La domenica della nonviolenza. 34



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LA DOMENICA DELLA NONVIOLENZA
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Supplemento domenicale de "La nonviolenza e' in cammino"
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it
Numero 34 del 14 agosto 2005

In questo numero:
1. Johan Galtung: Una conferenza a Roma del giugno 2004
2. Donne e uomini di cultura musulmana: Un manifesto delle liberta'
3. Mariuccia Salvati presenta "Camillo Berneri" di Carlo De Maria

1. RIFLESSIONE. JOHAN GALTUNG: UNA CONFERENZA A ROMA DEL GIUGNO 2004
[Dal mensile "Lo straniero", n. 52, ottobre 2004 (sito:
www.lostraniero.net), riprendiamo la seguente sintesi della conferenza
tenuta a Roma il 24 giugno del 2004 da Johan Galtung, nella trascrizione
curata da Giulio Marcon e Duccio Zola, con il titolo "Nessun impero dura per
sempre. Verso un nuovo ordine mondiale?".
Johan Galtung, nato in Norvegia nel 1930, fondatore e primo direttore
dell'Istituto di ricerca per la pace di Oslo, docente, consulente dell'Onu,
e' a livello mondiale il piu' noto studioso di peace research e una delle
piu' autorevoli figure della nonviolenza. Una bibliografia completa degli
scritti di Galtung e' nel sito della rete "Transcend", il network per la
pace da lui diretto, cui rinviamo: www.transcend.org
Giulio Marcon, presidente del Consorzio italiano di solidarieta' (Ics), e'
tra gli ispiratori del progetto Sbilanciamoci. Rapporto sulla finanziaria.
Opere di Giulio Marcon: (a cura di), Fare la pace, Kaos Milano 1992; Il
paese nascosto. Storie di volontariato, Edizioni e/o, Roma 1993;
Volontariato italiano, Lunaria, Roma 1996; Le ambiguita' degli aiuti
umanitari. Indagine critica sul terzo settore, Feltrinelli, Milano 2002;
Come fare politica senza entrare in un partito, Feltrinelli, Milano 2005.
Duccio Zola e' un ricarcatore impegnato nel progetto Globi dell'associazione
Lunaria di Roma]

Giovedi' 24 giugno 2004 l'associazione Lunaria, in collaborazione con il
Master in Educazione alla pace dell'Universita' degli Studi di Roma Tre, ha
invitato un ospite d'eccezione, Johan Galtung, a delineare i possibili
scenari geopolitici dopo la fine dell'era imperialistica americana. La
conferenza ha avuto luogo presso la facolta' di Lettere di Roma Tre.
Johan Galtung (Oslo, 1930) e' il piu' insigne teorico dei moderni studi
sulla pace. Studioso del pensiero gandhiano della nonviolenza, ha sviluppato
un approccio teorico-metodologico interdisciplinare e organico, capace di
legare economia, sociologia, letteratura, storia delle civilta' e delle
religioni. Molti dei suoi saggi e delle sue pubblicazioni sono raccolti nei
nove volumi di "Essays on Peace Resarch and Methodology". Fondatore nel 1959
dell'International Peace Research Institute di Oslo, consigliere presso le
Nazioni Unite, professore onorario in numerose universita', tra cui la
Princeton University e la Freie Universitaet di Berlino, attualmente
titolare della cattedra di Peace Studies presso l'Universita' delle Hawaii,
Galtung ha dato vita al "Journal for Peace Research" e al "Bulletin of Peace
Proposals". La sua decennale attivita' scientifica e divulgativa gli ha
meritato il conferimento, nel 1987, del Right Livelihood Award (sorta di
Nobel alternativo per la pace). Direttore di Transcend (www.transcend.org),
un'organizzazione internazionale per la risoluzione dei conflitti che opera
in tutto il mondo, la sua ultima fatica e' La pace con mezzi pacifici (Peace
by peaceful means), pubblicato in Italia da Esperia. Cosmopolita, poliglotta
e instancabile viaggiatore, legato all'Italia e alla cultura italiana,
Galtung e' un grande conoscitore delle opere e del pensiero di Aldo Capitini
e Danilo Dolci, che ha frequentato in anni lontani.
*
La trama della conferenza che ha tenuto per noi si dipana a partire da un
nodo centrale che potrebbe, a tutta prima, sembrare paradossale e
addirittura provocatorio, la fine dell'imperialismo americano. Galtung
ritiene che l'attuale politica estera americana, fondata su una volonta' di
dominio imperiale e su una logica unilateralistica irrispettosa del diritto
internazionale, non possa durare a lungo. Proprio come e' avvenuto per
l'Unione Sovietica, anche l'impero degli Stati Uniti finira' schiacciato
sotto il peso di quelle contraddizioni che emergono, ad esempio, dal suo
preoccupante isolamento internazionale. La conclusione di un'epoca segnata
dalla potenza economica, culturale, politica e militare americana
determinera' la creazione di un nuovo scenario geopolitico.
In questo quadro si inseriscono le analisi, le predizioni, le proposte di
Galtung per realizzare un ordine mondiale fondato sulla cooperazione
internazionale e sulla pace, in cui il modello federativo possa garantire un
riconoscimento reciproco, una condivisione delle forme di sovranita' e un
dialogo tra diversi. Il tema della riforma strutturale e della
democratizzazione delle Nazioni Unite rappresenta dunque la logica
conclusione del discorso di Galtung, in cui si intrecciano dimensione
descrittiva e dimensione prescrittiva, battute taglienti e analisi
illuminanti. La divisione in paragrafi rispecchia l'impostazione della
relazione dell'autore, scandita in diverse aree geografico-tematiche, mentre
il titolo dei paragrafi rimanda a elementi concettuali centrali di ognuno di
essi. Non e' stato purtroppo possibile rendere in forma scritta
l'appassionante incedere della narrazione di Galtung, che ha tenuto la
conferenza in un italiano colto e brioso. L'invito e' quello di ascoltarlo
personalmente, appena tornera' in Italia. La sua conferenza e' stata
dedicata alla memoria di Tom Benettolo.
*
L'Unione Sovietica, gli Stati Uniti e la teoria della sinergia delle
contraddizioni sincronizzate
Gli imperi vengono, gli imperi vanno. Nessun impero dura per sempre. Un
impero e' un insieme articolato di conquiste militari, dominio politico,
sfruttamento economico e penetrazione culturale. Per una corretta
definizione di cosa si intenda per impero non ci si puo' dunque ridurre alla
sola dimensione economica. La conferma indiretta di questa teoria viene da
un famoso pianificatore del Pentagono [Ralph Peters, colonnello
dell'esercito americano durante gli anni ottanta e novanta - ndr], il quale
ha affermato che il fine dell'esercito degli Stati Uniti sia quello di
rendere il mondo sicuro per favorire, oltre all'interesse commerciale,
l'offensiva culturale americana, prima di aggiungere con grande
lungimiranza: "Toward this end there will be a fair amount of killing" ("Per
questo scopo avremo un numero non trascurabile di morti").
A tal proposito e' bene ricordare che, in seguito a settanta interventi
militari a partire dal secondo dopoguerra, gli Stati Uniti si sono resi
colpevoli della morte di un numero di persone compreso tra dodici e sedici
milioni. L'ultimo di questi interventi, risalente a poche settimane fa,
porta il nome di Haiti, il penultimo quello dell'Iraq.
Nel 1980 ho sviluppato una teoria sulla fine dell'impero dell'Urss che aveva
come fondamento la "sinergia delle contraddizioni sincronizzate" e che
prevedeva il crollo sovietico entro dieci anni, preceduto dalla caduta del
muro di Berlino. Un impero fortemente militarizzato, che imponga uno
strettissimo controllo sociale, e' in grado di impedire che una
contraddizione generi una condizione di crisi irreversibile, ma quando le
contraddizioni aumentano e si crea una correlazione tra di esse, l'unica
soluzione e' rappresentata da un cambio dell'intero sistema.
Nell'ex-Unione Sovietica erano presenti sei contraddizioni sincronizzate,
tra l'Unione Sovietica stessa e gli Stati satellite, tra la nazione russa e
le altre nazioni dell'impero, tra aree urbane e rurali, tra borghesia
socialista e classe operaia socialista, tra liquidita' e mancanza cronica di
beni di consumo, tra miti e realta'.
Due mesi prima rispetto alla mia previsione, nel novembre del 1989, e' stato
abbattuto il muro di Berlino, subito dopo si e' smembrato l'impero
sovietico.
Ebbene, al momento gli Stati Uniti hanno ben quindici contraddizioni, che
non elenchero' in questa sede, ma che potete trovare sul sito di Transcend,
l'organizzazione internazionale per la risoluzione dei conflitti di cui sono
direttore.
Cinque anni fa, nel 1999, ho azzardato che l'impero americano sarebbe
crollato entro venticinque anni. Da quando e' stato eletto Bush, ho ridotto
di cinque anni questa previsione: nelle teorie sistemiche si direbbe che
siamo di fronte a un acceleratore di sistema. A differenza di Bill Clinton,
persona brillante che non ha creduto nel ruolo imperiale statunitense e per
questo si e' occupato di altro alla Casa Bianca, anche di attivita' non
proprio virtuose, trovo che Bush sia profondamente arrogante e ignorante.
Meglio ancora, credo che egli sia stupido, esattamente come uno studente di
un college che non riesce ad andare oltre una misera "c" nelle sue
votazioni. Naturalmente sto sperando nella sua rielezione! Dietro questa
battuta si celano una reale preoccupazione e una piccola provocazione nei
confronti di John Kerry, che considero piu' come una sorta di Bush-light,
che come un'alternativa affidabile in grado di segnare una svolta decisiva
nei confronti della politica imperialista di Washington.
A questo punto proviamo a intraprendere un rapido giro del mondo per
identificare i possibili scenari del cambiamento geopolitico dovuti alla
scomparsa dell'attuale forma di dominio imperiale americano, iniziando
proprio dagli Stati Uniti.
*
Golpe fascista o processo di verita' e riconciliazione negli Stati Uniti?
Quando, come abbiamo detto, tra quindici o venti anni un presidente
americano illuminato si rendera' conto dell'inevitabilita', per gli Stati
Uniti, di ritirare le truppe di occupazione, di ridurre drasticamente il
numero delle basi militari dislocate ai quattro angoli del mondo, di
partecipare alle relazioni internazionali come un paese uguale a tutti gli
altri e non piu' sovraordinato a essi, quando insomma si apprestera' a
modificare radicalmente la politica estera americana, allora prevedo la
minaccia incombente di un golpe di stampo fascista e reazionario. Lo scopo
di questo colpo di stato, che ricalcherebbe quello sfiorato negli anni
1932-'33 durante la presidenza di Roosevelt, sarebbe di riaffermare il
dominio imperiale della nazione americana, naturalmente sotto il mandato di
Dio come popolo eletto. Cio' che dobbiamo fare fin da ora, dunque, e'
insegnare al popolo americano i valori dell'uguaglianza, far capire loro che
non esistono popoli scelti, che apparteniamo tutti allo stesso pianeta, che
solo lavorando insieme possiamo migliorare le cose e che il luogo deputato
per un'azione politica comune e condivisa si chiama Onu, a patto che il
funzionamento di quest'ultimo non dipenda esclusivamente dal ruolo di un
consiglio di sicurezza dotato di poteri esclusivi ed egemonizzato da
un'unica superpotenza.
Quando mi reco negli Stati Uniti per tenere conferenze o seminari e faccio
circolare la lista dei settanta interventi militari americani cui prima
accennavo, mi accorgo che c'e' un'ignoranza diffusa su questi temi. Un
professore universitario americano mi ha raccontato che nel 1991 aveva
chiesto in un test ai propri studenti di indicare tra quali nazioni fosse
stata combattuta la guerra del Vietnam. La risposta piu' frequente era stata
tra Corea del Nord e Corea del Sud. Uno studente aveva addirittura sbagliato
a scrivere correttamente il nome dei due paesi. Da questo esempio si
capiscono molte cose, si capisce ad esempio perche' gli americani non
abbiano compreso affatto l'11 settembre. Essi non colgono il nesso
strettissimo tra economia e guerre. A questo proposito vorrei far notare che
uno studioso italiano molto famoso ha scritto un testo, "Impero", senza
analizzare gli interventi militari americani. Naturalmente questo libro, che
personalmente non ho apprezzato affatto, e' stato entusiasticamente
pubblicato negli Stati Uniti dalla Harvard University Press!
Sono convinto che in America ci sia bisogno di un processo pubblico di
verita' e riconciliazione e che sia assolutamente realistico attendersi
questo esito.
E' importante ricordare che l'emancipazione dei cittadini tedeschi
dall'eredita' del passato nazista e' avvenuta proprio in seguito a un
percorso analogo, che essi hanno compiuto non soltanto grazie all'ammissione
delle proprie colpe, al risarcimento economico nei confronti di chi e' stato
vittima del regime hitleriano, alla confessione totale dei propri crimini,
ma anche grazie alla pubblicazione di testi scolastici e alla diffusione di
un tipo di narrativa in cui la parola Auschwitz ricorre molto spesso. In
questo modo le generazioni che si sono succedute dal dopoguerra hanno avuto
la possibilita' di capire e di imparare: oggi la Germania e' uno Stato
democratico e per molti aspetti illuminato. Il nostro compito, oggi, e'
quello di sostenere con forza le ragioni del dialogo e del confronto
culturale in modo tale che anche i nostri amici americani possano svelare la
verita' che finora e' rimasta loro nascosta.
Tornando al nostro breve viaggio intorno al mondo, una scossa positiva negli
Stati Uniti senza dubbio favorirebbe il processo di liberazione che sta
avvenendo in America Latina, processo che vedo destinato alla futura
costituzione degli Stati Uniti dell'America Latina: proprio come per gli
Stati Uniti, ma senza la bomba atomica!
Spostiamoci ora in Europa occidentale, dove la situazione e' particolarmente
delicata.
*
L'effetto euro e il peso genetico del passato coloniale europeo
Gli europei non immaginano quale minaccia rappresenti per gli Stati Uniti il
percorso di cementificazione dell'Unione Europea. Essi, preoccupati
piuttosto dell'impatto dell'euro sulle rispettive economie nazionali, non
conoscono il pericolo dell'introduzione di una moneta continentale sempre
piu' forte e accreditata per gli scambi internazionali rispetto a un dollaro
svalutato e soggetto a tendenze inflazionistiche. In America c'e' il forte
timore che l'euro venga utilizzato come moneta di scambio commerciale, che
in euro, ad esempio, venga pagato il petrolio. Saddam Hussein, non a caso,
e' stato il primo capo di stato a concretizzare le paure americane:
un'analisi esauriente della guerra irachena non puo' prescindere da una
chiave di lettura che tenga conto delle relazioni geopolitiche ed economiche
tra blocchi continentali.
Per quanto riguarda il futuro europeo, dobbiamo prestare molta attenzione al
fatto che ben undici nazioni dell'Unione abbiano avuto un passato coloniale.
L'Italia, ad esempio, e' stato tra i primi paesi a utilizzare il terrorismo
di stato per fini imperialistici. Quando, nel 1911, sono avvenuti
bombardamenti e massacri di civili nel deserto libico, l'esercito italiano
ha rivendicato il buon esito dell'operazione, sostenendo di aver prodotto un
effetto morale molto positivo. Forse anche per l'Italia, almeno nel caso
della vicenda libica, c'e' bisogno di un processo di verita' e
riconciliazione. Tenere presente il peso genetico del passato coloniale
europeo, allora, e' di fondamentale importanza per impedire che si affermi
in Europa una linea politica centrata sulla volonta' di istituire un
contrappeso, o meglio un'alternativa imperialista nei confronti degli Stati
Uniti.
L'Europa, invece, deve restare sotto l'ombrello di un'Onu riformata.
L'entrata a breve termine della Turchia nell'Unione, inoltre, e' un fatto
molto positivo che puo' colmare il vuoto di relazioni, la distanza politica
e culturale, tra l'Islam e l'Occidente, e puo' rappresentare l'occasione per
un ruolo di pace e dialogo da parte di questo continente.
Un altro elemento degno di considerazione e' la possibilita' di intrattenere
buone relazioni con una futura e possibile Unione Russa, in cui per la
Cecenia si prospetti una collocazione autonoma e federata, simile a quella
del Lussemburgo rispetto all'Unione Europea.
Quest'ultima dunque, se si delineasse il quadro che ho appena abbozzato,
potrebbe risolvere due seri problemi, il rapporto con il mondo musulmano e
quello con le regioni cristiano-ortodosse e potrebbe contare su un futuro
piu' sereno e su un ruolo centrale nelle future relazioni internazionali.
Quando terminera' la fase imperiale americana prevedo che si verra' a
costituire una comunita' dell'Asia orientale tra paesi confuciani e
buddisti, comprendente Giappone, Cina, Vietnam e Corea, forte di una
popolazione di oltre un miliardo e mezzo di persone e di una economia dai
tassi di crescita notevoli, con i cui futuri stati membri l'Unione Europea
ha gia' intessuto buoni rapporti. Andiamo a verificare ora la situazione
mediorientale e quella africana.
*
Un'autostrada, una ferrovia: un modello federativo per Africa e Medio
Oriente
L'idea di Abramo di indicare una terra promessa per un popolo eletto e'
interessante, ma, come dicono gli arabi, nessuno ha firmato questo patto,
ne' esiste una registrazione o un rapporto stenografico in merito! Dico
questo per sottolineare la presenza di un asse religioso di stampo
fondamentalista tra giudaismo e cristianesimo, un'alleanza pericolosa e
molto stretta, la cui voce, sostenuta negli Stati Uniti da una lobby di
pressione piu' forte ancora della National Rifle Association, gode di grande
ascolto e considerazione a Washington.
Personalmente credo nella legittimita' dell'esistenza di uno stato
israeliano e di uno palestinese, ma non ritengo che la soluzione dei "due
popoli, due stati" sia la migliore. Tra i due paesi c'e' una evidente
sproporzione di forze a scapito della Palestina, attestata peraltro dalle
risoluzioni Onu n. 242 e 338, che priverebbe di qualsiasi fondamento questo
progetto. Dovremmo piuttosto pensare a un modello federativo, a creare cioe'
una comunita' di paesi mediorientali, di cui facciano parte uno stato
palestinese riconosciuto, Israele, Siria, Libano, Giordania e Egitto, e in
cui proprio le nazioni arabe, in particolare quella egiziana, possano
rappresentare un legittimo contrappeso rispetto a Israele. Dopo mille anni
senza traccia alcuna di una sinergia tra le culture mediorientali, questa
soluzione permetterebbe, sul modello della Comunita' europea del 1958,
l'affermazione di un'economia cooperativa e, nel lungo periodo, della libera
circolazione delle persone, oltre che degli investimenti, nell'intera
regione.
Un primo segnale per dar corpo al progetto federativo potrebbe essere quello
di realizzare un'autostrada che attraversi tutta la zona mediorientale, che
parta da Damasco e arrivi al Cairo, passando per Tiberiade, Gerusalemme, Tel
Aviv, Gerico, Amman e Akaba. Dal punto di vista politico il tracciato da
seguire non puo' pero' essere quello, tradizionale, delle relazioni
diplomatiche tra i governi della regione interessata. Oggi quei governi sono
screditati, non godono di rappresentativita' e non possono essere
considerati interlocutori affidabili.
Ho tenuto moltissimi seminari, conferenze, incontri in Medio Oriente e ho
accumulato una lunga esperienza da cui ho tratto un insegnamento e
un'indicazione preziosi. Occorre agire dal basso, coinvolgendo in modo ampio
e costante quante piu' persone e gruppi possibili della societa' civile
mediorientale per prospettare insieme gli scenari di una regione pacificata.
Invece di rivolgere lo sguardo al passato, di risvegliare odi e rivalita'
mai sopiti attribuendo colpe e responsabilita', e' necessario elaborare idee
costruttive tenendo presente che l'unico collante possibile e' la volonta'
di costruire un futuro comune di pace e cooperazione. Quando ho fatto
questo, quando insieme si e' discusso su quale futuro si immagina per il
Medio Oriente, ho visto occhi lucidi e carichi di speranza. La pace sta nel
futuro, non in un dibattito senza uscita sulle colpe del passato. Questo lo
sanno soprattutto le giovani generazioni mediorientali, su cui ripongo
grandi aspettative.
Il modello federativo che ho proposto per il Medio Oriente vale anche per
l'Africa centrale. Qui, dove e' molto forte il peso dell'imperialismo
europeo, vedo infatti la possibilita' della costituzione di una
Confederazione Bioceanica, che comprenda Tanzania, Uganda, Ruanda, Burundi,
Repubblica democratica del Congo e Congo Brazzaville. Parlo di una
confederazione con confini aperti, dall'Oceano Indiano all'Oceano Atlantico,
attraversata da una ferrovia, a patto che non venga costruita dagli europei:
a essi piuttosto andrebbe cambiata la bussola dal momento che non conoscono
la direttrice est-ovest, ma solo quella nord-sud! Per quanto riguarda,
inoltre, l'intero continente, dobbiamo sostenere con forza il processo di
unita' africana, fortemente osteggiato da Europa e Stati Uniti. Noi
occidentali non abbiamo alcun diritto di mantenere le divisioni, ma solo il
dovere delle scuse, del risarcimento e della verita' nei confronti delle
popolazioni africane che abbiamo colonizzato e sfruttato.
*
La Cina, l'India, la Russia, il documento JCS570/2 e la terza guerra
mondiale
Spostiamoci ora nella zona piu' delicata del mondo, quella che comprende
Cina, India e Russia.
Proprio qui gli Stati Uniti stanno preparando la terza guerra mondiale. Gli
strateghi americani della Casa Bianca e del Pentagono seguono una dottrina
imperiale che si puo' sintetizzare in una vecchia formula, risalente al
periodo coloniale inglese dei primissimi anni del Novecento: chi domina
l'Europa orientale, domina l'Asia centrale; chi domina l'Asia centrale,
domina l'isola mondiale (cioe' la regione che comprende Europa, Asia e
Africa); chi domina l'isola mondiale, domina il mondo.
Questa tesi, evidentemente folle, gode di grande considerazione a
Washington. Essa viene riproposta nientemeno che nel piu' importante e
illuminante documento che attesta la linea geopolitica imperialista
americana, il documento JCS570/2. Provate a richiederlo presso l'ambasciata
o il ministero degli esteri americano, vedrete che faccia faranno! Questo
documento rappresenta la risposta all'interrogativo di Roosevelt riguardo a
quale linea di politica estera avrebbero dovuto tenere gli Stati Uniti dopo
la conclusione della seconda guerra mondiale.
L'esigenza era quella di rendere il mondo sicuro per i commerci americani. A
questo scopo furono individuate tre aree geografiche su cui imporre un
rigido controllo, l'Europa occidentale, l'Asia orientale e l'America Latina
del nord. Il progetto fu concretizzato e formalizzato attraverso la sigla di
tre distinti trattati militari, rispettivamente la Nato, l'Ampo e il Tiap.
Lo stesso Kerry si e' pronunciato a favore del mantenimento di questo
sistema di alleanze in modo tale da poter continuare a dominare il mondo con
mezzi multilaterali, cioe' con l'appoggio degli alleati. Da cio' si capisce
il motivo per cui non mi aspetto molto da lui.
Tornando alla regione di Cina, India e Russia appare subito evidente che
essa presenta il 40% dell'intera popolazione mondiale e che si situa
precisamente nel bel mezzo dell'espansione della Nato, da una parte, e
dell'Ampo, dall'altra. Se a questo poi aggiungiamo che gli Stati Uniti
stanno prendendo il controllo della regione grazie alla costruzione di
numerosi avamposti militari, ad esempio nelle repubbliche islamiche
dell'ex-Unione Sovietica, e che i tre paesi in questione prevedibilmente
raggiungeranno un accordo per il controllo comune della zona, avremo tutti
gli elementi per comprendere la delicatezza della situazione.
Di tutto questo, naturalmente, nessuno sa nulla. I giornalisti invece di
promuovere un dibattito, di informare l'opinione pubblica su temi cosi'
importanti, preferiscono restare a dormire nel proprio letto, in attesa di
essere svegliati dall'esplosione di una bomba e di poter dare cosi' notizia
dell'inizio di una nuova guerra.
Rimanendo ancora per un momento nell'area asiatica, vorrei accennare al
fatto che l'idea di fare dell'Afghanistan e dell'Iraq due stati unitari e'
un'illusione occidentale. Sul territorio iracheno convivono quattro
nazionalita', curda, turcomanna, sunnita e sciita, su quello afgano ben
undici. Un modello federale e' l'unica alternativa praticabile per questi
due paesi.
*
Una ristrutturazione, un ampliamento, un trasloco: tre riforme per le
Nazioni Unite
Da quanto detto finora apparira' chiaro che per prevenire il delinearsi di
scenari drammatici legati alla volonta' di dominio imperialista, gli Stati
Uniti, molto semplicemente, dovrebbero lasciare la gestione del mondo al
mondo stesso.
Anche se necessita di una profonda riforma, lo strumento per l'auto-governo
del mondo si chiama Onu.
Penso che una complessiva riarticolazione possa avvenire nell'arco di venti
anni e debba fondarsi su tre punti programmatici fondamentali. Il primo di
questi riguarda un ripensamento del ruolo e delle funzioni del Consiglio di
sicurezza. Innanzitutto e' necessario abolire il diritto di veto, un sistema
feudale che non ha nulla da spartire con il mondo moderno e grazie a cui gli
Stati Uniti, che lo hanno utilizzato 76 volte, hanno potuto paralizzare il
funzionamento dell'intera Organizzazione. Si deve inoltre espandere il
numero dei paesi membri del Consiglio di sicurezza a 54, cioe' il numero
degli stati presenti nel Consiglio economico e sociale, l'organo che dirige
con buoni risultati le agenzie speciali.
Infine occorre abolire l'articolo 12/A della carta delle Nazioni Unite, che
afferma che sui temi di competenza del Consiglio di sicurezza, l'Assemblea
generale non ha il diritto di promuovere risoluzioni. Piu' in generale si
puo' affermare che la presenza di cinque membri permanenti, quattro
cristiani e uno confuciano, con diritto di veto all'interno del Consiglio di
sicurezza, sia un'assurdita' clamorosa agli occhi dei 56 stati musulmani.
Noi occidentali potremmo assegnare legittimita' e promettere obbedienza a un
Consiglio di sicurezza egemonizzato dalla presenza del veto di quattro
membri musulmani e uno confuciano? Non credo. Inoltre non vedo come sia
possibile che i paesi musulmani rispettino la volonta' di un Consiglio che
si e' reso colpevole della morte di oltre cinquecentomila persone,
soprattutto bambini, in seguito all'imposizione delle sanzioni economiche in
Iraq. Questo naturalmente non e' un argomento a favore di Saddam Hussein, ma
solo la constatazione di un fatto drammatico. Per uscire pacificamente dallo
stallo e per garantire la piena sovranita' irachena credo che si debba
affiancare all'Onu, necessario ma non sufficiente, la Conferenza islamica,
che conta 56 stati membri e di cui si sente parlare ben poco.
Il secondo punto di riforma riguarda la democratizzazione delle Nazioni
Unite. E' necessario creare un Parlamento che preveda un rappresentante per
ogni milione di cittadini. In questo modo avremmo un'Assemblea con 1.250
cinesi, 1.000 indiani, 275 americani, 190 russi, 9 svedesi, forse un po'
troppi!, 4 norvegesi e via dicendo. La presenza degli occidentali in un
Parlamento siffatto si ridurrebbe al 22%: un buon test per verificare la
disposizione ai valori democratici che diciamo di sostenere. La
precondizione che sta dietro a questa soluzione prevede che tutti i
rappresentanti non siano scelti e designati, bensi' vengano eletti in
elezioni democratiche, regolari, libere e segrete. Questo elemento fondante
consentirebbe, ad esempio, l'avanzamento del processo di democratizzazione
in Cina. Se l'intervento militare in Iraq fosse stato discusso in questo
Parlamento mondiale, e non al Congresso americano, certamente non sarebbe
stato avallato.
Il terzo e ultimo punto di riforma consiste nel trasferimento dell'Onu.
Credo che la sede ideale sia Hong Kong, dove si parlano le due lingue piu'
importanti, inglese e cinese, e dove i servizi segreti cinesi sono
sicuramente meno dannosi rispetto a quelli americani e inglesi. A me pare
che il progetto di riforma che ho appena abbozzato sia pienamente
realistico, non e' invece realistica la continuazione della politica
imperialista americana.
*
Mr President, the choice is yours!
Ho da poco scritto il testo per un'inserzione su un'intera pagina del
"Washington Post". Rivolgendomi direttamente al presidente Bush ho espresso
un'opinione e un giudizio diffusi sugli Stati Uniti e sulla vicenda
irachena. Noi tutti amiamo l'immensa forza creativa e la generosita'
americana e per questo ci aspettiamo una politica forte, generosa e creativa
per l'Iraq. Solo un paese debole non e' in grado di cambiare una linea falsa
e fallimentare. Desideriamo quindi scuse pubbliche e ufficiali nei confronti
del popolo iracheno per aver intrapreso una guerra ingiusta e illegale e
risarcimenti economici per le vittime del conflitto, il cui costo sia in
parte coperto dagli stati che hanno appoggiato l'intervento.
"Mr President, the choice is yours", Signor Presidente, a lei la scelta! Se
Bush, o chi verra' dopo di lui, avra' il coraggio di cambiare radicalmente
la rotta della politica estera americana, guadagnera' rapidamente la stima
per gli Stati Uniti e il terrorismo rapidamente cessera', altrimenti con la
perdita definitiva della prima avremo la crescita esponenziale del secondo.
Se, da una parte, devo ammettere di non essere ottimista sul tanto auspicato
cambio di registro, dall'altra e' doveroso sottolineare che la carta del
cambiamento non sta esclusivamente nelle mani dei vertici
dell'amministrazione politica e militare di Washington, ma anche in quelle
dell'intero popolo americano. Su di esso ripongo le mie speranze. Gli
americani hanno l'occasione di liberarsi definitivamente dell'immagine
ambigua che gli Stati Uniti hanno agli occhi del mondo, di rendere il loro
paese esattamente uguale agli altri 191, di creare e governare insieme a
essi un mondo migliore.

2. FRANCIA. DONNE E UOMINI DI CULTURA MUSULMANA: UN MANIFESTO DELLE LIBERTA'
[Dal mensile "Lo straniero", n. 49, luglio 2004 (sito: www.lostraniero.net),
riprendiamo il seguente testo "Dalla Francia, un manifesto delle liberta',
di donne e uomini di cultura musulmana, credenti, agnostici o atei...",
ripreso dal sito www.manifeste.org]

Donne e uomini di cultura musulmana - credenti, agnostici o atei -, noi
denunciamo con la massima forza le dichiarazioni e gli atti di misoginia, di
omofobia e di antisemitismo di cui siamo testimoni da un certo tempo in
Francia, e che si richiamano all'islam. Vediamo manifestarsi in essi tre
aspetti caratteristici dell'islam politico che infieriscono da molto tempo
in molti nostri paesi di origine e contro i quali noi abbiamo lottato e
siamo intenzionati a continuare a lottare.
*
L'eguaglianza dei sessi, condizione preliminare di ogni democrazia
Sostenitori convinti dell'eguaglianza dei diritti tra i sessi, noi
combattiamo l'oppressione di cui sono vittime le donne sottomesse a codici
che negano molti diritti della persona, come avviene in Algeria (e su questo
punto le recenti conquiste in Marocco gettano una luce molto piu' cruda sui
ritardi algerini), e a volte perfino in Francia per il tramite di accordi
bilaterali. Noi siamo convinti che non ci possa essere una democrazia senza
questa eguaglianza nei diritti, ed e' in questa misura che sosteniamo senza
ambiguita' la campagna chiamata "20 anni, arakat!" (20 anni, basta!)
promossa dalle associazioni delle donne algerine che proseguira' per tutto
il 2004 e che chiede la definitiva soppressione del codice di famiglia
contro il quale esse si battono da vent'anni. E' anche per questo motivo che
noi ci opponiamo all'uso del velo islamico, quale che sia la posizione di
ciascuno sull'opportunita' di una legge che lo ha proibito nelle scuole
francesi. Abbiamo visto in diversi paesi le violenze e perfino la morte
inflitte ad amiche o conoscenti che rifiutavano di portarlo, e diciamo a noi
stessi che, se e' vero che la diffusione del velo nella Francia di oggi ha
trovato un terreno fertile nelle discriminazioni di cui sono vittime i
ragazzi nati nell'emigrazione, questa non ne e' assolutamente una causa, e
di certo non lo e' il richiamo alla memoria maghrebina: dietro la pretesa
"scelta" rivendicata da un certo numero di ragazze velate c'e' la volonta'
di promuovere una societa' politica islamista basata su un'ideologia
militante, attiva sul territorio e che propone valori che noi rifiutiamo.
*
Basta con l'omofobia
Per gli islamisti - come per tutti i maschilisti e gli integralisti -
"essere un uomo" vuol dire esercitare potere sulle donne, compreso il potere
sessuale. Ai loro occhi, ogni uomo che sia per l'eguaglianza tra i sessi e'
potenzialmente un sotto-uomo, un "pede'". Questo modo di pensare e'
ricorrente dopo l'ascesa dell'islamismo politico e la sua ferocia e'
comparabile solo alla sua ipocrisia. Uno degli organizzatori della
manifestazione del 7 gennaio 2004 a favore del velo ha dichiarato che "e'
scandaloso che persone che si sentono scioccate dal foulard non si sentano
invece scioccate dall'omosessualita'": per lui una societa' virtuosa e'
certamente quella che chiude le donne dietro i veli e gli omosessuali dietro
le sbarre, come abbiamo visto accadere in Egitto. C'e' da rabbrividire al
pensiero di cosa queste teorie comporterebbero, qualora trionfassero, per
"gli impudichi", cioe' per le donne non velate, gli omosessuali e i
miscredenti. Noi consideriamo al contrario che il riconoscimento
dell'esistenza dell'omosessualita' e la liberta' per gli omosessuali di
condurre la propria vita secondo le proprie idee siano un progresso
innegabile: a partire dal momento in cui un individuo non contravviene alle
leggi che proteggono i minori, le scelte sessuali di ciascuno riguardano lui
soltanto e in nessun caso lo Stato.
*
Contro l'antisemitismo
Infine noi condanniamo con la piu' grande fermezza le affermazioni
antisemite veicolate negli ultimi tempi da tanti discorsi fatti in nome
dell'islam. Cosi' come le donne "impudiche" e gli omosessuali, anche gli
ebrei sarebbero da distruggere: "Loro hanno tutto e noi niente", si e'
sentito gridare nella manifestazione del 7 gennaio. In questo noi vediamo
all'opera la strumentalizzazione del conflitto israelo-palestinese da parte
dei movimenti integralisti in sostegno dell'antisemitismo piu' inquietante.
Nonostante la nostra opposizione alla politica attualmente condotta dal
governo israeliano noi rifiutiamo di nutrire una visione arcaica e
fantasmatica dell'"Ebreo" tramite l'utilizzazione di un conflitto storico e
reale tra due popoli; noi riconosciamo il diritto all'esistenza di Israele
come e' stato fatto dal Congresso dell'Olp nel 1988 e dal vertice della Lega
araba riunito Beirut nel 2002; ed e' in questo rinnovato riconoscimento che
si inscrive il nostro impegno a fianco del popolo palestinese nel suo
diritto di fondare uno Stato e di far evacuare i Territori occupati.
*
Un laicismo vivo
Siamo ben coscienti che l'islam non e' stato in Francia riconosciuto a
dovere e che manca di luoghi di preghiera, centri di assistenza, cimiteri.
Siamo coscienti che dei giovani francesi figli dell'immigrazione soffrono di
forti ritardi nella loro promozione sociale e di una discriminazione
constatata da tutti gli osservatori, e che l'idea di "laicismo" alla
francese ha perso per loro molto del suo valore. Di fronte a questa perdita
di valore, si prospettano loro due strade: quella di ritrovare la forza di
un laicismo vivo, e cioe' dell'azione politica quotidiana per i propri
diritti e la rivendicazione delle conquiste per i quali gia' si sono battuti
i loro padri e le loro madri, i quali prima che membri dell'islam
appartenevano a determinate classi sociali, culture, popoli, nazioni; o
quella di riconoscersi in una umma fittizia e informatizzata che non ha piu'
niente a che vedere con le realta' che li circonda e che si ammanta di
orpelli repubblicani o terzomondisti per meglio stabilire una societa'
inegualitaria, repressiva, intollerante. Questa seconda strada non puo'
essere certamente la nostra.

3. LIBRI MARIUCCIA SALVATI PRESENTA "CAMILLO BERNERI" DI CARLO DE MARIA
[Dal mensile "Lo straniero" n. 57, marzo 2005 (sito: www.lostraniero.net),
riprendiamo la seguente recensione di Mariuccia Salvati.
Mariuccia Salvati, storica, docente di storia contemporanea all'Universita'
di Bologna, e' condirettrice scientifica della Fondazione Basso, ha fatto
parte della direzione della "Rivista di storia contemporanea", e' stata
membro del comitato scientifico di "Storia, Amministrazione, Costituzione",
e' nel comitato internazionale di "Geneses. Sciences sociales et histoire",
e nella direzione di "Parolechiave" (Roma). Tra le opere di Mariuccia
Salvati: Stato e industria nella ricostruzione (1944-1949), Feltrinelli,
Milano 1982; Da Berlino a New York. Crisi della classe media e futuro della
democrazia nelle scienze sociali degli anni Trenta, Bologna, 1989, B.
Mondadori, Milano 2000 (nuova edizione); Il regime e gli impiegati, Laterza,
Roma-Bari 1992; L'inutile salotto. L'abitazione piccolo-borghese nell'Italia
fascista, Bollati Boringhieri, Torino 1993; Cittadini e governanti. La
leadership nella storia dell'Italia contemporanea, Laterza, Roma-Bari 1997;
Il Novecento. Interpretazioni e bilanci, Laterza, Roma-Bari 2001, 2004; (con
Chiara Giorgi), Introduzione e cura di Lelio Basso, Scritti scelti, Carocci,
Roma 2003.
Carlo De Maria, storico, e' autore del volume: Camillo Berneri. Tra
anarchismo e liberalismo, Franco Angeli, Milano 2004.
Camillo Berneri (1897-1937), pensatore e militante anarchico, antifascista,
esule, accorso volontario in Spagna in difesa della repubblica, fu
assassinato dagli stalinisti; dal sito del Comune di Reggio Emilia
riprendiamo la seguente scheda: "Nato a Lodi nel 1897, Camilo Berneri
trascorre l'infanzia seguendo la madre maestra elementare, nei suoi
incarichi a Palermo, Milano, Cesena, Forli' e Reggio Emilia. Qui entra nel
partito socialista, dove inizia la sua attivita' politica. Alla fine del
1915 passa tra le fila anarchiche. Nel 1916 si trasferisce con la madre ad
Arezzo. L'anno successivo sposa Giovanna Caleffi di Gualtieri e viene
richiamato alle armi. Congedato nel 1919, comincia a collaborare
assiduamente alla stampa anarchica partecipando poi alla costituzione
dell'Unione anarchica italiana. Nel 1922 si laurea in filosofia a Firenze
con Gaetano Salvemini, entra in contatto con Carlo Rosselli ed Ernesto
Rossi, e' vicino a "Italia libera" e collabora con il "Non mollare!". I suoi
studi spaziano da argomenti di carattere filosofico ad altri di contenuto
sociale e politico. Nel 1926 abbandona l'Italia, per recarsi a Parigi dove
inizia la sua collaborazione con la stampa libertaria e dove verra'
arrestato assieme ad altri fuoriusciti italiani, tra cui Carlo Rosselli.
Scarcerato nel maggio del 1930, inizia a peregrinare tra Francia, Belgio,
Olanda, Lussemburgo e Germania. Allo scoppio della guerra civile in Spagna,
e' tra gli organizzatori del primo contingente di volontari italiani. Nel
corso degli scontri del maggio 1937 tra comunisti e anarchici e poumisti,
sara' assassinato il 5 maggio da una pattuglia di polizia comandata da
agenti staliniani". Opere su Camillo Berneri: per un avvio cfr. Carlo De
Maria, Camillo Berneri. Tra anarchismo e liberalismo, Franco Angeli, Milano
2004]

La biografia, per lo storico, e' un'arte difficile, e di non forti
tradizioni nel nostro paese. Se proviamo a chiederci il perche' e a tentare
di rispondere guardando ad altri contesti in cui e' stata meglio praticata -
anglosassoni soprattutto - scopriamo che una delle possibili spiegazioni
risiede nel forte individualismo che caratterizza il "comune sentire" di
quelle societa' e nella voluta esemplarita' delle vite oggetto di studio.
Una societa', cioe', quanto piu' e' articolata e autoriflessiva, tanto meno
accetta di vedersi rappresentata in contrapposizioni sistemiche e deduzioni
astratte: in tal caso le elites diventano una somma di uomini "eminenti", la
vita politica appare l'opera di leaders attentamente e ripetutamente
biografati (con relative storie di famiglie, scuole, amici, club), gli
intellettuali riflettono e scrivono grazie agli intensi scambi che si
producono in precisi circoli, reti, salotti; persino le masse, nel
Novecento, sembrano irriducibili a un uniformante sguardo esterno (1).
Dovremmo concludere, pur consapevoli del rischio di ogni generalizzazione,
che la ricchezza di biografie prodotte da una societa' e' da interpretarsi
come un segnale di riflessivita' e democrazia? E come dovremmo intendere,
allora, il caso italiano?
*
A questo genere di considerazioni - storiografiche, metodologiche,
sociogenerazionali - induce la lettura del saggio di Carlo De Maria su
Camillo Berneri (Franco Angeli Editore) in cui si combinano rigore
filologico, approfondimento problematico e simpatia umana. Uso volutamente
il termine saggio, perche' il suo giovane autore, Carlo De Maria, si
dimostra in grado di offrire, pur affrontando un argomento denso di
autorevoli antecedenti (2), una interpretazione nuova e originale. La
novita' e' data dalla scelta dell'approccio biografico: nel racconto sullo
snodarsi degli anni di questa breve vita (40 anni), non solo apprendiamo
nuovi particolari e nuove informazioni (si tratta del primo lavoro completo
e sistematico compiuto sul fondo archivistico della famiglia, integrato da
altri archivi privati e dall'Acs), ma vediamo come la personalita' stessa di
Berneri si venga costruendo, in Italia, in luoghi significativi (Reggio
Emilia e Firenze) e si vada poi dispiegando nell'impegno militante,
prevalentemente all'estero, in esilio: Parigi, Bruxelles (ma anche Ginevra,
l'Olanda, Berlino), di nuovo Parigi e infine Barcellona.
Basterebbe l'elenco delle citta' in cui ha vissuto per raccontare la vita di
Berneri, ma nel racconto, come nella vita, dell'anarchico, le citta' sono
soprattutto occasioni di incontri e di stimoli: e' con riferimento a questi
luoghi e agli uomini che vi ha conosciuto (i piu' influenti sono Salvemini a
Firenze e Rosselli a Parigi) che De Maria delinea i tratti salienti della
figura di Berneri come "militante" (una parola che qui si carica di nuovi
significati), quei tratti che rendono problematica ogni definizione univoca
del suo pensiero politico. Reggio Emilia, capitale del socialismo
prampoliniano, da cui Berneri si distacca con la nota "Lettera aperta ai
giovani socialisti di un giovane anarchico", nel 1915 (Berneri era nato nel
1897); Firenze, "l'Atene d'Italia" (3), la capitale della cultura critica
anti-giolittiana, dove egli trova finalmente un maestro in Gaetano Salvemini
e gli amici di una vita tra i suoi allievi (Rosselli); Parigi, il lavoro, lo
studio e la riflessione, ma anche l'attivita' militante per intrecciare
alleanze tra i gruppi politici in esilio, sullo sfondo di tristi e tragiche
storie di provocazioni e di infiltrazioni da parte della polizia fascista;
Bruxelles, Ginevra, Berlino, tutti luoghi in cui Berneri si aggira inseguito
da mandati di polizia, intimazioni di arresto e di espulsione dal territorio
francese, ma anche dove proseguono i contatti con gli esuli: socialisti
(Jacometti), repubblicani (Schiavetti), popolari (F. L. Ferrari) e,
soprattutto, Giustizia e Liberta' (4).
*
Mai come in questo caso, le citta sono simboli, piu' che spazi fisici,
luoghi "non innocenti" - avrebbero detto i situazionisti - perche' ricchi di
storie e di memorie di tanti individui che hanno lasciato un segno, come qui
si racconta. Sullo sfondo, due citta' in cui l'anarchico non visse mai, ma
da cui dipesero la sua vita... e la sua morte. Roma e Mosca: due citta'
simbolo della "sconfitta dell'antifascismo" (come scrive con disincanto
Berneri a meta' degli anni trenta, osservando quanti studiosi francesi
antifascisti fossero accorsi al convegno di studi corporativi in Roma del
1935, e quanti altri visitassero la Mosca di Stalin). Roma e' la sede della
macchina spionistica che oggi consente allo storico De Maria di ricostruire
una diversa vicenda biografica, quella narrata da uno sguardo esterno e
nemico; ma e' soprattutto la capitale del fascismo, nei confronti del quale
l'odio di Berneri, nel corso del tempo, cresce e si dilata, mentre
progressivamente calano le speranze, fino a comprendere tutte le dittature.
Eppure il fascismo non perde i suoi connotati specificatamente italiani: per
lui, il fascismo romano e' l'esito della storia di uno Stato accentrato, ma
anche di un momento politico e psicologico particolare, il 1919-'20, su cui
si sofferma a piu' riprese stigmatizzando con lucida consapevolezza il
ricorso a una diseducativa demagogia da parte dei capi dell'opposizione
(ricordando un discorso di Bombacci, Berneri scrive nel 1936 su "L'Adunata
dei refrattari": "Oggi e' costume ridere della retorica fascista. Ma siamo
delle scimmie che ridono davanti a uno specchio"). Ostile al mito astratto
delle masse operaie, con annessa retorica (cui dedica un apposito pamphlet,
"L'operaiolatria"), egli non crede nemmeno al loro innato spirito
rivoluzionario e tanto meno alla leadership di Mosca, la citta' del
bolscevismo (cui Berneri contrappone il "soviettismo"), cioe' di una nuova
forma di ipertrofico Stato-governo (in una lettera a L. Battistelli del 7
dicembre 1929, Berneri manifesta il suo dissenso di fronte al bolscevismo
russo, per eccesso di comunismo e non per difetto, contrariamente a quasi
tutti i suoi compagni).
*
Le parole-chiave del suo pensiero, ricostruisce De Maria attraverso testi
editi e inediti, sono, infatti: liberta' (5), federalismo, comunalismo, in
sintonia con la tradizione anarchica, cui Berneri, di suo, aggiunge un forte
pragmatismo, "problemismo" e individualismo (di marca cattaneana e
salveminiana), una visione moralmente elevata, quasi ascetica, dei compiti
delle elites (cio' che lo avvicina a Rosselli, Trentin, e soprattutto a
Gobetti), una interpretazione della auspicata rivolta anarchica come
rivoluzione italiana, nazionale, radicata: Cattaneo e Salvemini, piu'
Pisacane, usava elencare, per sintetizzare il proprio pensiero, aggiungendo
anche il soviettismo (alla Luxemburg).
Sullo sfondo del quadro cosi' delineato (un quadro difficile da comporre,
perche' Berneri fu soprattutto autore di articoli, oppresso, come si
lamentava, dal "facchinaggio giornalistico"), De Maria ricostruisce in
maniera attenta e delicata nuove affinita' con altri intellettuali (un
termine cui attribuisce, sulla scorta di Walzer e Bobbio, un forte
significato etico) che, al pari di Berneri, si interrogarono, in quegli anni
"di ferro e di fuoco", sulle sorti dell'Europa ("I lumi stanno per
spegnersi", e' la bella immagine che Berneri ci regala, nel manoscritto "Il
nazional-anarchismo", nel 1935) e si nutrirono delle stesse angosce, anche
se in dialogo con mondi diversi: Ortega y Gasset, De Man, Merleau-Ponty,
Chiaromonte e Simone Weil, soprattutto (nella ricostruzione biografica di
Domenico Canciani).
*
Eccoci infine tornati al tema della biografia: cioe', al sempre piu'
frequente ricorrere a questa formula narrativa nella storia del Novecento e,
ancor piu', nella storia degli anni fra le due guerre, in particolare da
parte di una giovane generazione di studiosi. Non e' una novita', si
osservera', nella storia del pensiero anarchico, che, rifiutando per
definizione ogni sistematicita', da sempre si nutre della ricostruzione di
singole grandi individualita' (6). Cio' che tuttavia appare originale nel
nostro panorama storiografico e' l'uso della biografia, non per ricostruire
un movimento collettivo (in questo caso l'anarchismo), ma lo spirito di una
comunita' (in questo caso gli antifascisti), di cui quella biografia ci
trasmette tracce e esempi. Le figure "eretiche" (la definizione e' di
Rosselli) come Camillo Berneri (e altre cui via via vengono dedicate sempre
nuove biografie, tra gli esuli repubblicani (7), socialisti e anche
comunisti) ci aiutano a scoprire le tracce di un pensiero, libero ma
responsabile, critico ma costruttivo, di cui si era persa la memoria: un
pensiero che si e' formato grazie a scambi e influenze reciproche tra
singoli individui, in grado di superare le barriere delle organizzazioni di
appartenenza in nome dell'obiettivo (la lotta al fascismo).
Ogni biografia di persone capaci di auto-riflessione conserva tracce
importanti della storia di una societa'. Per parafrasare una illuminante
frase di Guido Guglielmi sul "senso" dei testi, potremmo concludere: "[le
vite] appartengono al tempo che le ha prodotte e al tempo che le legge". Che
sia davvero giunta l'ora delle biografie nella storia contemporanea?
*
Note
1. Sto pensando a classici titoli come Eminenti Vittoriani di Lytton
Strachey, ai "casi" letterari rappresentati da monumentali biografie
dedicate a scrittori, scienziati, intellettuali (ogni componente del circolo
di Bloomsbury ha una propria biografia), politici (non solo Churchill. Si
pensi, invece, all'assenza di biografie di nostri grandi statisti, le cui
"vite" sono in genere assorbite dentro la storia del loro movimento o
partito di militanza), per concludere con una recente sintesi della storia
del Novecento, intitolata per scelta (avendo privilegiato la storia delle
masse): A History in Fragments. Europe in the Twentieth Century (di Richard
Vinen, Abacus, London 2000).
2. Soprattutto ad opera di P. Adamo, G. Berti e R. C. Masini.
3. Cfr. Laura Cerasi, Gli ateniesi d'Italia. Associazioni di cultura a
Firenze nel primo Novecento, Franco Angeli, Milano 2000.
4. Sulla simpatia fra i due movimenti ha richiamato l'attenzione S. Fedele,
"Carlo Rosselli e gli anarchici italiani", in Id., Il retaggio dell'esilio.
Saggio sul fuoruscitismo antifascista, Rubbettino, Soveria Mannelli 2000. A
proposito dell'esilio, De Maria ricorda che in un capitolo del suo Esilio,
Berneri si proponeva di fare "l'elogio dell'Esilio".
5. Interessanti le riflessioni di De Maria sul senso della parola liberta'
(e la sua variante libertarismo, oggi nuovamente attuale in una versione di
libero mercato), ma si vedano anche gli interventi, tra gli altri di P.
Ferraris, P. Adamo, N. Urbinati, in La sinistra e le due liberta', "Quaderni
dellíaltra tradizione - 2", Una citta', Forli' 2004.
6. L'esempio piu' recente e' Errico Malatesta e il movimento anarchico
italiano e internazionale, 1872-1932, l'ultima grande opera di Giampietro
Berti (Franco Angeli, Milano 2003).
7. Cfr. E. Signori, M. Tesoro, Il verde e il rosso. Fernando Schiavetti e
gli antifascisti nell'esilio fra repubblicanesimo e socialismo, Le Monnier,
Firenze 1987.
8. G. Guglielmi, La parola del testo. Letteratura come storia, Il Mulino,
Bologna 1993, p. 38, cit. in De Maria, p. 197.

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LA DOMENICA DELLA NONVIOLENZA
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Supplemento domenicale de "La nonviolenza e' in cammino"
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it
Numero 34 del 14 agosto 2005