La domenica della nonviolenza. 55



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LA DOMENICA DELLA NONVIOLENZA
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Supplemento domenicale de "La nonviolenza e' in cammino"
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it
Numero 55 dell'8 gennaio 2006

In questo numero:
1. Barbara Bellini Benini: Mi abbono ad "Azione nonviolenta" perche'...
2. Una voce. Nonviolenta
3. Cindy Sheehan: L'apatia e' complicita'
4. Howard Zinn: Dopo la guerra
5. Brunetto Salvarani: Un Decalogo per il dialogo
6. Giuliana Sgrena: La banlieue laica parla femminile
7. Angela Giuffrida: La razionalita' maschile che uccide le donne
8. Letture: Michele Meomartino, Frammenti di pace

1. STRUMENTI DI LAVORO. BARBARA BELLINI BENINI: MI ABBONO AD "AZIONE
NONVIOLENTA" PERCHE'...
[Ringraziamo Barbara Bellini Benini (per contatti:
barbara.bellini4 at virgilio.it) per questo intervento. Barbara Bellini Benini
e' impegnata nei movimenti nonviolenti ed in particolare nel Mir di Fano; ha
preso parte a varie esperienze di promozione del dialogo e della
solidarieta']

Mi abbono ad "Azione nonviolenta",
1. perche' ci consente di ricevere una rivista come poche, che tratta
tematiche solitamente ignorate nelle testate correnti piu' diffuse;
2. perche' possiamo lasciare la rivista in giro per casa, senza vergognarci
del contenuto (credetemi, non e' poco di questi tempi);
3. perche' lasciando il giornale in giro per casa coltiviamo la speranza che
i nostri figli si incuriosiscano sempre piu', magari arrivando perfino a
leggerla (sapete bene che i maggiori contestatori sono sempre i figli...);
4. infine perche' e' un ottimo strumento educativo per coloro che sono
interessati a promuovere la nonviolenza e la sua conoscenza in incontri
pubblici e dibattiti.

2. STRUMENTI DI LAVORO. UNA VOCE. NONVIOLENTA
"Azione nonviolenta" e' la rivista mensile del Movimento Nonviolento fondata
da Aldo Capitini nel 1964, e costituisce un punto di riferimento per tutte
le persone amiche della nonviolenza.
La sede della redazione e' in via Spagna 8, 37123 Verona, tel. 0458009803,
fax: 0458009212, e-mail: azionenonviolenta at sis.it, sito: www.nonviolenti.org
L'abbonamento annuo e' di 29 euro da versare sul conto corrente postale n.
10250363, oppure tramite bonifico bancario o assegno al conto corrente
bancario n. 18745455 presso BancoPosta, succursale 7, agenzia di Piazza
Bacanal, Verona, ABI 07601, CAB 11700, intestato ad "Azione nonviolenta",
via Spagna 8, 37123 Verona, specificando nella causale: abbonamento ad
"Azione nonviolenta".

3. TESTIMONIANZE. CINDY SHEEHAN: L'APATIA E' COMPLICITA'
[Ringraziamo Maria G. Di Rienzo (per contatti: sheela59 at libero.it) per
averci messo a disposizione nella sua traduzione il seguente intervento di
Cindy Sheehan. Cindy Sheehan ha perso il figlio Casey nella guerra in Iraq;
per tutto il mese di agosto e' stata accampata a Crawford, fuori dal ranch
in cui George Bush stava trascorrendo le vacanze, con l'intenzione di
parlargli per chiedergli conto della morte di suo figlio; intorno alla sua
figura e alla sua testimonianza si e' risvegliato negli Stati Uniti un ampio
movimento contro la guerra; e' stato recentemente pubblicato il suo libro
Not One More Mother's Child (Non un altro figlio di madre), disponibile nel
sito www.koabooks.com]

"L'apatia della gente e' sufficiente a far si' che ogni statua salti via dal
piedistallo e ad affrettare la fine del mondo" (William Lloyd Garrison)

L'apatia di gran parte dell'America mi sorprende e mi sconcerta. Quanto ho
trovato la citazione sopra riportata, mi sono meravigliata che in America ci
sia ancora una statua sul piedistallo o una tomba ancora occupata. Il 26
ottobre 2005, mentre MoveOn.org teneva fiaccolate in tutto il paese per
lamentare la morte del duemillesimo soldato americano in Iraq, io ed altre
due dozzine di persone siamo state arrestate davanti alla Casa Bianca per
aver dimostrato contro la carneficina compiuta in nostro nome dai suoi
illegali inquilini. Ora, aggiungendo gli undici soldati che sono morti nella
guerra insensata di George Bush al terrorismo in Medio Oriente, la conta
ufficiale dei nostri morti sale a 2.193. Duecento ulteriori famiglie
rovinate in meno di tre mesi.
Mio figlio Casey era nei primi mille uccisi in Iraq. Abbiamo raggiunto
questo livello nel settembre 2004. MoveOn.org organizzo' veglie in
quell'occasione. Solo un breve anno piu' tardi, MoveOn.org organizza
fiaccolate per commemorare il duemillesimo soldato. Se non usciamo dalla
nostra apatia collettiva, quando si terra' la prossima fiaccolata? George
Bush e i neocons stanno uccidendo i nostri preziosi figli al tasso di 2,78
al giorno. Secondo i miei calcoli, ci dovremmo trovare ad accendere di nuovo
candele nel prossimo ottobre.
Sia chiaro che MoveOn.org fa un lavoro eccellente, e che e' stata
un'organizzazione di grande sostegno a Camp Casey. Quello che voglio dire e'
questo, America: piu' permettiamo all'illegittimo occupante della Casa
Bianca ed alla sua cinica gang di continuare, piu' la nostra umanita' ne
viene danneggiata. Apparentemente, le fiaccolate sembrano non fare molto per
fermare, o rallentare un po', il massacro compiuto da i criminali di guerra
di Washington.
Poi ci sono gli sfortunati innocenti dell'Iraq. Ho sentito le notizie che
davano a circa 200 il numero dei morti di ieri [il 5 gennaio 2006 - ndt]. Se
200 vengono stimati, ci si chiede quale fosse il conto reale.
Bill O'Reilly e George Bush definiscono "terrorista" qualcuno che "uccide
uomini, donne e bambini innocenti". Chi pensano venga ucciso, in Iraq, Bill
e George? Membri di un esercito ben addestrato e organizzato? Terroristi?
Sappiamo tutti che e' falso. Ve lo dico io chi viene ucciso in Iraq: esseri
viventi che respirano, identici agli americani o a qualunque altro essere
umano sulla Terra, esseri che stanno solo tentando di vivere le loro vite,
di sopravvivere in un paese devastato dalla guerra, un paese che non poneva
alcuna minaccia all'America o al nostro stile di vita.
"Direi che sono morti piu' o meno in 30.000, come risultato dell'incursione
iniziale e poi della continua violenza contro gli iracheni", disse Bush il
12 dicembre 2005. Anche se si accettasse questo numero ampiamente
sottostimato, le sue politiche sono responsabili di dieci volte i 3.000
morti dell'11 settembre 2001. Per sua stessa ammissione, egli e' dieci volte
il terrorista che fu Osama. E se George dice 30.000, va' a sapere qual e' la
vera cifra. A me riempie di dolore, mi fa male il cuore solo a guardarlo,
questo numero.
*
America, questo e' quello che tu stai permettendo al tuo governo di fare a
nome tuo:
Detenzione e tortura di prigionieri senza processo.
Uso di armi chimiche su altri membri dell'umanita'.
Spionaggio degli americani senza mandato giudiziario (spero che le mie
conversazioni telefoniche li annoino a morte).
Bombardamenti a tappeto di citta' piene di esseri umani come voi.
Distruzione delle infrastrutture delle citta' statunitensi.
Taglio delle tasse ai ricchi mentre si getta denaro e sangue alle sabbie
assetate del Medio Oriente.
Il bilancio del nostro Tesoro decimato.
La devastazione dell'ambiente.
Eccetera, eccetera, fino alla nausea.
Hillary Clinton mi ha detto che "le ruote del governo si inceppano
lentamente". Questo e' un abusato cliche', ed un blaterare inaccettabile,
quando la macchina della guerra sta triturando le ossa dei nostri figli. E'
tempo che noi americani del tutto consapevoli si forzino i nostri
rappresentanti eletti a velocizzare il ritiro dall'Iraq.
Se sento un'altra cantata di "We shall overcome" ("Noi vinceremo"), e poi
vedo i dimostranti andarsene a casa ad aprire una lattina di birra davanti
alla tv, ben contenti di aver fatto qualcosa per la pace, giuro che urlo.
Non vinceremo un bel niente fino a che non prenderemo il proverbiale toro
per le corna.
Le veglie e le marce fatele in posti rilevanti: davanti agli uffici dei
deputati favorevoli alla guerra, per esempio. Molti di essi si sono
ricreduti. O di fronte ad un centro di reclutamento. O ad un palazzo
federale. O ad una base militare. Poi, invece di andarvene a casa ad aprire
la lattina o stappare la bottiglia, sedetevi per terra e dite: "Non ce ne
andiamo fino a che non chiederete la fine immediata dell'occupazione in
Iraq". Mettetevi in gioco per l'umanita'. Il cambiamento non avviene fino a
che non lo facciamo avvenire. Non possiamo cambiare nulla soltanto sperando
o pregando che cambi. In effetti, bisogna fare qualcosa.

4. RIFLESSIONE. HOWARD ZINN: DOPO LA GUERRA
[Ringraziamo Nanni Salio, Enrico Peyretti e Maria G. Di Rienzo per averci
messo a  disposizione (nella traduzione di quest'ultima) il seguente
articolo di Howard Zinn, apparso col titolo After the War su "The
Progressive" (http://progressive.org). Howard Zinn, nato nel 1922, storico,
docente universitario, saggista, e' una delle voci piu' influenti del
movimento pacifista statunitense e uno dei piu' importanti storici radicali
statunitensi; dopo aver partecipato alla seconda guerra mondiale, ha
conseguito il dottorato in storia alla Columbia University e ha diretto il
dipartimento di Storia dello Spelman College; le sue numerose pubblicazioni
e l'impegno politico hanno fatto di lui uno dei nomi di riferimento del
pacifismo negli Stati Uniti e gli sono valsi vari riconoscimenti, tra cui lo
"Eugene V. Debs Award" nel 1998; attualmente e' professore emerito di
scienza politica alla Boston University. Tra le opere di Howard Zinn: Marx a
Soho, Editori Riuniti, Roma 2001 (e' una piece teatrale); Non in nostro
nome, Il Saggiatore, Milano 2003; Disobbedienza e democrazia, Il Saggiatore,
Milano 2003; Storia del popolo americano, Il Saggiatore, Milano 2005]

La guerra contro l'Iraq, l'assalto alla sua popolazione, l'occupazione delle
sue citta', giungeranno alla fine, presto o tardi. Il processo ha gia' avuto
inizio. I primi segni di ammutinamento stanno apparendo nel Congresso. I
primi editoriali che chiedono il ritiro dall'Iraq stanno cominciando ad
apparire sulla stampa. Il movimento contro la guerra e' cresciuto,
lentamente ma con costanza, in tutto il paese. I sondaggi sull'opinione
pubblica ora mostrano un paese decisamente contrario alla guerra ed
all'amministrazione Bush. Dure realta' sono diventate visibili. Le truppe
devono tornare a casa.
E mentre lavoriamo con crescente determinazione affinche' questo accada, non
dovremmo spingere il pensiero oltre questa guerra? Non dovremmo cominciare a
riflettere, anche prima che questa guerra vergognosa sia terminata, sul
mettere fine alla nostra assuefazione massiccia alla violenza, ed invece
usare l'enorme ricchezza del nostro paese per i bisogni umani? E cioe', non
dovremmo cominciare a parlare di come mettere fine alla guerra, non solo a
questa guerra o quella guerra, ma alla guerra in se'?
Un gruppo di personaggi conosciuti a livello internazionale, e apprezzati
sia per il loro talento che per il loro impegno a favore dei diritti umani
(Gino Strada, Paul Farmer, Kurt Vonnegut, Nadine Gordimer, Eduardo Galeano,
ed altri), lanceranno presto una campagna mondiale per raccogliere dieci
milioni di adesioni personali a un movimento di rinuncia alla guerra,
sperando di raggiungere il punto in cui i governi, dovendo fronteggiare la
resistenza popolare, trovino difficile o impossibile muovere guerra.
*
C'e' una critica persistente a questa possibilita', che ho udito da persone
provenienti da tutte le aree del panorama politico: secondo cui non ci
libereremo mai dalla guerra, perche' essa viene dalla natura umana.
La confutazione piu' stringente di questa affermazione e' data dalla storia.
Non troveremo mai persone che spontaneamente si affannano a far guerra ad
altre. Cio' che troveremo, invece, e' che i governi devono compiere i piu'
strenui sforzi per mobilitare i popoli alla guerra. Devono allettare i
soldati con promesse di denaro, istruzione; devono mostrare a persone
giovani, le cui opportunita' nella vita appaiono essere assai povere, che
qui c'e' la possibilit? di ottenere rispetto e status sociale. E se questi
allettamente non funzionano, i governi devono usare la coercizione: devono
arruolare i giovani in leve, forzarli al servizio militare, minacciarli con
la prigione se non accettano. Inoltre, i governi devono persuadere i giovani
e le loro famiglie che, sebbene il soldato possa morire, sebbene lui o lei
possa perdere braccia o gambe, o diventare cieco, tutto cio' e' per una
nobile causa, per Dio, per il paese.
Dando uno sguardo all'infinita serie di guerra di questo secolo, non
troverete una domanda pubblica di guerra, ma invece una resistenza ad essa,
fino a che i cittadini non sono bombardati da appelli allettanti, non da un
istinto assassino, ma dal desiderio di fare del bene, di diffondere la
democrazia o la liberta', o di rovesciare un tiranno.
Woodrow Wilson si trovo' con una cittadinanza cosi' riluttante ad entrare
nella prima guerra mondiale, che dovette prendere a pugni la nazione con la
propaganda e la carcerazione dei dissidenti per poter indurre il paese ad
unirsi al macello in corso in Europa.
Durante la seconda guerra mondiale, c'era invero un forte imperativo morale,
che ancora risuona fra la gente in questo paese, e che mantiene la
reputazione di "guerra giusta" alla seconda guerra mondiale. C'era la
necessita' di sconfiggere la mostruosita' del fascismo.
Fu questo convincimento che mi condusse ad arruolarmi nella Air Force, ed a
compiere missioni di bombardamento aereo sull'Europa. Solo dopo la guerra
cominciai a mettere in questione la purezza della crociata morale. Lanciando
bombe dall'altezza di cinque miglia, io non vidi esseri umani, non udii
grida, non vidi bambini smembrati. Ma ora dovevo riflettere su Hiroshima e
Nagasaki, sui bombardamenti di Tokyo e Dresda, sulla morte di 600.000 civili
in Giappone, e di un numero simile in Germania.
Arrivai ad una conclusione per quanto riguardava la psicologia mia e degli
altri combattenti: una volta presa la decisione, all'inizio, che il nostro
partito era quello dei buoni, e che i cattivi stavano dall'altra parte, una
volta fatto questo calcolo semplice e semplicistico, noi non abbiamo piu'
dovuto pensare. Potevamo commettere crimini indicibili, ed era tutto giusto.
Cominciai a riflettere sulle motivazioni dei poteri occidentali e della
Russia stalinista, e mi chiedevo se si erano preoccupati piu' del fascismo o
di mantenere i loro imperi, il loro proprio potere, e se fu per questo che
avevano priorita' militari piu' importanti del bombardare le linee
ferroviarie che conducevano ad Auschwitz. Sei milioni di ebrei furono uccisi
nei campi di sterminio (o fu anche permesso che fossero uccisi?). Solo
60.000 di essi furono salvati dalla guerra, l'uno per cento. Un fuciliere di
un'altra compagnia, uno studioso di storia di cui divenni amico, mi disse un
giorno: "Lo sai bene che questa e' una guerra imperialista. I fascisti sono
malvagi. Ma i nostri non sono molto meglio". Non potei accettare il suo
ragionamento, allora, ma mi rimase in memoria.
La guerra, compresi, crea insidiosamente una comune morale per tutte le
parti in causa. Avvelena tutti coloro che vi si impegnano, per quanto
differenti siano in vari modi, e li trasforma in assassini e torturatori,
come stiamo vedendo al giorno d'oggi. Pretende di aver a che fare con la
rimozione dei tiranni, ed in effetti e' cosi', ma la gente che uccide sono
le vittime dei tiranni. Sembra ripulire il mondo dal male, ma e' una
situazione che non dura, perche' la stessa natura della guerra diffonde piu'
male. La guerra, come in generale la violenza, conclusi, e' una droga. Ti
da' un'esaltazione veloce, l'eccitazione della vittoria, ma poi si consuma,
e allora appare la disperazione.
Io accetto la possibilita' di interventi umanitari per prevenire atrocita',
come in Ruanda. Ma alla guerra, definita come l'uccisione indiscriminata di
un grande numero di persone, si deve resistere.
*
Qualunque cosa si possa dire sulla seconda guerra mondiale, comprendendo la
sua complessita', le situazioni che seguirono (Corea, Vietnam) furono cosi'
distanti dalla minaccia che la Germania ed il Giappone avevano posto al
mondo, che tali guerre poterono essere giustificate solo trascinandole nello
splendore della "guerra giusta". L'isteria rispetto al comunismo porto' al
maccartismo in casa ed agli interventi militari in Asia ed America Latina,
apertamente e segretamente, che furono giustificati con la "minaccia
sovietica", esagerata abbastanza per mobilitare la gente alla guerra.
Il Vietnam, tuttavia, si rivelo' un'esperienza che porto' alla moderazione,
in cui l'opinione pubblica americana, lungo un periodo di molti anni,
comincio' a vedere attraverso le menzogne che erano state dette per
giustificare tutto quello spargimento di sangue. Gli Usa furono costretti a
ritirarsi dal Vietnam, e il mondo non fini'. La meta' di quel piccolo paese
nel sudest asiatico ora e' unita all'altra meta' comunista, e le vite di
58.000 americani e di milioni di vietnamiti sono state gettate via
insensatamente per evitare quello che poi e' invece accaduto.
La maggioranza degli americani giunse ad opporsi a quella guerra, che
provoco' la nascita del piu' grande movimento contro la guerra nella storia
della nazione. La guerra in Vietnam termino' con un'opinione pubblica
disgustata dalla guerra. Io credo che il popolo americano, una volta che la
nebbia della propaganda si era dissolta, torno' ad uno stato piu' naturale.
I sondaggi mostrarono che la gente degli Usa si opponeva all'invio di truppe
ovunque nel mondo, e per qualsivoglia ragione. L'establishement ne fu
allarmato. Il goerno programmo' deliberatamente di sconfiggere quella che
chiamava "la sindrome del Vietnam". L'opposizione all'intervento militare
all'estero era dunque una "malattia" che andava curato. E percio' si
lagnarono con l'opinione pubblica della sua attitudine non sana, strinsero
il controllo sull'informazione, evitarono le azioni belliche che implicavano
evidenti occupazioni militari in prima persona prolungate, e si impegnarono
in brevi e veloci guerre contro oppositori deboli (Grenada, Panama, Iraq),
che non davano all'opinione pubblica il tempo di sviluppare un movimento
contro la guerra.
Mi vien da dire che la fine della guerra in Vietnam permise agli americani
di scuotersi dalla "sindrome di guerra", una malattia non naturale del corpo
umano. Ma poterono essere infettati di nuovo, e l'11 settembre diede al
governo tale opportunita'. Il terrorismo divenne la giustificazione per la
guerra, ma la guerra stessa e' terrorismo, e genera rabbia ed odio, come
stiamo vedendo ora.
*
La guerra in Iraq ha rivelato l'ipocrisia della "guerra al terrorismo". Ed
il governo degli Usa, e invero i governi ovunque, si stanno rivelando come
non degni di fiducia, cioe' non si puo' affidare loro la sicurezza degli
esseri umani, o la sicurezza del pianeta, o la salvaguardia dell'aria,
dell'acqua, delle ricchezze naturali, non si puo' affidar loro la cura della
poverta' e della malattia, o la gestione dell'allarmante crescita di
disastri naturali che affliggono cosi' tanta parte dei sei miliardi di
abitanti della Terra.
Io non credo che il nostro governo sara' capaca di fare di piu' di cio' che
venne fatto dopo il Vietnam, preparare la popolazione per un'altra
immersione nella violenza e nel disonore.
Mi sembra che quando la guerra in Iraq finira', e si sara' guariti dalla
sindrome di guerra, ci sara' una grande opportunita' di rendere la
guarigione permanente. La mia speranza e' che il ricordo della morte e della
disgrazia sia cosi' intenso che la gente degli Usa sara' capace di ascoltare
un messaggio che il resto del mondo, reso sobrio da guerre senza fine, puo'
allo stesso modo capire: e' la guerra stessa il nemico della razza umana. I
governi resisteranno a tale messaggio. Ma il loro potere dipende
dall'obbedienza dei cittadini. Quando essa e' ritirata, i governi sono
impotenti. Questo si e' visto piu' e piu' volte nella storia.
L'abolizione della guerra e' diventata non solo desiderabile, ma
assolutamente necessaria se il pianeta dev'essere salvato.
E' un'idea il cui tempo e' venuto.

5. ESPERIENZE. BRUNETTO SALVARANI: UN DECALOGO PER IL DIALOGO
[Ringraziamo Brunetto Salvarani (per contatti: brunetto at carpinet.biz) per
averci messo a disposizione questo suo intervento uscito sul numero 1 del
2006 del sempre appassionante periodico di rifllessione teologica e
pastorale cattolica "Settimana", utile per contestualizzare la prossima
Giornata del dialogo ebraico-cristiano. Brunetto Salvarani, teologo ed
educatore, da tempo si occupa di dialogo ecumenico e interreligioso, avendo
fondato nel 1985 la rivista di studi ebraico-cristiani "Qol"; ha diretto dal
1987 al 1995 il Centro studi religiosi della Fondazione San Carlo di Modena;
saggista, scrittore e giornalista pubblicista, collabora con varie testate,
dirige "Cem-Mondialita'", fa parte del Comitato "Bibbia cultura scuola", che
si propone di favorire la presenza del testo sacro alla tradizione
ebraico-cristiana nel curriculum delle nostre istituzioni scolastiche; e'
direttore della "Fondazione ex campo Fossoli", vicepresidente
dell'Associazione italiana degli "Amici di Neve' Shalom - Waahat as-Salaam",
il "villaggio della pace" fondato in Israele da padre Bruno Hussar; e' tra i
promotori dell'appello per la giornata del dialogo cristiano-islamico. Ha
pubblicato vari libri presso gli editori Morcelliana, Emi, Tempi di
Fraternita', Marietti, Paoline]

Nata nel 1989 per un'intuizione felice della Commissione per l'ecumenismo e
il dialogo della Cei e svoltasi per la prima volta nel 1990, la Giornata per
l'approfondimento e lo sviluppo del dialogo religioso ebraico-cristiano si
tiene, com'e' noto, il 17 gennaio di ogni anno. Una collocazione che ha un
forte significato simbolico, perche' avviene immediatamente prima della
tradizionale Settimana di preghiera per l'unita' dei cristiani (18-25
gennaio), con la doppia, evidente intenzione di sottolineare sia la
priorita' dell'incontro con Israele, radice santa della fede cristiana
rispetto a qualsiasi pur rilevante sforzo ecumenico, sia l'impossibilita'
che quest'ultimo possa produrre risultati concreti di un certo livello senza
un rinnovato impegno a porsi alla scuola di Israele.
La Giornata, infatti, e' stata istituita al fine di avere un'occasione in
piu' per studiare il legame intrinseco tra chiesa ed ebraismo, poiche'
"cristiani ed ebrei, pur non identificandosi, non si escludono ne' si
oppongono, ma sono legati al livello stesso della loro identita'" (Giovanni
Paolo II, 6 marzo 1982). Tra i tanti suoi possibili contenuti, ci sono il
giusto legame tra Antico, o Primo, Testamento e Nuovo Testamento (Antico
Testamento non significa ne' scaduto, ne' sorpassato, ma permanente quale
sorgente di rivelazione); la permanente ebraicita' di Gesu' e della chiesa
primitiva (Gesu' e la sua predicazione non devono essere presentati ne'
fuori dall'ebraismo, ne' contro l'ebraismo, ma dentro l'ebraismo); la
corretta interpretazione di alcuni brani neotestamentari, della Settimana
Santa e del Venerdi' Santo (la morte di Gesu' non puo' essere attribuita ne'
indistintamente a tutti gli ebrei allora viventi ne' tanto meno agli ebrei
del nostro tempo); i rapporti strettissimi tra liturgia ebraica e cristiana
(a cominciare dalla relazione fra la beraka', la benedizione, e la stessa
eucaristia); il valore permanente del popolo d'Israele (per cui bisognerebbe
abbandonare la concezione purtroppo reiterata del popolo punito, conservato
come argomento vivente per l'apologetica cristiana: esso resta il popolo
prescelto da Dio); e cosi' via.
*
Un ritardo che pesa
Ancora. Ai fini di una sua fruttuosa celebrazione, andra' ricordato, una
volta di piu', che lo scopo di questa Giornata non e' di pregare per gli
ebrei, ma di iniziare i cristiani al rispetto, al dialogo ed alla conoscenza
della tradizione ebraica, in sintonia con la svolta del Vaticano II, dopo
secoli di persecuzioni ed incomprensioni. "Un ritardo che ci deve pesare
molto... e' il non aver considerato vitale la nostra relazione con il popolo
ebraico... - ha scritto il cardinal Martini - la chiesa, ciascuno di noi, le
nostre comunita' non possono capirsi e definirsi se non in relazione alle
radici sante della nostra fede e quindi al significato del popolo ebraico
nella storia, alla sua missione e alla sua chiamata permanente" (Popolo in
cammino, Milano 1983). Mentre quello stesso 6 marzo 1982 papa Wojtyla
diceva, nel discorso rivolto ai delegati delle Conferenze episcopali e agli
altri esperti riuniti a Roma: "Occorrera' fare in modo che questo
insegnamento, ai diversi livelli di formazione religiosa, ... presenti gli
ebrei e l'ebraismo non solo in maniera onesta e obiettiva, senza alcun
pregiudizio e senza offendere nessuno, ma ancor piu' con una viva coscienza
del patrimonio comune".
Sarebbe quanto mai opportuno, pertanto, che le diocesi e le parrocchie
promuovessero in questo frangente occasioni di riflessione lungo questi due
filoni complementari: la riflessione sul vincolo particolare, anzi unico,
che lega chiesa ed Israele, da un lato; e l'esistenza viva e attuale del
popolo ebraico, dall'altro. Ecco dunque alcune iniziative che potrebbero
essere proposte alla comunita' dei fedeli:
1. studio dei documenti piu' importanti sull'ebraismo: fra gli altri, Nostra
Aetate (n. 4), Orientamenti e suggerimenti per l'applicazione di Nostra
Aetate n. 4 (1974), Sussidi per una corretta presentazione di ebrei ed
ebraismo nella catechesi e nella predicazione della chiesa cattolica (1985),
Noi ricordiamo: una riflessione sulla Shoa' (1998)...
2. approfondimenti sulla storia del popolo d'Israele, la vita degli ebrei e
l'ebraismo oggi, la spiritualita' ebraica, l'antisemitismo e la Shoa', ecc.
3. visite ai luoghi ebraici presenti e passati e incontri con fedeli ebrei,
con possibilita' di lettura di qualche testo biblico, e in ascolto di una
lettura ebraica della Scrittura;
4. incontri con esponenti degli organismi che promuovono nelle diocesi la
conoscenza cristiana dell'ebraismo e il dialogo cristiano-ebraico.
*
Un'alleanza mai revocata
Non dovremmo stancarci di ripetere che un simile approccio va considerato
strategico sul piano ecclesiale soprattutto perche' Gesu' e' ebreo e lo e'
per sempre, apparente ovvieta' su cui per troppi secoli si e' palesemente
taciuto, creando le condizioni per fraintenderne la figura, o per elaborarne
immagini largamente distorte. In primo luogo, dunque, ogni 17 gennaio
l'invito e' a recuperare senza timori e con grande gioia il vissuto di
Yehoshua ben Yosef, "nato dalla stirpe di Davide secondo la carne" (Rom 1,
3), "nato sotto la Legge" (Gal 4, 4), nonostante lungo la storia noi
cristiani l'abbiamo sradicato dal terreno d'Israele, rescindendo i legami
con "la radice che ci porta" (Rom 11, 18), per dir cosi', degiudaizzandolo
senza troppi problemi.
E poi, che l'alleanza del Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe col popolo
d'Israele non e' mai stata revocata, mentre l'ignoranza d'Israele, in ambito
cristiano e segnatamente cattolico, risulta purtroppo tuttora assai
prevalente rispetto all'interesse e all'amore che invece dovrebbero abitarci
verso i nostri fratelli maggiori (come ebbe a dire Giovanni Paolo II durante
lo storico incontro romano con rav Elio Toaff nel 1986).
Un'ulteriore sottolineatura e' stata opportunamente offerta, la scorsa
estate, da Benedetto XVI incontrando gli ebrei della citta' nella sinagoga
di Colonia il 19 agosto. Secondo papa Ratzinger, infatti, nel dialogo
cristiano-ebraico il nostro sguardo non dovrebbe volgersi solo indietro,
verso il passato, ma dovrebbe spingersi anche in avanti, verso i compiti di
oggi e di domani: "Il nostro ricco patrimonio comune e il nostro rapporto
fraterno ispirato a crescente fiducia ci obbligano a dare insieme una
testimonianza ancora piu' concorde, collaborando sul piano pratico per la
difesa e la promozione dei diritti dell'uomo e della sacralita' della vita
umana, per i valori della famiglia, per la giustizia sociale e per la pace
nel mondo. Il Decalogo (cfr. Es 20; Dt 5) e' per noi patrimonio e impegno
comune. I dieci comandamenti non sono un peso, ma l'indicazione del cammino
verso una vita riuscita".
Quest'anno il tema proposto alla meditazione delle comunita' in occasione
del 17 gennaio e': "Ascolta, Israele! La prima delle Dieci Parole: Io sono
il Signore, tuo Dio". Nell'esortare la chiesa e la comunita' ebraica
italiane a tale celebrazione, monsignor Vincenzo Paglia e rav Giuseppe Laras
prendono le mosse appunto dal discorso del papa a Colonia, assumendolo a
dichiarazione programmatica per dare sostanza di dialogo e di comunione a
questa Giornata. Il focus risulta pertanto la centralita' del Decalogo,
presentato come vera e propria stella polare della fede e della morale del
popolo di Dio, da un lato; ma anche come grande codice della civilta' etica
dell'intera umanita', poiche' esso identifica bene e male, giusto e
ingiusto, vero e falso anche secondo i criteri della retta coscienza di ogni
creatura. A partire da quest'anno - spiegano i due - l'intenzione e' di
avviare un itinerario che vedra' altre tappe nelle Giornate successive,
cosi' da proporre una riflessione costante e continua sulla sequela
progressiva dei dieci comandamenti. A guidare i cristiani, del resto, c'e'
sempre il monito di Gesu' che, fedele alla parola di Dio, a chi lo aveva
interrogato sull'impegno operoso per ottenere la vita eterna, aveva
risposto: "Se vuoi entrare nella vita osserva i comandamenti" e li aveva
anche elencati nei capi fondamentali (cfr. Mt 19, 16-19).
*
Il comandamento principe
Su questa linea, al cuore del 17 gennaio 2006 viene posto il primo precetto,
il comandamento principe, autentica architrave dell'intera architettura
spirituale del Decalogo, nella redazione di Es 20, 1-6: "Dio allora
pronuncio' tutte queste parole: Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto
uscire dal paese d'Egitto, dalla condizione di schiavitu': non avrai altri
dei di fronte a me. Non ti farai idolo ne' immagine alcuna di cio' che e'
lassu' nel cielo ne' di cio' che e' quaggiu' sulla terra, ne' di cio' che e'
nelle acque sotto la terra. Non ti prostrerai davanti a loro e non li
servirai. Perche' io, il Signore, sono il tuo Dio, un Dio geloso, che
punisce la colpa dei padri nei figli fino alla terza e alla quarta
generazione, per coloro che mi odiano, ma che dimostra il suo favore fino a
mille generazioni, per quelli che mi amano e osservano i miei comandi".
Ne emergono, in particolare, tre impegni tanto radicali quanto strategici.
Il primo riguarda il riconoscimento dell'unicita' assoluta e sovrana del
Signore, contro ogni tentazione idolatrica.
Il secondo e' riferibile all'intangibile dignita' di ogni persona umana,
dalla sua nascita alla sua morte.
L'ultimo evidenzia la necessita' della purezza del culto: l'adorazione va
riservata solo al Signore, come ammonira' lo stesso Gesu' rivolto a Satana
tentatore (Mt 4, 9-10).
Siamo percio' di fronte ad un precetto che coinvolge nello stesso modo ebrei
e cristiani, con un forte appello alla purezza della fede nei confronti di
un Dio vivo e personale, esigente ma altresi' amoroso, che, se condanna il
peccato punendo fino alla quarta generazione, e' pronto a perdonare chi e'
pentito e a svelare la sua grazia benevola fino alla millesima generazione.
*
La speranza e l'augurio
Per questo, la speranza e l'augurio insieme e' che le chiese locali non
lascino passare sotto silenzio la giornata del 17 gennaio, o la vivano
appena come un appuntamento puramente rituale: si tratterebbe di
un'occasione sprecata, soprattutto in un momento quale il presente, in cui
il dialogo appare sempre piu' l'unica risposta credibile agli appelli
insensati agli scontri di civilta', alle guerre infinite, alle chiusure
identitarie. Un dialogo, quello cristiano-ebraico, la cui posta in gioco e'
per i cristiani, sempre piu' chiaramente, l'acquisizione della coscienza dei
loro legami con il gregge di Abramo e delle conseguenze che ne derivano sul
piano dottrinale, per la disciplina, la liturgia, la vita spirituale della
chiesa e persino per la sua stessa missione nel mondo di oggi.

6. MONDO. GIULIANA SGRENA: LA BANLIEUE LAICA PARLA FEMMINILE
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 6 gennaio 2005. Giuliana Sgrena,
giornalista, intellettuale e militante femminista e pacifista tra le piu'
prestigiose, e' tra le maggiori conoscitrici italiane dei paesi e delle
culture arabe e islamiche; autrice di vari testi di grande importanza, e'
stata inviata del "Manifesto" a Baghdad, sotto le bombe, durante la fase
piu' ferocemente stragista della guerra tuttora in corso. A Baghdad e' stata
rapita il 4 febbraio 2005; e' stata liberata il 4 marzo, sopravvivendo anche
alla sparatoria contro l'auto dei servizi italiana in cui viaggiava ormai
liberata, sparatoria in cui e' stato ucciso il suo liberatore Nicola
Calipari. Opere di Giuliana Sgrena: (a cura di), La schiavitu' del velo,
Manifestolibri, Roma 1995, 1999; Kahina contro i califfi, Datanews, Roma
1997; Alla scuola dei taleban, Manifestolibri, Roma 2002; Il fronte Iraq,
Manifestolibri, Roma 2004; Fuoco amico, Feltrinelli, Milano 2005]

Della rivolta delle banlieues sono rimaste solo le scritte sui muri e un
clima estremamente cupo. Le strade sono deserte come se alle sette di sera
fosse gia' in vigore il coprifuoco. Sara' per colpa dello stato di
emergenza, quello si' che e' in vigore. In giro non si vedono poliziotti;
pochi i passanti, tutti immigrati, maschi, giovani, diffidenti, come noi
(uniche donne in circolazione) quando chiediamo informazioni sulla strada
per il centro culturale "Africa". Siamo nella "citta' dei quattromila",
cosi' almeno era stata battezzata negli anni '60, quando era iniziata la
costruzione di 4.000 alloggi che dovevano essere un modello di nuova
urbanizzazione. Che nel frattempo e' diventato simbolo del degrado, enormi
edifici grigi e fatiscenti, in parte abbandonati dai primi abitanti - classe
operaia e immigrati della prima generazione - per lasciare posto ai piu'
emarginati, discriminati. La Courneuve, a circa venti minuti di
metropolitana dal centro di Parigi, e' una zona off limits, innominabile,
indicata solo con un numero: la "zona 9-3" (dal numero del prefisso
postale).
*
Un'oasi nello squallore
La sede dell'associazione "Africa" e' un'oasi nello squallore generale. Al
pianterreno un paio d'uffici e un'aula dove tutti i pomeriggi si ritrovano i
bambini a fare i compiti, una sorta di doposcuola per chi a casa non ha
nemmeno lo spazio per appoggiare i quaderni. Nel seminterrato, una sala con
bar serve per conferenze, feste e ricorrenze varie, matrimoni compresi.
L'animatrice del centro e portavoce dell'associazione, Mimouna Hadjam, e'
una vera forza della natura: algerina di origine e' arrivata alla Courneuve
all'inizio degli anni '80 dal nord della Francia, da subito ha lottato
contro tutte le discriminazioni, non solo razziste ma anche di genere. E'
salita all'onore delle cronache (interviste su giornali e tv) nei giorni
della rivolta delle banlieues, quando erano anche i giovani del suo
quartiere a dare fuoco alle macchine. Lei non si e' spaventata e nemmeno
sorpresa perche' quel disagio che ha provocato la violenza lo vive ogni
giorno.
Il tema della serata all'"Africa" non e' pero' la rivolta - anche se alla
Courneuve non si puo' prescindere dal clima che ci circonda - ma la
laicita', a cento anni dall'approvazione della legge che il 9 dicembre 1905
aveva sancito la separazione tra stato e chiesa.
La presenza e' soprattutto femminile: sono soprattutto le donne della
banlieue che hanno aiutato ad organizzare il dibattito e la festa che l'ha
preceduto, ma si rifiutano di essere solo manodopera e ascoltano attente.
Nemmeno una bambina vivace riesce a distrarre la madre che segue con
interesse un dibattito che affronta problemi che la riguardano da vicino,
come i diritti delle donne garantiti dalla laicita' dello stato. Gli altri,
oratori e pubblico, sono arrivati alla spicciolata dalla capitale.
"Laicita'" e' un termine che non appartiene agli immigrati dei quartieri
popolari: francesi sulla carta, ma discriminati nella realta'. Una
discriminazione ancor piu' difficile da accettare per chi sul passaporto ha
scritto "francese" e non ha nemmeno una via di fuga verso il paese di
origine, come si illudevano invece di poter avere i loro padri. Una mancanza
di identita' che non si puo' accontentare del surrogato religioso, anche se
a volte puo' essere una scorciatoia.
*
Islam o laicita'
"Se nel titolo del dibattito avessimo scritto islam invece di laicita'
probabilmente la partecipazione sarebbe stata maggiore", dice Samir,
militante del Forum sociale che ha organizzato una iniziativa simile in
un'altra banlieue degradata di Parigi, la Trappe. Anche la Trappe e' stata
infiammata dalla rivolta ma i ribelli del quartiere non hanno nessun
contatto con le associazioni politiche, nemmeno con i no-global come Samir.
La "laicita'" non attira il grande pubblico; ma sono soprattutto i
musulmani - algerini, iraniani, ecc. - che presenziano ai dibattiti e sono
interessati a difendere la legge francese del 1905. Non a caso il centenario
e' stato celebrato piu' dalla societa' civile che dalle istituzioni. La
legge, mettendo fine alla strumentalizzazione della religione a scopi
politici, avrebbe dovuto mettere fine a secoli di guerre di religione.
Almeno negli auspici.
"La repubblica assicura la liberta' di coscienza. Garantisce la liberta'
dell'esercizio del culto...", afferma il primo articolo della legge sulla
laicita'. E, altrettanto importante, l'articolo 2 recita: "La repubblica non
riconosce ne' salario ne' sovvenzioni ad alcun culto" (con alcune limitate
peculiari eccezioni). Ma sono proprio questi gli articoli che il ministro
degli interni Nicolas Sarkozy vorrebbe rivedere. E' sorprendente.
Viene subito da pensare alla battaglia sostenuta dal governo francese per
imporre la legge contro i simboli religiosi nelle scuole approvata il 15
marzo 2004. Sono passati meno di due anni ma quella sembra storia di altri
tempi. Nessuno ne parla piu', le ragazze espulse dalla scuola pubblica sono
meno di due decine e le banlieues non si infiammano piu' per difendere il
velo come segno di identita'. Nemmeno gli islamisti si sono resi conto di
quello che stava succedendo e non sono stati in grado di gestire la tensione
crescente: l'esplosione dei casseurs (che avevano come unico segno di
appartenza quello territoriale) ha messo in evidenza i problemi sociali, la
discriminazione reale, senza distinzione di credo e di pelle, ma certamente
di classe. E di genere. Certo bruciare le macchine, usare la violenza non e'
roba per donne. Tanto piu' se recluse in casa, come sono soprattutto nella
banlieue. Per le strade della Courneuve non ne abbiamo visto nemmeno una, ma
nel dibattito sulla laicita' all'"Africa" c'erano piu' donne che uomini,
anche quelle della "Cite' dei quattromila", e nessuna di loro portava il
velo.
*
Complicita' dei sindaci
Un segnale importante. Anche perche', come spiega Mimouna Hadjam, "e' da
vent'anni che le reti islamiste lavorano per imbavagliare le donne, a volte
con la complicita' dei sindaci, compresi quelli di sinistra, per riportare
la pace sociale nelle loro citta'" (quasi tutti i quartieri sconvolti dagli
avvenimenti di novembre sono amministrati dalla sinistra, anche se non sono
piu' le roccaforti del partito comunista).
Non si tratta certamente di un atteggiamento nuovo della sinistra, "ci sono
sostenitori del comunitarismo [che contrappone il riconoscimento dei diritti
universali a quelli basati sull'appartenenza a una comunita' culturale - o
religiosa - specifica - ndr] anche tra i comunisti", sottolinea con
rammarico la portavoce dell'Associazione Africa (gia' militante del Pags, il
partito comunista algerino). E ricorda come gia' negli anni ottanta, ai
tempi delle dure lotte sindacali, soprattutto nelle grandi fabbriche
automobilistiche, sindacalisti e padroni si erano ritrovati d'accordo nel
concedere ai musulmani spazi di preghiera all'interno dei luoghi di lavoro.
"Cosi' abbiamo cominciato ad essere identificati come musulmani, racconta
Mimouna, e subito dopo sono comparsi alla Courneuve i primi casi di
poligamia, e' stato imposto il velo alle donne e gli uomini hanno cominciato
ad indossare il kamis. Ma in quegli anni le donne tendevano a dare la
priorita' alla lotta di classe rimandando a una fase successiva quella per i
loro diritti. Io penso che non ci debba essere una graduatoria nelle lotte:
ma se dovesse esserci una priorita', per me sarebbe quella femminista".
Dunque laicita' come garanzia dei diritti delle donne, almeno nei principi.
"Per me la laicita' resta un obiettivo, la Francia non e' uno stato laico,
si tratta piuttosto di una societa' laicizzata", sostiene Mimouna, anche
perche' le violazioni alla laicita' sono molte. Da una parte c'e'
l'eccezione dell'Alsazia-Moselle, dove lo stato nomina l'arcivescovo di
Strasburgo, e dall'altra, in base agli accordi bilaterali, la Francia
pratica una discriminazione nei confronti delle donne continuando a
riconoscere gli statuti di famiglia di Algeria, Marocco e Mali, che tra
l'altro prevedono il ripudio della moglie. In questo caso piu' che di
violazione della laicita' si tratta di residui coloniali, o entrambi.
Comunque "il contropotere islamista opera nei quartieri popolari", sostiene
Mimouna. E gli islamisti cercheranno anche di cavalcare la rivolta di
novembre, che pure e' sfuggita loro completamente di mano. A partire dai
media: da quando sono scesi in campo gli islamisti le partecipazioni a
trasmissioni televisive di Mimouna sono state cancellate e sostituite da
quelle di Tariq Ramadan e "fratelli". Del resto a voler "islamizzare" la
rivolta sono stati la destra e il ministro degli interni Sarkozy, che ha
chiamato in causa gli imam, i quali non si sono lasciati sfuggire
l'opportunita' e hanno emesso una fatwa (una sentenza coranica) per invitare
i rivoltosi alla calma. Naturalmente la fatwa non ha avuto nessun effetto:
ma ha dato agli islamisti il ruolo di interlocutori delle banlieues.

7. RIFLESSIONE. ANGELA GIUFFRIDA: LA RAZIONALITA' MASCHILE CHE UCCIDE LE
DONNE
[Ringraziamo Angela Giuffrida (per contatti: frida43 at inwind.it) per questo
intervento. Angela Giuffrida e' docente di filosofia ed acuta saggista; tra
le sue pubblicazioni: Il corpo pensa, Prospettiva edizioni, Roma 2002]

Nelle risposte alla domanda: "Maschi, perche' uccidete le donne?", posta dal
quotidiano "Liberazione", manca in genere la coscienza piena del fatto che
cio' di cui si parla - l'assassinio delle donne da parte di padri, fratelli,
fidanzati, mariti e persino figli - sia un crimine, anzi il piu' abietto dei
crimini perche' commesso contro le madri della specie, a cui gli uomini
devono la loro esistenza. Non si spiegherebbe altrimenti l'innocente invito
di Alessandro Curzi a "pensarci un po'" sull'assenza di indignazione -
meglio dire sull'assurdo silenzio - da parte del sesso forte di fronte agli
"assalti violenti, tanto spesso mortali, dei quali e' vittima una donna";
ne' si capirebbe la serafica esortazione di Pasquale Voza a "fare molta
attenzione" perche', ora che "c'e' la lunga campagna elettorale", "fare
gruppi pubblici di autocoscienza maschile" sarebbe fuorviante (ove si vede
come la campagna elettorale rivesta un'importanza superiore alla vita degli
esseri umani), o il "fuori tema" di Fabrizio Giovenale il quale, ignorando
che la ricerca del Consiglio d'Europa si riferisce alla violenza domestica
come prima causa di morte delle donne nel mondo, conclude che "invecchiando
le cose migliorano".
Nei suddetti interventi manca, altresi', la consapevolezza che la resistenza
opposta sia da destra che da sinistra ad un possibile empowerment femminile,
mantenendo le donne in posizione di subalternita' rispetto all'uomo, le
consegna inermi alla violenza maschile. Ma cio' che e' soprattutto assente
e' l'idea che il costante ricorso alla violenza letale, cosi' come ad ogni
altro tipo di violenza, in tutte le guerre combattute dagli uomini non solo
contro le donne, scopre evidenti carenze nella mente maschile che si vuole,
invece, produttrice della razionalita' con la erre maiuscola, l'unica di cui
la specie intera possa disporre. Non si usano forse i muscoli quando non si
hanno argomentazioni razionali da far valere civilmente? Ne' risolve il
problema definire la violenza "una patologia dell'affezione, del desiderio"
e attribuirla al "bisogno ossessivo di identita' del maschio" (Franco
Berardi), oppure ad "una carenza della dimensione intima" (Roberto Melloni),
ritenendo necessaria la ricostruzione di "un contatto con la sfera del mondo
interiore" (Franco Giordano), perche' uno sviluppo inadeguato
dell'affettivita' rende difficile elaborare risposte complesse agli stimoli
emotivi, traducendosi comunque in un deficit cognitivo.
La "falla... della propria capacita' critica", che Roberto Melloni individua
nel privato, deve essere estesa anche alla sfera pubblica, se e' vero che
gli uomini hanno "la pretesa di interpretare da soli che cosa e' universale
e oggettivo", proponendo il proprio genere come modello superiore e unico,
mentre perpetuano "l'orrore di avere ragione con la forza e la violenza"
(Alberto Leiss). L'estremo squilibrio e la generale irrazionalita' delle
societa' androcratiche non rispecchiano forse lo squilibrio e
l'irrazionalita' della mente che le governa in ogni parte e ad ogni livello?
E ancora, come mai "la ferrea sicurezza che le donne non possano avere
opinioni e tanto meno rivendicazioni e' purtroppo dura ad estinguersi"
(Andrea Milluzzi) e persiste la "fatica a riconoscere la liberta' e
l'autorita'... di una donna" (Alberto Leiss), mentre la civile e operosa
vita quotidiana della gran parte delle donne del mondo evidenzia una
superiore razionalita', confermata peraltro dalle ricerche scientifiche? Non
e' che gli uomini nascano sani e poi si ammalino, come crede Giulia Ingrao;
il problema sta nel cosiddetto pensiero razionale che, non essendo in grado
di inglobare il "pensiero senza coscienza", cioe' la dimensione affettiva,
di razionale ha ben poco; gli esseri umani, infatti, possono pensare proprio
perche' sono sensibili ed "affettivi".
E' percio' necessario che quanti, come Stefano Ciccone, ritengono
"necessario che nel maschile si apra una riflessione", avendo ben compreso
che la violenza interroga la "normalita'" maschile, mettano prima di tutto
in discussione il sistema di pensiero che produce modelli rigidi e
conflittuali, contrari alla flessibilita' dei viventi e alla loro intima
connessione.

8. LETTURE. MICHELE MEOMARTINO: FRAMMENTI DI PACE
Michele Meomartino, Frammenti di pace, Edizioni Qualevita, Torre dei Nolfi
(Aq) 2005, pp. 128, euro 11. Con una simpatetica prefazione di Giovanni
Franzoni, i racconti, le riflessioni, le lettere di un artista amico della
nonviolenza e animatore di intense esperienze di pace e di solidarieta', da
anni fortemente impegnato nella Rete nonviolenta dell'Abruzzo, nella rete
Lilliput, nell'associazione Libera contro le mafie, nel Movimento
Nonviolento e nelle Comunita' cristiane di base: una testimonianza di grande
intensita', dai ricordi dell'infanzia e della giovinezza, alle riflessioni
sulle esperienze dei movimenti per la pace e la dignita' umana; dalla
meditazione sulla fede, sui valori morali, sulle eredita' culturali e anche
sulla bellezza che salva il mondo, alla rammemorazione delle proprie
esperienze di azione nonviolenta e degli incontri con persone portatrici di
preziose testimonianze. Una lettura che vivamente consigliamo. Per richieste
alla benemerita casa editrice: Edizioni Qualevita, via Michelangelo 2, 67030
Torre dei Nolfi (Aq), tel. 0864460006, o ancora 086446448; e-mail:
qualevita3 at tele2.it; sito: www.peacelink.it/users/qualevita

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LA DOMENICA DELLA NONVIOLENZA
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Supplemento domenicale de "La nonviolenza e' in cammino"
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it
Numero 55 dell'8 gennaio 2006

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