hanno violentemente represso moti popolari anche giusti.
"Pacificazione" e' nella storia per lo piu' il nome dato alla conquista, e
dunque quella "imposizione di pace" che Martino attribuisce invece
stranamente al pacifismo. Ricordiamo tutti Tacito: "Dove fanno un deserto lo
chiamano pace" (De vita et moribus Julii Agricolae, cap. 30). E ricordiamo
"L'ordine regna a Varsavia", detto alla Camera dal ministro degli esteri
francese dopo la durissima repressione russa, nel settembre 1831. Anche la
guerra statunitense in Vietnam ebbe il nome di "pacificazione".
*
L'Autore afferma semplicemente (capoverso 7) "il primato della pace intesa
come dono di Dio rispetto alla pace concepita come conquista dell'uomo" e
che "i primi pacificatori sono gli uomini di preghiera". La prima cosa, io
dico che si puo' pensare anche della salute fisica, ma non per questo vedo
meno necessaria la nostra cura attiva della salute. Dio ha messo il mondo
nella nostre mani, affidato alla nostra responsabilita': mentre crediamo e
invochiamo il suo aiuto interiore, dobbiamo gestire il mondo come se
dipendesse esclusivamente da noi. Io credo davvero nell'efficacia storica
della preghiera, che da' forza spirituale all'azione, eppure quando la
preghiera e' - come e' spesso - restituire a Dio il compito che egli ha dato
a noi, allora non e' con questa preghiera che si opera per la pace.
La Chiesa cattolica ha colpe storiche e meriti recenti riguardo alla pace.
Farebbe bene, per giustizia, a non rivendicare troppo e, sempre nella forma
propria delle sue funzioni e competenze, ad affiancarsi, senza paternalismi
ne' strumentalizzazioni, ma anche senza ingiusti sospetti, al movimento
mondiale per la pace, piuttosto che agli stati armati. Grazie a Dio, tanti
cristiani sono dentro quel movimento, attivi e pensanti, senza le
preoccupazioni anguste delle diplomazie istituzionali.

4. RIFLESSIONE. WISLAWA SZYMBORSKA: IL POETA E IL MONDO
[Dal sito de "Il porto ritrovato" (www.ilportoritrovato.net) riprendiamo il
discorso tenuto da Wislawa Szymborska il 7 dicembre 1996 in occasione del
conferimento del premio Nobel per la letteratura. Il testo e' estratto da
Wislawa Szymborska, Vista con granello di sabbia. Poesie 1957-1993, Adelphi,
Milano 1998. Wislawa Szymborska, poetessa, premio Nobel per la letteratura
1996, e' nata a Bnin, in Polonia, nel 1923; ha studiiato lettere e
sociologia a Cracovia, dove risiede; dal 1953 al 1981 collaboro' alla
rivista "Vita letteraria", nel 1980, sotto lo pseudonimo di Stancykowna,
alle riviste "Arka" e "Kultura"; ltre al Nobel ha ricevuto per la sua opera
poetica altri importanti riconoscimenti: nel 1954 il Premio per la
letteratura Citta' di Cracovia, nel 1963 il Premio del ministero della
cultura polacco, nel 1991 il Premio Goethe, nel 1995 il Premio Herder e la
Laurea ad honorem dell'Universita' di Poznan "Adam Mickiewicz", nel 1996 il
Premio "Pen - Book of the Month Club Translation Prize". Trale opere di
Wislawa Szymborska in edizione italiana: La fiera dei miracoli, Scheiwiller,
Milano 1994; Gente sul ponte, Scheiwiller, Milano 1996; La fine e l'inizio,
Scheiwiller, Milano 1997; Trittico: tre poesie di Wislawa Szymborska, tre
collage di Alina Kaczylska, Scheiwiller, Milano 1997; 25 poesie, Mondadori,
Milano 1998; Vista con granello di sabbia, Adelphi, Milano 1998; Taccuino
d'Amore, Scheiwiller, Milano 2002; Discorso all'Ufficio oggetti smarriti,
Adelphi, Milano 2004]

In un discorso, pare, la prima frase e' sempre la piu' difficile. E dunque
l'ho gia' alle mie spalle... Ma sento che anche le frasi successive saranno
difficili, la terza, la sesta, la decima, fino all'ultima, perche' devo
parlare della poesia. Su questo argomento mi sono pronunciata di rado, quasi
mai. E sempre accompagnata dalla convinzione di non farlo nel migliore dei
modi. Per questo il mio discorso non sara' troppo lungo. Ogni imperfezione
e' piu' facile da sopportare se la si serve a piccole dosi.
*
Il poeta odierno e' scettico e diffidente anche - e forse soprattutto - nei
confronti di se stesso. Malvolentieri dichiara in pubblico di essere poeta -
quasi se ne vergognasse un po'. Ma nella nostra epoca chiassosa e' molto
piu' facile ammettere i propri difetti, se si presentano bene, e molto piu'
difficile le proprie qualita', perche' sono piu' nascoste, e noi stessi non
ne siamo convinti fino in fondo...
In questionari o in conversazioni occasionali, quando il poeta deve
necessariamente definire la propria occupazione, egli indica in genere
"letterato" o nomina l'altro lavoro da lui svolto. La notizia di avere a che
fare con un poeta viene accolta dagli impiegati o dai passeggeri che sono
con lui sull'autobus con una leggera incredulita' e inquietudine, Suppongo
che anche un filosofo susciti un eguale imbarazzo. Egli si trova tuttavia in
una situazione migliore, perche' per lo piu' ha la possibilita' di abbellire
il proprio mestiere con un qualche titolo scientifico, professore di
filosofia - suona molto piu' serio.
Ma non ci sono professori di poesia. Se cosi' fosse, vorrebbe dire che si
tratta d'una occupazione che richiede studi specialistici, esami sostenuti
con regolarita', elaborati teorici arricchiti di bibliografia e rimandi, e
infine diplomi ricevuti con solennita'. E questo a sua volta significherebbe
che per diventare poeta non bastano fogli di carta, sia pure riempiti dei
versi piu' eccelsi, ma che e' necessario, e in primo luogo, un qualche
certificato con un timbro. Ricordiamoci che proprio su questa base venne
condannato al confino il poeta russo, poi premio Nobel, Iosif Brodskij. Fu
ritenuto un "parassita" perche' non aveva un certificato ufficiale che lo
autorizzasse ad essere poeta...
Anni fa ebbi l'onore e la gioia di conoscerlo di persona. Notai che a lui
solo, tra i poeti che conoscevo, piaceva dire di se' "poeta", pronunciava
questa parola senza resistenze interiori, perfino con una certa liberta'
provocatoria. Penso che cio' fosse dovuto alle brutali umiliazioni da lui
subite in gioventu'.
Nei paesi felici, dove la dignita' umana non viene violata con tanta
facilita', i poeti ovviamente desiderano essere pubblicati, letti e
compresi, ma non fanno molto, o comunque assai poco, per distinguersi
quotidianamente fra gli altri esseri umani. Ma fino a non molto tempo fa,
nei primi decenni del nostro secolo, ai poeti piaceva stupire con un
abbigliamento bizzarro e un comportamento eccentrico. Si trattava pero'
sempre di uno spettacolo destinato al pubblico. Arrivava il momento in cui
il poeta si chiudeva la porta alle spalle, si liberava di tutti quei
mantelli, orpelli e altri accessori poetici, e rimaneva in silenzio, in
attesa di se stesso, davanti a un foglio di carta ancora non scritto.
Perche', a dire il vero, solo questo conta.
*
E' significativo che si producano di continuo molti film sulla biografia di
grandi scienziati e grandi artisti. Registi di una qualche ambizione
intendono rappresentare in modo verosimile il processo creativo che ha
condotto a importanti scoperte scientifiche o alla nascita di famosissime
opere d'arte. E' possibile mostrare con un certo successo il lavoro di
taluni scienziati: laboratori, strumentazione varia, meccanismi attivati
riescono per un po' a catturare l'attenzione degli spettatori. Ci sono
inoltre momenti molto drammatici in cui non si sa se l'esperimento ripetuto
per la millesima volta, solo con una leggera modifica dara' finalmente il
risultato atteso. Possono essere spettacolari i film sui pittori - e'
possibile ricreare tutte le fasi della nascita di un quadro, dal tratto
iniziale fino all'ultimo tocco di pennello. I film sui compositori sono
riempiti dalla musica - dalle prime battute che l'artista sente in se', fino
alla partitura completa dell'opera. Tutto questo e' ancora ingenuo e non
dice nulla su quello strano stato d'animo popolarmente detto "ispirazione",
ma almeno c'e' di che guardare e di che ascoltare.
Le cose vanno assai peggio per i poeti. Il loro lavoro non e' per nulla
fotogenico. Una persona seduta al tavolino o sdraiata sul divano fissa con
lo sguardo immobile la parete o il soffitto, di tanto in tanto scrive sette
versi, dopo un quarto d'ora ne cancella uno, e passa un'altra ora in cui non
accade nulla... Quale spettatore riuscirebbe a reggere un simile spettacolo?
*
Ho menzionato l'ispirazione. Alla domanda su cosa essa sia, ammesso che
esista, i poeti contemporanei danno risposte evasive. Non perche' non
abbiano mai sentito il beneficio di tale impulso interiore. Il motivo e' un
altro. Non e' facile spiegare a qualcuno qualcosa che noi stessi non
capiamo.
Anch'io talvolta, di fronte a questa domanda, eludo la sostanza della cosa.
Ma rispondo cosi': l'ispirazione non e' un privilegio esclusivo dei poeti o
degli artisti in genere. C'e', c'e' stato e sempre ci sara' un gruppo di
individui visitati dall'ispirazione. Sono tutti quelli che coscientemente si
scelgono un lavoro e lo svolgono con passione e fantasia. Ci sono medici
siffatti, ci sono pedagoghi siffatti, ci sono giardinieri siffatti e ancora
un centinaio di altre professioni. Il loro lavoro puo' costituire
un'incessante avventura, se solo sanno scorgere in esso sfide sempre nuove.
Malgrado le difficolta' e le sconfitte, la loro curiosita' non viene meno.
Da ogni nuovo problema risolto scaturisce per loro un profluvio di nuovi
interrogativi. L'ispirazione, qualunque cosa sia, nasce da un incessante
"non so".
Di persone cosi' non ce ne sono molte. La maggioranza degli abitanti di
questa terra lavora per procurasi da vivere, lavora perche' deve. Non sono
essi a scegliersi il lavoro per passione, sono le circostanze della vita che
scelgono per loro. Un lavoro non amato, un lavoro che annoia, apprezzato
solo perche' comunque non a tutti accessibile, e' una delle piu' grandi
sventure umane. E nulla lascia presagire che i prossimi secoli apporteranno
in questo campo un qualche felice cambiamento.
Posso dire pertanto che se e' vero che tolgo ai poeti il monopolio
dell'ispirazione, li colloco comunque nel ristretto gruppo degli eletti
dalla sorte.
A questo punto possono sorgere dei dubbi in chi mi ascolta. Allora anche
carnefici, dittatori, fanatici, demagoghi in lotta per il potere con l'aiuto
di qualche slogan, purche' gridato forte, amano il proprio lavoro e lo
svolgono altresi' con zelante inventiva. D'accordo, loro "sanno". Sanno, e
cio' che sanno gli basta una volta per tutte. Non provano curiosita' per
nient'altro, perche' cio' potrebbe indebolire la forza dei loro argomenti. E
ogni sapere da cui non scaturiscono nuove domande, diventa in breve morto,
perde la temperatura che favorisce la vita. Nei casi piu' estremi, come ben
ci insegna la storia antica e contemporanea, puo' addirittura essere un
pericolo mortale per la societa'.
Per questo apprezzo tanto due piccole paroline: "non so". Piccole, ma alate.
Parole che estendono la nostra vita in territori che si trovano in noi
stessi e in territori in cui e' sospesa la nostra minuta Terra. Se Isaak
Newton non si fosse detto "non so", le mele nel giardino sarebbero potute
cadere davanti ai suoi occhi come grandine e lui, nel migliore dei casi, si
sarebbe chinato a raccoglierle, mangiandole con gusto. Se la mia
connazionale Maria Sklodowska Curie non si fosse detta "non so" sarebbe
sicuramente diventata insegnante di chimica per un convitto di signorine di
buona famiglia, e avrebbe trascorso la vita svolgendo questa attivita',
peraltro onesta. Ma si ripeteva "non so" e proprio queste parole la
condussero, e per due volte, a Stoccolma, dove vengono insignite del premio
Nobel le persone di animo inquieto ed eternamente alla ricerca.
Anche il poeta, se e' vero poeta, deve ripetere di continuo a se stesso "non
so". Con ogni sua opera cerca di dare una risposta, ma non appena ha finito
di scrivere gia' lo invade il dubbio e comincia a rendersi conto che si
tratta d'una risposta provvisoria e del tutto insufficiente. Percio' prova
ancora una volta e un'altra ancora, finche' gli storici della letteratura
non legheranno insieme le prove della sua insoddisfazione di se',
chiamandole "patrimonio artistico"...
*
Mi capita di sognare situazioni irrealizzabili. Nella mia temerarieta'
immagino ad esempio di avere l'occasione di conversare con l'Ecclesiaste,
autore di un lamento quanto mai profondo sulla vanita' di ogni agire umano.
Mi inchinerei profondamente di fronte a lui, perche' si tratta - almeno per
me - di uno dei poeti piu' importanti. E poi gli prenderei la mano. "Nulla
di nuovo sotto il sole" hai scritto, Ecclesiaste. Pero' Tu stesso sei nato
nuovo sotto il sole. E il poema di cui sei autore e' anch'esso nuovo sotto
il sole, perche' prima di Te non lo ha scritto nessuno. E nuovi sotto il
sole sono tutti i Tuoi lettori, perche' quelli che sono vissuti prima di Te,
dopotutto non hanno potuto leggerlo. Anche il cipresso, alla cui ombra stavi
 seduto, non cresce qui dall'inizio del mondo. Gli ha dato inizio un qualche
altro cipresso, simile al Tuo, ma non proprio lo stesso. E inoltre vorrei
chiederti, o Ecclesiaste, che cosa intendi scrivere, adesso, di nuovo sotto
il sole. Qualcosa con cui contemplerai ancora i Tuoi pensieri, o non sei
forse tentato di smentirne qualcuno? Nel Tuo poema precedente hai intravisto
la gioia - che importa se passeggera? Forse dunque e' di essa che parlera'
il Tuo nuovo poema sotto il sole? Hai gia' degli appunti, degli schizzi
iniziali? Non credo che dirai: "Ho scritto tutto, non ho nulla da
aggiungere". Nessun poeta al mondo puo' dirlo, figuriamoci uno grande come
Te.
Il mondo, qualunque cosa noi ne pensiamo, spaventati dalla sua immensita' e
dalla nostra impotenza di fronte ad esso, amareggiati dalla sua indifferenza
alle sofferenze individuali (di uomini, animali, e forse piante, perche' chi
ci da' la certezza che le piante siano esenti dalla sofferenza?), qualunque
cosa noi pensiamo dei suoi spazi trapassati dalle radiazioni delle stelle,
stelle intorno a cui si sono gia' cominciati a scoprire pianeti (gia' morti?
Ancora morti?), qualunque cosa pensiamo di questo smisurato teatro, per cui
abbiamo si' il biglietto d'ingresso, ma con una validita' ridicolmente
breve, limitata dalle due date categoriche, qualunque cosa ancora noi
pensassimo di questo mondo - esso e' stupefacente.
Ma nella definizione "stupefacente" si cela una sorta di tranello logico.
Dopotutto ci stupisce cio' che si discosta da una qualche norma nota e
generalmente accettata, da una qualche ovvieta' a cui siamo abituati.
Ebbene, un simile mondo ovvio non esiste affatto. Il nostro stupore esiste
per se stesso e non deriva da nessun paragone con alcunche'.
D'accordo, nel parlare comune, che non riflette su ogni parola, tutti usiamo
i termini: "mondo normale", vita normale, normale corso delle cose...
Tuttavia nel linguaggio della poesia, in cui ogni parola ha un peso, non
c'e' piu' nulla di ordinario e normale. Nessuna pietra e nessuna nuvola su
di essa. Nessun giorno e nessuna notte che lo segue. E soprattutto nessuna
esistenza di nessuno in questo mondo.
A quanto pare i poeti avranno sempre molto da fare.

5. INCONTRI. UN INCONTRO CON CINDY SHEEHAN A ROMA IL 18 GENNAIO
[Da varie persone amiche riceviamo e diffondiamo]

In occasione del viaggio in Italia di Cindy Sheehan, portavoce di "Gold Star
families for Peace", simbolo del movimento Usa dei familiari dei caduti per
la cessazione della guerra e il ritiro immediato delle truppe dall'Iraq la
Provincia di Roma promuove un incontro pubblico con Cindy Sheehan mercoledi'
18 gennaio 2006, alle ore 12-14, a Palazzo Valentini, nella sala della pace
" Giorgio La Pira", via IV Novembre 119/A a Roma.
Cindy Sheehan ha 48 anni ed e' madre di quattro figli. Suo figlio maggiore,
Casey, e' stato ucciso in Iraq il 4 aprile 2004. Da allora sta viaggiando
negli Stati Uniti per denunciare l'illegalita' e l'immoralita'
dell'occupazione dell'Iraq. Durante l'estate del 2005 si e' accampata
davanti alla residenza estiva di Bush in Texas e ha aspettato per piu' di un
mese di essere ricevuta dal presidente; l'estate calda del movimento
pacifista si e' conclusa con la manifestazione di Washington del 24
settembre, la piu' grande dalla guerra del Vietnam. E' stata definita dalla
stampa statunitense la "mamma della pace". Nel gennaio 2005 ha fondato "Gold
Star Families for Peace", un'organizzazione composta dalle famiglie che
hanno perso persone care in guerra, il cui obiettivo principale e' il ritiro
delle truppe per evitare che altre famiglie debbano soffrire come loro.

6. INCONTRI. DUE INCONTRI CON CINDY SHEEHAN E ALICE MAHON A TORINO IL 19 E
20 GENNAIO
[Da varie persone amiche riceviamo e diffondiamo]

Giovedi' 19 gennaio, presso la Camera del Lavoro di Torino, salone "Pia
Lai", in via Pedrotti 5, alle ore 20,30 si terra' un incontro pubblico sul
tema: "Iraq, una tragedia senza fine".
Programma:
- Proiezione del video "Fallujah la strage nascosta" di Sigfrido Ranucci
(Rai news 24).
- Testimonianza di Cindy Sheehan (Cindy Sheehan ha perso il figlio Casey
nella guerra in Iraq; per tutto il mese di agosto e' stata accampata a
Crawford, fuori dal ranch in cui George Bush stava trascorrendo le vacanze,
con l'intenzione di chiedergli per quale "grande causa" e' morto suo figlio,
e chiedergliene conto. Intorno alla sua figura e alla sua testimonianza si
e' risvegliato negli Stati Uniti un ampio movimento contro la guerra).
- Testimonianza di Alice Mahon (la parlamentare inglese Alice Mahon, del
Labour Party, aveva presentato numerose interrogazioni al ministro della
difesa inglese, chiedendo se corrispondesse al vero la notizia dell'uso del
napalm o di agenti chimici da parte degli Stati Uniti in Iraq. Il ministero
aveva sempre negato, fino a quando, il 13 giugno del 2005, con stile
tipicamente inglese, chiede ufficialmente scusa di aver risposto il falso e
ammette l'uso dell'mk77, l'ordigno incendiario che ha gli stessi effetti del
napalm. Alice Mahon esce dal parlamento perche' non vuole far parte di una
coalizione che copre i crimini di guerra).
- Intervento di Maria Grazia Turri, dell'associazione "Un ponte per...".
- Intervento di Ugo Mattei, docente di diritto anglosassone dell'Universita'
di Torino.
*
Per chi non potesse partecipare alla serata di giovedi' 19 gennaio sara'
possibile ascoltare le testimonianze di Cindy Sheehan e di Alice Mahon il
giorno venerdi' 20 gennaio alle ore 14,30 al Politecnico di Torino, nella
sala del Consiglio di Facolta', corso Duca degli Abruzzi 24.

7. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.

8. PER SAPERNE DI PIU'
* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per
contatti: azionenonviolenta at sis.it
* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia:
www.peacelink.it/users/mir; per contatti: mir at peacelink.it,
luciano.benini at tin.it, sudest at iol.it, paolocand at libero.it
* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per
contatti: info at peacelink.it

LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 1176 del 15 gennaio 2006

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