La nonviolenza e' in cammino. 1023



LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 1023 del 15 agosto 2005

Sommario di questo numero:
1. "Lo straniero" intervista Anna Bravo
2. Ivan Illich, Lee Hoinacki, Sigmar Groeneveld: Dichiarazione sul suolo
3. Serge Latouche: Sopravviveremo allo sviluppo? La proposta della
decrescita
4. Elena Loewenthal: Teshuvah
5. Riletture: Robert Nozick, Anarchia, stato e utopia
6. Riletture: Jean Starobinski, Tre furori
7. Riletture: Sergio Quinzio, Diario profetico
8. La "Carta" del Movimento Nonviolento
9. Per saperne di piu'

1. MAESTRE. "LO STRANIERO" INTERVISTA ANNA BRAVO
[Dal bel mensile diretto da Goffredo Fofi "Lo straniero", n. 58, aprile 2005
(sito: www.lostraniero.net), riprendiamo la seguente intervista ad Anna
Bravo sul tema (e dal titolo): "I conti mai fatti tra movimenti e violenza".
Anna Bravo (per contatti: anna.bravo at iol.it), storica e docente
universitaria, vive e lavora a Torino, dove ha insegnato Storia sociale. Si
occupa di storia delle donne, di deportazione e genocidio, resistenza armata
e resistenza civile, cultura dei gruppi non omogenei, storia orale; su
questi temi ha anche partecipato a convegni nazionali e internazionali. Ha
fatto parte del comitato scientifico che ha diretto la raccolta delle storie
di vita promossa dall'Aned (Associazione nazionale ex-deportati) del
Piemonte; fa parte della Societa' italiana delle storiche, e dei comitati
scientifici dell'Istituto storico della Resistenza in Piemonte, della
Fondazione Alexander Langer e di altre istituzioni culturali. Opere di Anna
Bravo:  (con Daniele Jalla), La vita offesa, Angeli, Milano 1986; Donne e
uomini nelle guerre mondiali, Laterza, Roma-Bari 1991; (con Daniele Jalla),
Una misura onesta. Gli scritti di memoria della deportazione dall'Italia,
Angeli, Milano 1994; (con Anna Maria Bruzzone), In guerra senza armi. Storie
di donne 1940-1945, Laterza, Roma-Bari 1995, 2000; (con Lucetta Scaraffia),
Donne del novecento, Liberal Libri, 1999; (con Anna Foa e Lucetta
Scaraffia), I fili della memoria. Uomini e donne nella storia, Laterza,
Roma-Bari 2000; (con Margherita Pelaja, Alessandra Pescarolo, Lucetta
Scaraffia), Storia sociale delle donne nell'Italia contemporanea, Laterza,
Roma-Bari 2001; Il fotoromanzo, Il Mulino, Bologna 2003.
Goffredo Fofi, nato a Gubbio nel 1937, ha lavorato in campo pedagogico e
sociale collaborando a rilevanti esperienze. Si e' occupato anche di critica
letteraria e cinematografica. Tra le sue intraprese anche riviste come
"Linea d'ombra", "La terra vista dalla luna" e "Lo straniero". Per sua
iniziativa o ispirazione le Edizioni Linea d'ombra, la collana Piccola
Biblioteca Morale delle Edizioni e/o, L'ancora del Mediterraneo, hanno
rimesso in circolazione testi fondamentali della riflessione morale e della
ricerca e testimonianza nonviolenta purtroppo sepolti dall'editoria -
diciamo cosi' - maggiore. Opere di Goffredo Fofi: tra i molti suoi volumi
segnaliamo almeno L'immigrazione meridionale a Torino (1964), e Pasqua di
maggio (1989). Opere su Goffredo Fofi: non conosciamo volumi a lui dedicati,
ma si veda almeno il ritratto che ne ha fatto Grazia Cherchi, ora alle pp.
252-255 di Eadem, Scompartimento per lettori e taciturni, Feltrinelli)]

La storica Anna Bravo ha pubblicato sul numero III/1 (2004) della rivista
"Genesis" (per informazioni: www.societadellestoriche.it dove e' reperibile)
un lungo saggio esplicito nelle sue riflessioni sin dal titolo: "Noi e la
violenza. Trent'anni per pensarci". Il "noi" di cui parla non e' costituito
solo dal femminismo (o dai femminismi, come sarebbe piu' corretto dire) ma
da tutta la nuova sinistra degli anni settanta, a cominciare da Lotta
continua, il gruppo di cui ha fatto parte. La violenza (materiale,
simbolica, ideologica) e' invece quella di una parte della sua generazione
che, per l'opposizione alla strategia della tensione, per le esasperazioni
leniniste circa la "presa del potere" e lo scontro con lo Stato, per
l'aumentare del peso dei servizi d'ordine all'interno del movimento, per gli
eccessi dell'antifascismo militante, ha convissuto con la retorica dello
"scontro", senza farci i conti a suo tempo. Ci potevano essere degli anni
settanta meno "violenti"? Quali sono state le responsabilita' della nuova
sinistra? In che modo la cultura delle donne avrebbe potuto separarsi dal
maschilismo maggioritario nel movimento? A queste domande Anna Bravo ha
provato a rispondere nel saggio citato, ma quando "la Repubblica" ha deciso
di intervistarla si e' aperto un veemente dibattito tra donne (cui hanno
preso parte, tra le altre, Miriam Mafai, Dacia Maraini, Luciana Castellina)
in cui, senza che nessuna leggesse il suo testo, la Bravo e' stata
aspramente criticata. Per capire il tono della polemica, citiamo un passo
della rifondarola Elettra Deiana apparso su "Liberazione": "Le gravissime
dichiarazioni di Anna Bravo [dimostrano] la devastante marea montante della
restaurazione cristiana bianca occidentale che va diffondendosi minacciosa
nelle nostre contrade"! Noi che il saggio della Bravo lo abbiamo letto, e
che invitiamo tutti a farlo, abbiamo deciso di aggirare le polemiche e di
approfondire gli aspetti piu' interessanti della sua riflessione, quelli che
esortano a ripensare un rapporto (non solo novecentesco) tra violenza e
politica, e quindi tra mezzi e fini. Non e' solo una questione "da
femministe", riguarda tutti, uomini e donne, chi negli anni settanta c'era e
chi non c'era, chi ha partecipato a quel movimento e chi ha partecipato a
quelli dei decenni successivi, di altre generazioni. Specie oggi che gli
anni settanta tornano nel peggiore dei modi, unicamente come "anni di
piombo" o di stragi come quella di Primavalle, nel cui ricordo (falsato) si
contrappongono un destra felicemente al potere (i cui rappresentanti allora
c'erano, ma da fascisti) e personaggi agghiaccianti come Lollo che
rivendicano la loro partecipazione a quella stagione in quanto criminali (ma
non sono meno ambigui i leader di ieri che non accettano le loro
responsabilita', e sono invece ancora li' a raccontare ancora una volta la
loro, sempre incompleta, versione dei fatti). Proprio perche' gli anni
settanta sono stati anche un'altra cosa, proprio perche' altre esperienze
minoritarie ma fertili ed esemplari ci sono state, questa e' una discussione
importante. ("Lo straniero")
*
- "Lo straniero": Anna, con il tuo saggio hai messo il dito in una piaga
ancora aperta, non solo nel mondo del femminismo ma in tutto quello della
nuova sinistra. Eppure, tra le tante risposte piccate che hai ricevuto,
sembra addirittura paradossale quella di chi dice, come Luciana Castellina:
"I servizi d'ordine ce li aveva solo Lotta Continua, non erano un nostro
problema".
- Anna Bravo: Mi aveva molto colpito, anni fa, quel che Simone Weil aveva
scritto in una lettera a Georges Bernanos a proposito della guerra di
Spagna: "un abisso separava gli uomini armati dalla popolazione disarmata,
un abisso in tutto simile a quello che separa i poveri dai ricchi. Questo si
sentiva nell'atteggiamento sempre un po' umile, sottomesso, timoroso degli
uni e nella sicurezza, nella disinvoltura, nella condiscendenza degli
altri". Penso che, fatte le dovute proporzioni, le sue parole siano decisive
anche per ripensare gli anni settanta e il rapporto di allora con la
distruttivita' e  con le armi proprie e improprie. In quel clima, di fronte
alle stragi, alla violenza di gruppi di estrema destra e della polizia,
sembrava "naturale" creare strutture separate e specializzate, cosi'
naturale che diventava secondario chiedersi quanto quelle strutture
contavano nelle scelte politiche, quale mentalita' riflettevano e
stimolavano. I servizi d'ordine non erano soltanto una risposta
all'incrudelirsi dello scontro, potevano essere uno dei suoi meccanismi; se
hai un manico di piccone finisci per usarlo, anzi finisci per ragionare come
uno che ha un manico di piccone fra le mani.
C'era anche un altro aspetto di distorsione. I servizi d'ordine erano ottimi
canali per guadagnarsi la patente di affidabilita' e per accedere a ruoli di
leadership che per vari militanti sarebbero stati inattingibili. Per gran
parte delle donne, invece, che nei servizi d'ordine c'erano, ma non in
grande numero e quasi mai in ruoli dirigenziali, succede il contrario: la
maggioranza rimane schiacciata alla base delle organizzazioni, e nello
stesso tempo, piu' cresce lo spazio della violenza e deperisce la politica,
piu' la parola femminile perde peso, e gia' non ne aveva molto. E' un esito
non nuovo ne' irripetuto, e in situazioni tragiche: nell'Intifada il
rovesciamento del '90, con l'avvitarsi dello scontro nella spirale
attentato-repressione-vendetta-nuova repressione, toglie respiro alle
iniziative e alla voce delle donne. Ecco perche' a mio parere e' per le
militanti che piazza Fontana, con la crescita e la specializzazione della
violenza che ne deriva, implica davvero una svolta.
Su questi aspetti mi interessa discutere. Non sono generali abbastanza? A me
sembra che il problema dei servizi d'ordine riguardasse uno spaccato ampio
di persone, al di la' della loro appartenenza all'una o all'altra
organizzazioni - e cosi', oggi, la riflessione sul loro ruolo.
Incidentalmente, non li aveva solo Lotta Continua, li avevano il movimento
studentesco della Statale di Milano, Avanguardia operaia, la Quarta
Internazionale... Che la responsabilita' sia personale e' ovvio, ma
comprende anche la condivisione di un clima. Beninteso, con questo non
voglio dire che sono (siamo) tutti e tutte ugualmente responsabili. Erri De
Luca ha ragione quando scrive che in quegli anni si poteva essere estranei,
ma del tutto innocenti no; pero' secondo me smette di avere ragione quando
dice che "ognuno di noi avrebbe potuto uccidere Calabresi", che "siamo tutti
corresponsabili di quel che e' accaduto". Gli si potrebbe rispondere che
ognuno deve parlare per se stesso. Io gli chiedo piuttosto come fa a
conciliare quelle parole con il suo rifiuto, che condivido, della
giustificazione attraverso il contesto: perche' il "siamo tutti
corresponsabili" sta in piedi solo ipotizzando un contesto cosi' forte da
schiacciare le differenze fra le persone e da motivare in toto i
comportamenti (o in alternativa, un affollamento strepitoso di personalita'
"terroristiche" dentro uno spaccato di generazione). Dire "ognuno" non e'
solo un'iperbole, rischia di diventare la teoria del "tutti colpevoli", che
puo' facilmente rovesciarsi in "nessun colpevole", e che mette in ombra i
contrasti interni. Non e' stato per caso o perche' non gli era stato chiesto
che qualcuno/a ha rifiutato di partecipare a determinate pratiche, e anche
fra chi ha accettato potevano esserci responsabilita' diverse. Le donne
avevano in genere meno informazioni, meno ascolto, meno ruoli di decisione,
meno compiti operativi - e' stato il beneficio del genere sessuale, simile,
in scala lillipuziana, al beneficio dell'eta' per i tedeschi nati dopo il
'45.
*
- "Lo straniero": Tu dici: il femminismo (o la cultura delle donne) avrebbe
dovuto, potuto smarcarsi maggiormente dalla retorica maschilista-leninista.
Eppure sembra difficile immaginare oggi un percorso diverso da quello che
effettivamente c'e' stato. La rottura doveva essere piu' radicale, anche con
il maschilismo evidente di Lotta continua? Ma potevano allora le donne andar
da sole?
- Anna Bravo: Provo a fare la storia con i se. Mettiamo che il femminismo
nelle sue varie espressioni non solo avesse proposto un lavoro politico
diverso, ma si fosse immischiato di piu' e piu' visibilmente nella politica
"maschile"; mettiamo che si fosse smarcato dal marxismo e dal leninismo,
capisaldi della teoria della violenza rifondatrice (Carla Lonzi lo aveva
fatto precocemente), che compisse azioni di testimonianza, che desse valore
al filone riformista della propria genealogia (le emancipazioniste fra Otto
e Novecento stavano prevalentemente in quell'alveo). Mettiamo che, invece di
rifiutare di schierarsi fra lo Stato e le Br, come facevano alcune, questo
femminismo avesse cercato rapporti con l'area della nonviolenza, avesse
preso seccamente posizione anche contro la distruttivita' della parte
politica cui era piu' vicino, i gruppi extraparlamentari (come hanno fatto
altre, consapevoli che la violenza era la maggiore minaccia al movimento
delle donne). Alcune precondizioni c'erano, magari disseminate,
intermittenti - la critica al patriarcato che si estendeva alla sua matrice
violenta, il rifiuto del sacro duo marxismo/psicanalisi formulato da Carla
Lonzi, una certa capacita' di rapporto con le istituzioni, soprattutto il
discorso sul corpo: la prima mossa  della cattiva politica e' sottomettere
il corpo individuale al corpo collettivo - nazionale, sociale, politico.
Forse qualcosa sarebbe cambiato, e di certo sarebbe diversa la memoria.
Sull'andare da sole, credo che le donne avrebbero potuto, e alcuni gruppi lo
hanno fatto; il problema era come guadagnare al proprio modo di fare
politica altri movimenti, cosi' da potercisi connettere.
Quanto a noi di Lotta Continua, siamo state troppo fedeli, e troppo a lungo,
e persino nel modo di andarcene, siamo state un po' lottacontinuiste - penso
alla radicalita', al muoversi in massa, al nuovo senso di appartenenza che
era forte come quello da cui stavamo uscendo. Cosi' forte che molte l'hanno
vissuto come una cesura radicale, in cui il passato perdeva peso e
addirittura tendeva a scomparire, una seconda nascita. Estremizzando un po',
si potrebbe dire che l'innocenza  perduta con le bombe di piazza Fontana
veniva recuperata con la scoperta dell'essere donne, sia perche'
storicamente oppresse e lontane dal potere (quel paradigma era al colmo del
successo) sia perche' rese nuove al mondo dalla consapevolezza di se'.
Troppo nuove, direi oggi, fino a rischiare la dispersione di quel che
eravamo state - militanti plurime, anima dei mercatini, asili, ambulatori,
mense proletarie, disturbatrici o mediatrici, interpreti per eccellenza di
un mestiere sociale nato lungo gli ultimi anni sessanta e gli anni settanta,
grazie al quale si creavano legami e si consolidavano linguaggi comuni negli
ambienti piu' diversi, da una riunione di insegnanti a un'assemblea operaia
a un campeggio al sud. Non mi piacciono molto l'espressione "seconda
nascita", la consuetudine di dichiararsi rinati ogni volta che si cambia;
preferisco rigenerazione, che tiene in primo piano il rapporto con il
passato, e richiede una maggiore circolazione di dubbio e di liberta' di
pensiero all'interno delle persone. Mi chiedo fra l'altro se l'illusione del
"nate ieri" non abbia riguardato anche molte altre, a partire dalle
femministe storiche - anni prima, ovviamente, ma neppure quelli erano tempi
propizi al vaglio fine di ogni angolo cieco della dissociazione dal
maschile.
*
- "Lo straniero": In "Il nodo e il chiodo" che tu citi, Sofri da' la sua
versione dell'ultimo congresso di Lotta Continua, e a proposito delle
posizioni delle donne dice che erano riassumibili nella formula "il
movimento e' tutto, il fine nulla" e per questo erano molto simili al
"revisionismo" di Bernstein (considerazione che, aggiunge, le femministe
avrebbero rigettato). Le stesse critiche (del tipo: "siete delle anime
belle") vengono rivolte oggi a chi rivendica un legame il piu' stretto
possibile tra i fini e i mezzi o assume una posizione nonviolenta. La
priorita' dell'obiettivo e' una concezione maschile della politica?
Ripensare quegli anni, vuol dire ripensare criticamente anche questo?
- Anna Bravo: Oltre che anime belle ci chiamavano anche mensceviche! Credo
che la priorita' dell'obiettivo sia associabile non agli uomini, ma al
maschile si', nella sua componente di primato del progetto, dell'efficienza,
della ragione strumentale, nella fissazione di affrontare i nodi tagliandoli
anziche' provando a scioglierli, nell'abitudine a dare piu' valore al futuro
che al presente, al punto d'arrivo che al cammino per arrivarci - e lungo
quel cammino si puo' cambiare, incontrare il male, agirlo, diventare
un'altra persona. Questo e' persino ovvio, vale per tutti i movimenti, vale
per la vita.
Fra le tante cose da ripensare la priorita' dell'obiettivo c'e' sicuramente.
Non che le leadership di allora avessero una mentalita' da piano
quinquennale, pero' e' vero che la congruenza tra i fini e i mezzi non era
affatto un imperativo primario, mentre avrebbe potuto esserlo - un po' di
storia la sapevamo, solo che dominavano le ideologie intenzionaliste, per
cui i buoni obiettivi sono un elemento a discarico anche quando in loro nome
si compiono i crimini peggiori. Non mi viene in mente nessun caso in cui i
mezzi "buoni" siano sboccati in esiti perversi, anzi un criterio saggio e'
che se un programma esige mezzi inaccettabili, non e' un buon programma.
Scegliere mezzi "buoni" seleziona gli obiettivi, condiziona gli eventi, puo'
contagiare le persone - nella  Danimarca occupata dai nazisti, Hitler aveva
dovuto sostituire alcuni dei suoi gerarchi, perche' il faccia a faccia con
il rifiuto danese dell'antiebraismo aveva indebolito la loro furia
persecutrice. Puo' succedere l'imprevisto. Penso al crollo dei regimi
all'Est e poi dell'Unione Sovietica, che avviene con un numero
contenutissimo di vittime, meno di quelle provocate nelle repubbliche
baltiche nel gennaio 1991 dalle truppe mandate da Gorbacev contro i
manifestanti indipendentisti. Quei regimi cadono come gusci vuoti, ma
soprattutto, con l'eccezione della Romania, cadono in seguito a grandi
manifestazioni popolari largamente spontanee, che si svolgono senza armi e
pacificamente. Mentre tutti temevamo un bagno di sangue! Si direbbe quasi
che i gruppi dirigenti fossero rassegnati alla caduta del regime, e gli
oppositori rifuggissero da una resa dei conti. E' la conferma di quanto poco
erano radicati  quei regimi, ma e' anche un segno dell'importanza degli
intellettuali del dissenso, che usando mezzi nonviolenti hanno mantenuta
viva agli occhi della popolazione la possibilita' di un'alternativa. Altro
che anime belle! La nonviolenza puo' rivelarsi molto piu' fattiva e
realistica di quanto si pensa di solito. Sempre in Danimarca, la popolazione
(si puo' proprio dire "la popolazione") riesce a portare in salvo quasi
tutti gli ebrei danesi con un'azione clandestina disarmata e senza violenza.
Pensiamo alle recenti "rivoluzioni di velluto" all'Est; su alcuni giornali
si e' "denunciata" la presenza di militanti di Otpor, l'organizzazione serba
per la resistenza civile contro Milosevic, che sarebbero andati in giro per
l'Europa insegnando come fare manifestazioni nonviolente. Se e' vero, mi
sembra una cosa bellissima. Non era utopica neppure la resistenza civile
della popolazione kosovara, durata anni e anni; e' stata ottusa la comunita'
internazionale a non dare appoggio effettivo a Rugova, il che nel tempo ha
minato la fiducia popolare nella strategia nonviolenta e  ha dato spazio
all'Uck. Certo, non si puo' scegliere una strategia una volta per tutte,
anche se sarebbe un sollievo, un "lusso". Oggi per esempio su violenza e
nonviolenza la sensibilita' e' cambiata fino a trasformare in un luogo
comune (magari rinnegato nei fatti) la tesi secondo cui non c'e' progetto,
non c'e' ideale collettivo che giustifichi lo spargimento di sangue; ma non
e' anche questa una cristallizzazione? Ricordo i dilaniamenti interiori ai
tempi di Srebrenica e quanto e' costato ad Alex Langer prendere posizione
per un intervento internazionale.
*
- "Lo straniero": Ricorso alla violenza (materiale e simbolica) e lotte per
i diritti civili sembrano escludersi a vicenda (cioe', storicamente, lo
scarso interesse per i diritti civili e' direttamente proporzionale
all'emergere della retorica della violenza). Il movimento delle donne,
quello gay e delle altre minoranze sessuali, alcune iniziative dei radicali
(ma si puo' pensare alla stessa idea della "lunga marcia attraverso le
istituzioni") hanno battuto per un certo breve tempo una strada diversa,
anche se aperta a successive contraddizioni.
- Anna Bravo: Bisogna dire che gia' nel movimento degli studenti dell'Europa
occidentale il tema dei diritti civili non era molto sentito. Nel '68,
all'Est i movimenti chiedevano proprio quei diritti di liberta' che ai
giovani occidentali sembravano irrilevanti: "Non c'e' pane senza liberta'",
diceva uno slogan degli studenti di Varsavia, mentre noi, non solo in
Italia, eravamo abituati a pensare piuttosto il contrario: "Non c'e'
liberta' senza pane". Poi nella sinistra extraparlamentare i diritti civili
sono diventati ancora piu' periferici, un affare del riformismo, un
obiettivo transitorio, qualcosa da rivendicare in attesa del grande
rivolgimento; per di piu', lottare per i diritti civili vuol dire anche
"contrattare" con lo stato, con le istituzioni, cosa che magari si faceva,
ma come necessita' tattica. Dunque gia' il punto di partenza non era il
migliore, e a rendere ancora piu' difficile la strada dei diritti civili
hanno contribuito secondo me due cose. La radicalizzazione dello scontro
politico, che li ha travolti anche teoricamente nello stesso momento in cui
sconfiggeva la tesi della "lunga marcia attraverso le istituzioni". Poi, in
tempo brevi, la banalizzazione, l'uso smodato del termine diritto. Hanno
ragione le studiose che hanno criticato l'ipertrofia giuridicista che fa di
ogni relazione e situazione un affare di diritti e doveri. Come se si
esitasse a riconoscere che ci sono casi in cui non si puo' parlare di
diritti, pero' esistono ugualmente delle obbligazioni, solo che la legge non
te le puo' imporre. Paura della liberta' delle persone, del "cattivo uso"
della liberta'? e chi decide quale e' l'uso buono?
Nel movimento delle donne si e' seguita una strada diversa, non si parlava
tanto di diritti civili, piuttosto di autodeterminazione, di liberta'. La
cosa piu' bella e' che non abbiamo mai pensato che la liberta' delle persone
dipendesse dalla loro posizione economica e lavorativa, o da un buon
curriculum scolastico o dall'impegno politico; e non abbiamo mai concepito
la liberta' come assenza di vincoli, come "indipendenza", ma come la
capacita' di negoziare la propria adesione ai modelli e di prenderne le
misure e le distanze. Non un fatto di diritti, ma di soggettivita'. Anche
l'aborto, solo una minoranza lo inseriva nell'alveo dei diritti civili, per
la maggior parte di noi la depenalizzazione era una forma di riduzione del
danno.
*
- "Lo straniero": Il giudizio storico sulla violenza politica negli anni
settanta non e' un fatto che riguarda solo la tua generazione. Certo, il
"partire da se'" (soggettivo e intersoggettivo) e' il primo passo
necessario; ma tutti dovrebbero avere maggior chiarezza su quegli anni (se
vogliono confrontarsi con gli errori della violenza politica), anche quelli
che sono nati dopo. Pero', mentre tu intravedi le condizioni per parlarne in
modo esaustivo, lo stesso non si puo' dire per il discorso pubblico (e la
politica di palazzo) e le strumentalizzazioni dei casi ancora aperti o che
si riaprono. Insomma, da una parte ci sono Anna Bravo e ad esempio, almeno
in parte, il Crainz di "Un paese mancato" che propongono una franca analisi
dei fatti, dall'altra il rapporto pubblico con quegli anni e' affidato alle
"dichiarazioni" di gente come Lollo, e alle interviste che innescano. Si
isolano mediaticamente delle singole vicende, si snatura l'interpretazione
storica, si riporta tutto - ancora una volta - sul piano giudiziario. C'e'
chi dice che l'amnistia aiuterebbe a far luce sulla verita' e favorirebbe il
giudizio storico. Cosa ne pensi?
- Anna Bravo: Ripensare e' fatica, gia' il fatto che la politica con cui
condividevamo piu' idee abbia perso da' alla violenza dei "nostri" il
peggior marchio possibile, aver sofferto e fatto soffrire per niente: una
cornice difficile per confrontarci con il nostro Mister Hyde, con la nostra
perdita della compassione, con il fatto che avevamo alzato un muro mentale
fra la violenza e la sofferenza che essa provoca. Cosi' oggi si rischia di
sbandare fra due vicoli ciechi: un eccesso di severita' verso se stessi
anche per reazione a chi si assolve da se', e un eccesso di autoindulgenza,
come quando si dice: "io in fondo non ho fatto niente", lasciando fra
parentesi il fatto che si stava fianco a fianco con quelli che facevano. In
questa situazione, ecco che arrivano periodicamente persone che parlano di
errori di analisi politica anziche' di crimini, che si dichiarano sconfitti
anziche' colpevoli, che fanno passare l'idea che gli anni settanta siano
stati una mischia ininterrotta fra piccole minoranze senza cuore e senza
pudore - mentre la maggioranza non era cosi', e quegli anni non sono affatto
stati solo "di piombo". Persone che si avvinghiano al contesto - che conta,
chi lo nega, in quegli anni la lotta politica non era affatto "normale" - ma
con una protervia che rende questa parola quasi indecente, impronunciabile.
Mi viene di nuovo in mente Hannah Arendt, la' dove scrive che dire di essere
stati costretti o di aver obbedito agli ordini e' un'argomentazione vuota,
perche' l'obbedienza e' una categoria applicabile esclusivamente ai bambini;
gli adulti sono, se mai, indotti in tentazione. Lei parla del nazismo, e'
troppo chiedere di estendere il suo discorso ai nostri anni settanta, e a
chi oggi si descrive come travolto dalle "condizione oggettive"?
Qui c'e' una responsabilita' grande dei media, ne nascono distorsioni forse
neppure volute, ma quel che appare e' solo violenza e miseria morale, si
perdono le tante esperienze belle, strane, nuove, si cancella la la voce di
quelli/e che recalcitravano da azioni violente, e da un certo momento hanno
cominciato a dirlo in pubblico. Il ruolo di supplenza dell'analisi storica
che abbiamo lasciato all'azione giudiziaria non fa che rafforzare questa
immagine truce. Allora chi vorrebbe riflettere con franchezza si sente gia'
in partenza meno libero, ha paura che sia il momento sbagliato, e cosi' si
rischia di non trovare mai il momento giusto per affrontare questi temi. Se
poi li affronti, c'e' chi ti massacra usando tutti i vecchi artifici
retorici della diffamazione politica. Il conformismo retrospettivo e' ancora
forte. Di me hanno detto che avrei presentato il decennio dei settanta come
"un coacervo di orrori"! Sarei tentata di ribattere a tutte le
falsificazioni che ho subito in  queste settimane, ma rinuncio per amore di
chi legge e perche' ho verificato che molte/i sono invece aperti, e alcune
mi hanno raccontato nuovi episodi e stati d'animo. Quello che mi indigna e'
il fascino che i reduci del terrorismo sembrano esercitare sui media. Su di
loro si scrivono libri, si fanno film, si pubblicano loro interviste. E sono
per lo piu' povere cose, parole di aspiranti caporali. Sulle vittime invece,
quasi silenzio. Eppure sono molto piu' "interessanti" Guido Rossa, Bachelet,
Casalegno che non i loro assassini - dico interessanti proprio nel senso di
narrativamente ricchi, non nel senso di umanamente nobili. Credo che in
nessun altro periodo si sia dato tanto spazio ai "cattivi" e cosi' poco alle
loro vittime. Di sicuro bisogna continuare a scrivere pezzi di storia,
raccogliere testi, interviste, coinvolgere persone di seconda generazione.
Usare la memoria con cuore vigile. Forse una buona cifra e' quella del
romanzo, del film (ma non Bellocchio, casomai Calopresti, il solo che ha
raccontato di una vittima). Non so davvero se l'amnista favorirebbe la
verita' e il giudizio storico. Intanto non abbiamo Nelson Mandela e Desmond
Tutu, i grandi "riparatori del danno", in cui la maggioranza del popolo
sudafricano ha visto la garanzia della verita' e della riconcilazione. Poi,
nel lavoro della Commissione sudafricana, "verita' senza vendetta" stava a
significare che l'amnistia veniva dopo l'ammissione pubblica dei crimini,
sollecitata con un metodo che combinava la pratica terapeutica e il rito
della confessione; e le famiglie delle vittime non solo avevano un
riconoscimento economico, ma si sentivano risarcite anche moralmente,
perche' delle vittime si parlava (noi abbiamo lasciato il tema del quasi
silenzio sulle vittime alla destra, e alla memoria familiare solitaria e
esacerbata). No, non mi aspetterei un maggiore tasso di verita'
dall'amnistia; credo che tante persone tacciano o mentano non solo per
sfuggire alla galera, ma perche' senza mentire, in primo luogo a se stessi,
non potrebbero guardarsi allo specchio.

2. RIFLESSIONE. IVAN ILLICH, LEE HOINACKI, SIGMAR GROENEVELD: DICHIARAZIONE
SUL SUOLO
[Dal mensile  "Lo straniero" n. 57, marzo 2005, riprendiamo la seguente
"Dichiarazione sul suolo"di Ivan Illich, Lee Hoinacki, Sigmar Groeneveld
(traduzione di Antonio Airoldi). Questo appello e' stato presentato il 6
dicembre 1990, in occasione del meeting organizzato a Oldenburg in onore di
Robert Rodale, pioniere del movimento per l'agricoltura biologica negli Usa.
Il testo originale e' reperibile sul sito del Pudel Circle di Brema
(www.pudel.uni-bremen.de).
Ivan Illich e' nato a Spalato nel 1925; laurea in mineralogia a Firenze,
studi ulteriori di psicologia, arte, storia (dottorato a Salisburgo);
ordinato sacerdote nel 1951, per cinque anni opera in una parrocchia
portoricana a New York, poi e' prorettore dell'Universita' Cattolica di
Portorico; a Cuernavaca (Messico) fonda il Cidoc (Centro interculturale di
documentazione); docente in varie universita', conferenziere, studioso
costantemente impegnato nella critica delle istituzioni e nella indicazione
di alternative che sviluppino la creativita' e dignita' umana; pensatore
originale, ha promosso importanti ed ampie discussioni su temi come la
scuola, l'energia, la medicina, il lavoro. E' scomparso nel 2002. Tra le
opere di Ivan Illich: Descolarizzare la societa', Mondadori; La
convivialita', Mondadori, poi Red; Rovesciare le istituzioni, Armando;
Energia ed equita', Feltrinelli; Nemesi medica: L'espropriazione della
salute, Mondadori, poi Red; Il genere e il sesso, Mondadori; Per una storia
dei bisogni, Mondadori; Lavoro-ombra, Mondadori; H2O e le acque dell'oblio,
Macro; Nello specchio del passato, Red; Disoccupazione creativa, Red.
Raccoglie i materiali di un seminario con Illich il volume Illich risponde
dopo "Nemesi medica", Cittadella, Assisi 1978. Cfr. anche il
libro-intervista di David Cayley, Conversazioni con Ivan Illich, Eleuthera,
Milano 1994. Utile anche il volume di AA. VV., Le professioni mutilanti,
Cittadella, Assisi 1978 (che si apre con un intervento di Illich).
Lee Hoinacki, filosofo e teologo, e' stato a lungo collaboratore di Ivan
lllich.
Sigmar Groeneveld, docente universitario di Culture agrarie, e' uno degli
studiosi piu' acuti di questioni ecologiche globali]

Il discorso ecologico sul pianeta terra, la fame globale, le minacce alla
vita ci sollecitano, come filosofi, a volgere umilmente lo sguardo al suolo.
Noi poggiamo i piedi sul suolo, non sul pianeta. Proveniamo dal suolo e al
suolo consegnamo i nostri escrementi e le nostre spoglie. Eppure il suolo -
la sua coltivazione e il nostro legame con esso - e' significativamente
trascurato dall'indagine filosofica della nostra tradizione occidentale.
Come filosofi, ci dedichiamo a cio' che sta sotto i nostri piedi perche' la
nostra generazione ha perso il suo radicamento al suolo e alla virtu'. Per
virtu' intendiamo la forma, l'ordine e la direzione dell'azione plasmata
dalla tradizione, delimitata dal luogo e qualificata dalle scelte effettuate
entro l'ambito abituale di esperienza di ciascuno; intendiamo quella pratica
reciprocamente riconosciuta come il bene in una cultura locale condivisa che
rinforza la memoria di un luogo.
Noi constatiamo che la virtu' cosi' intesa e' tradizionalmente associata al
lavoro faticoso, all'abilita' artigianale, all'arte di abitare e di
soffrire, attivita' sostenute non da astrazioni quali il pianeta terra,
l'ambiente o il sistema energetico, ma dai suoli particolari che esse hanno
arricchito con le loro tracce. Ma nonostante questo legame fondamentale tra
il suolo e l'essere umano, tra il suolo e il bene, la filosofia non ha messo
a punto i concetti che ci permetterebbero di porre in relazione la virtu'
con il suolo comune, qualcosa di radicalmente differente dal controllo
pianificato del comportamento su un pianeta condiviso.
I nostri legami col suolo - le relazioni che limitavano l'azione rendendo
possibile la virtu' pratica - sono stati recisi allorche' il processo di
modernizzazione ci ha isolati dalla semplice sporcizia, dalla fatica, dalla
carne, dal suolo e dalle tombe. La sfera economica dentro cui, volenti o
nolenti, talvolta a caro prezzo, siamo stati assorbiti, ha trasformato le
persone in unita' intercambiabili di popolazione, governate dalle leggi
della scarsita'.
Gli usi civici e l'arte di abitare sono a mala pena immaginabili da chi e'
schiavo dei servizi pubblici e alloggia in garage ammobiliati. In questo
contesto il pane e' stato ridotto a mero genere alimentare, se non a calorie
o a fibre. Dopo che il suolo e' stato avvelenato e cementificato, parlare di
amicizia, religione e sofferenza partecipata come stile della convivialita'
appare come una fantasia accademica a persone disseminate in modo del tutto
casuale tra veicoli, uffici, prigioni e hotel.
Come filosofi, rivendichiamo il dovere di occuparci del suolo. Cio' era dato
per scontato da parte di Platone, Aristotele e Galeno, oggi non piu'. Il
suolo su cui la cultura puo' crescere e il grano essere coltivato svanisce
alla nostra vista allorche' viene definito nei termini di sottosistema
complesso, settore, risorsa, problema o "impresa agricola", come per lo piu'
accade nelle scienze agrarie.
Come filosofi, proponiamo di organizzare forme di resistenza nei confronti
di quegli esperti di ecologia che predicano il rispetto della scienza ma
promuovono il disinteresse per la tradizione storica, le attitudini locali e
la virtu' terrestre dell'autolimitazione.
Con tristezza, ma senza nostalgia, riconosciamo che il passato e' passato.
Sia pur con esitazione, cerchiamo allora di condividere cio' che vediamo:
alcune conseguenze derivanti dal fatto che la terra ha perduto il suo suolo.
Di fronte all'indifferenza per il suolo mostrata dagli ecologisti dei
consigli di amministrazione proviamo fastidio, ma siamo altrettanto critici
nei confronti di quei numerosi romantici, luddisti e mistici benintenzionati
che esaltano il suolo facendone la matrice della vita anziche' della virtu'.
Lanciamo percio' un appello a favore della filosofia del suolo: un'analisi
chiara e disciplinata di quella esperienza e memoria del suolo senza le
quali non vi puo' essere ne' la virtu', ne' alcuna nuova forma di
sussistenza.

3. RIFLESSIONE. SERGE LATOUCHE: SOPRAVVIVEREMO ALLO SVILUPPO? LA PROPOSTA
DELLA DECRESCITA
[Dal mensile "Aprile", n. 128 del giugno 2005 (sito: www.aprile.org)
riprendiamo questo articolo precedentemente apparso su "Le Monde
Diplomatique" del novembre 2003. Serge Latouche, docente universitario a
Parigi, sociologo dell'economia ed epistemologo delle scienze umane, esperto
di rapporti economici e culturali Nord/Sud, e' una delle figure piu'
significative dell'odierno impegno per i diritti dell'umanita'. Opere di
Serge Latouche: L'occidentalizzazione del mondo, Il pianeta dei naufraghi,
La megamacchina, L'altra Africa, La sfida di Minerva, Giustizia senza
limiti, tutti presso Bollati Boringhieri, Torino; Il mondo ridotto a
mercato, Edizioni Lavoro, Roma; I profeti sconfessati, La meridana,
Molfetta. Cfr. anche il libro intervista curato da Antonio Torrenzano,
Immaginare il nuovo, L'Harmattan Italia, Torino 2000]

"Sarebbe senz'altro una bella soddisfazione poter mangiare alimenti sani,
vivere in un ambiente equilibrato e meno rumoroso, non subire piu' i
condizionamenti del traffico ecc." (Jacques Ellul)

Il 14 febbraio 2002, a Silver Springs, davanti ai responsabili americani
della meteorologia, Gorge W. Bush ha dichiarato: "La crescita e' la chiave
del progresso ambientale, in quanto fornisce le risorse che consentono di
investire nelle tecnologie appropriate: e' la soluzione, non il problema".
Di fondo, questa posizione "pro-crescita" e' condivisa dalla sinistra,
compresi anche molti "altermondialisti", che nella crescita vedono la
soluzione del problema sociale, attraverso la creazione di posti di lavoro e
una piu' equa ripartizione dei redditi.
Per conciliare i due imperativi contraddittori della crescita e del rispetto
per l'ambiente, gli esperti pensano di aver trovato la pozione magica
nell'ecoefficienza: un concetto cruciale, che rappresenta in verita' l'unica
base seria dello sviluppo sostenibile. Si tratta di ridurre progressivamente
l'impatto ecologico e l'incidenza del prelievo di risorse naturali, per
raggiungere un livello compatibile con la capacita' di carico accertata del
pianeta (1). Indubbiamente, l'efficienza ecologica e' notevolmente
migliorata; ma poiche' la corsa forsennata alla crescita non si ferma, il
degrado globale del pianeta continua ad aggravarsi.
Se da un lato l'impatto ambientale per unita' di merci prodotte e'
diminuito, questo risultato e' sistematicamente azzerato dall'aumento
quantitativo della produzione: un fenomeno cui si e' dato il nome di
"effetto rimbalzo". E' vero che la "nuova economia" e' relativamente piu'
immateriale (o meno materiale), ma essa non viene a sostituire, bensi' a
completare l'economia tradizionale. E tutti gli indici dimostrano che a
conti fatti il prelievo continua ad aumentare (2). Infine, ci vuole proprio
la fede incrollabile degli economisti ortodossi per pensare che la scienza
del futuro possa essere in grado di risolvere tutti i problemi, e per
ritenere illimitate le possibilita' di sostituire la natura con l'artificio.
Secondo Ivan Illich, la fine programmata della societa' della crescita non
sarebbe necessariamente un male. "C'e' una buona notizia: la rinuncia al
nostro modello di vita non e' affatto il sacrificio di qualcosa di
intrinsecamente buono, per timore di incorrere nei suoi effetti collaterali
nocivi - un po' come quando ci si astiene da una pietanza squisita per
evitare i rischi che potrebbe comportare. Di fatto, quella pietanza e'
pessima di per se', e avremmo tutto da guadagnare facendone a meno: vivere
diversamente per vivere meglio".
*
La societa' della crescita non e' auspicabile per almeno tre motivi: perche'
incrementa le disuguaglianze e le ingiustizie, perche' dispensa un benessere
largamente illusorio, e perche' non offre una possibilita' di vita
conviviale neppure ai "benestanti".
E' un'antisocieta' malata della propria ricchezza, e il miglioramento del
tenore di vita di cui crede di beneficiare la maggioranza degli abitanti dei
paesi del Nord si rivela sempre piu' un'illusione. Indubbiamente, molti
possono spendere di piu' per acquistare beni e servizi mercantili, ma
dimenticano di calcolare una serie di costi aggiuntivi che assumono forme
diverse, non sempre monetizzabili, legate al degrado della qualita'
dell'aria, dell'acqua, dell'ambiente, spese di "compensazione" e riparazione
imposte dalla vita moderna (farmaci, trasporti, intrattenimento), o
determinate dall'aumento dei prezzi di generi divenuti rari (l'acqua in
bottiglie, l'energia, il verde...).
Difatti, mentre si cresce da un lato, dall'altro si accentuano le perdite.
In altri termini, in queste condizioni la crescita e' un mito, persino
all'interno dell'immaginario dell'economia del benessere, se non della
societa' dei consumi. Ma tutto questo purtroppo non basta a farci scendere
dal bolide che ci sta portando diritti contro un muro, per cambiare
decisamente rotta.
*
Intendiamoci bene: la decrescita e' una necessita', non un ideale in se'. E
non puo' certo essere l'unico obiettivo di una societa' del dopo-sviluppo, o
di un altro mondo possibile. Si tratta di fare di necessita' virtu' e di
concepire la decrescita, per le societa' del Nord, come un fine che ha i
suoi vantaggi; mente quest'obiettivo non e' all'ordine del giorno per le
societa' del Sud perche', pur essendo influenzate dall'ideologia della
crescita, il piu' delle volte non sono "societa' della crescita" in senso
proprio.
Adottare la parola d'ordine della decrescita vuol dire innanzitutto
abbandonare l'obiettivo insensato di una crescita fine a se stessa.
Ma attenzione: il significato di decrescita non e' quello di crescita
negativa, espressione antinomica e assurda che e' un po' come dire "avanzare
retrocedendo", e che riflette in pieno il dominio del concetto di crescita
nell'immaginario.
Come e' noto, basta un rallentamento della crescita per allarmare le nostre
societa' con la minaccia della disoccupazione e dell'abbandono dei programmi
sociali, culturali e di tutela ambientale, che assicurano un minimo di
qualita' della vita. Possiamo immaginare gli effetti catastrofici di un
tasso di crescita negativo. Cosi' come una societa' fondata sul lavoro non
puo' sussistere senza lavoro, non vi puo' essere nulla di peggio di una
societa' della crescita senza crescita. Ecco perche' la sinistra
istituzionale e' condannata al social-liberismo, finche' non osa affrontare
la decolonizzazione dell'immaginario.
*
La decrescita e' concepibile solo nell'ambito di una "societa' della
decrescita", i cui contorni devono essere delineati e che non comporta
necessariamente un regresso sul piano del benessere. Un primo passo per una
politica della decrescita, infatti, puo' essere quello di ridurre, se non
sopprimere, l'impatto ambientale, ad esempio "rilocalizzando" l'economia e
ridimensionando l'enorme mole degli spostamenti di uomini e merci sul
pianeta. Non meno importante e' liberarsi della pubblicita' piu' invadente e
rumorosa, contrastando l'obsolescenza artificiale dei prodotti, la cui sola
giustificazione e' quella di far girare sempre piu' vorticosamente la
megamacchina infernale.
Un drastico ridimensionamento dei processi che comportano danni ambientali,
cioe' della produzione di valori di scambio incorporati in supporti
materiali fisici, non comporta necessariamente una limitazione della
produzione di valori d'uso per mezzo di prodotti immateriali. Per questi
ultimi si potrebbe conservare, almeno in parte, una forma mercantile.
Tuttavia, se il mercato e il profitto possono sussistere come incentivi, non
devono piu' costituire il fondamento del sistema. Si potrebbero concepire
misure progressive da adottare in una serie di tappe.
Ma e' impossibile dire se saranno accettate passivamente dagli attuali
"privilegiati" che ne sarebbero colpiti, essi stessi vittime del sistema,
dal quale sono mentalmente e fisicamente drogati. Comunque, piu' di quanto
possano fare tutti i nostri argomenti, l'inquietante canicola dell'estate
2003, in particolare nell'Europa sud-occidentale, sta a dimostrare la
necessita' di una societa' della decrescita. Temo che, per l'indispensabile
decolonizzazione dell'immaginario, potremo largamente contare negli anni a
venire sulla pedagogia delle catastrofi.
*
Note
1. The Business Case for Sustainable Development. Documento del World
Business Council for Sustainable Development per Johannesburg.
2. Mauro Bonaiuti, Nicholas Georgescu-Roegen, Bioeconomia. Verso un'altra
economia ecologicamente sostenibile, Bollati Boringhieri, Torino, 2003. in
particolare, pp. 38-40.

4. MAESTRE. ELENA LOEWENTHAL: TESHUVAH
[Da Elena Loewenthal, Eva e le altre. Letture bibliche al femminile,
Bompiani, Milano 2005, riprendiamo questo minimo frammento, ivi a p. 220.
Elena Loewenthal, limpida saggista e fine narratrice, acuta studiosa; nata a
Torino nel 1960, lavora da anni sui testi della tradizione ebraica e traduce
letteratura d'Israele, attivita' che le sono valse nel 1999 un premio
speciale da parte del Ministero dei beni culturali; collabora a "La stampa"
e a "Tuttolibri"; sovente i suoi scritti ti commuovono per il nitore e il
rigore, ma anche la tenerezza e l'amista' di cui sono impastati, e fragranti
e nutrienti ti vengono incontro. Nel 1997 e' stata insignita altresi' del
premio Andersen per un suo libro per ragazzi. Tra le opere di Elena
Loewenthal: segnaliamo particolarmente Gli ebrei questi sconosciuti, Baldini
& Castoldi, Milano 1996, 2002; L'Ebraismo spiegato ai miei figli, Bompiani,
Milano 2002; Lettera agli amici non ebrei, Bompiani, Milano 2003; Eva e le
altre. Letture bibliche al femminile, Bompiani, Milano 2005; con Giulio Busi
ha curato Mistica ebraica. Testi della tradizione segreta del giudaismo dal
III al XVIII secolo, Einaudi, Torino 1995, 1999; per Adelphi sta curando
l'edizione italiana dei sette volumi de Le leggende degli ebrei, di Louis
Ginzberg]

Teshuvah e' la parola del ritorno. Essa indica quel cammino a ritroso grazie
al quale si ripensa il passato per modificare il presente e, possibilmente,
il futuro. Ravvedersi e' riconoscere cio' che e' stato per fare in modo che
non sia piu' cosi'. Intaccare il tempo con il pensiero e' una specie di
rimedio all'irreparabile, ma anche una maniera per non negare i propri
errori commessi. "Li riconosco. Sono stato io. Ero cosi', ma ora non lo sono
piu'": questa e' la teshuvah, un pentimento che ha poco a vedere con la
morale e con la grazia, ma e' piuttosto una condotta di vita che prima di
ogni altra cosa condanna la rimozione, l'oblio consapevole. La teshuvah non
ammette sconti con il passato: esso si staglia alle spalle, fa ombra e
talvolta incombe. Per spingerlo via, non resta che tornare indietro insieme
a esso. Inutile tentare di scalzarlo con le spalle, bisogna voltargli lo
sguardo. Questo e' ravvedersi.

5. RILETTURE. ROBERT NOZICK: ANARCHIA, STATO E UTOPIA
Robert Nozick, Anarchia, stato e utopia, Le Monnier, Firenze 1981, poi (in
nuova traduzione) Il Saggiatore, Milano 2000, Net, Milano 2005, pp. 384,
euro 13. Uno dei testi piu' acuti e influenti del pensiero politico
neoliberale.

6. RILETTURE. JEAN STAROBINSKI: TRE FURORI
Jean Starobinski, Tre furori, Garzanti, Milano 1978, 1991, pp. 136, lire
16.000. Con la profondita' di sguardo che gli e' propria, e valorizzando
variegati e adeguati strumenti e metodologie di osservazione e comprensione,
Starobinski interpreta l'Aiace sofocleo, l'episodio dell'indemoniato
geraseno in Marco, Lincubo di Fuessli.

7. RILETTURE. SERGIO QUINZIO: DIARIO PROFETICO
Sergio Quinzio, Diario profetico, Guanda, Parma 1958, Adelphi, Milano 1996,
pp. 222, lire 20.000. Il primo libro di Quinzio, nato dalle lettere che
scriveva al fratello: "Non c'era mai stato un momento in cui avessi deciso
di scrivere qualcosa destinato alla pubblicazione. Le cose andarono
diversamente. Mi trovavo nel castello angioino-aragonese di Gaeta, in
servizio di prima nomina come sottotenente della Guardia di finanza. Pativo
una desolata solitudine e scrivevo a mio fratello. Fu lui, che per la
verita' non era stato un solerte interlocutore, a portarmi un giorno un
pacchetto con tutte le lettere che gli avevo spedito". In 305 brevi testi
una meditazione religiosa gia' bruciante.

8. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.

9. PER SAPERNE DI PIU'
* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per
contatti: azionenonviolenta at sis.it
* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia:
www.peacelink.it/users/mir; per contatti: mir at peacelink.it,
luciano.benini at tin.it, sudest at iol.it, paolocand at inwind.it
* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per
contatti: info at peacelink.it

LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 1023 del 15 agosto 2005

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