La nonviolenza e' in cammino. 994



LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 994 del 17 luglio 2005

Sommario di questo numero:
1. Maria G. Di Rienzo: Linguaggio
2. Giulio Girardi: Riflessioni sulla tragedia del sud-est asiatico
3. Luisa Morgantini: Un appello per Tali Fahima
4. La pace e' l'unica sicurezza
5. Pino Ferraris: La lezione di Raniero Panzieri
6. Riletture: Manuela Dviri, La guerra negli occhi
7. Riletture: Manuela Dviri, Vita nella terra di latte e miele
8. Riletture: Elena Loewenthal, L'Ebraismo spiegato ai miei figli
9. Riletture: Elena Loewenthal, Lettera agli amici non ebrei
10. La "Carta" del Movimento Nonviolento
11. Per saperne di piu'

1. EDITORIALE. MARIA G. DI RIENZO: LINGUAGGIO
[Ringraziamo Maria G. Di Rienzo (per contatti: sheela59 at libero.it) per
questo intervento dal sottotiolo che di seguito riportiamo: "Testo e
sottotesto: ovvero, perche' non voglio piu' leggere del 'Ministro Gianna
Rossi' e dell''Architetto Olga Bianchi' (e neppure di quanto sono/non sono
carine)". Maria G. Di Rienzo e' una delle principali collaboratrici di
questo foglio; prestigiosa intellettuale femminista, saggista, giornalista,
regista teatrale e commediografa, formatrice, ha svolto rilevanti ricerche
storiche sulle donne italiane per conto del Dipartimento di Storia Economica
dell'Universita' di Sidney (Australia); e' impegnata nel movimento delle
donne, nella Rete di Lilliput, in esperienze di solidarieta' e in difesa dei
diritti umani, per la pace e la nonviolenza; e' coautrice dell'importante
libro: Monica Lanfranco, Maria G. Di Rienzo (a cura di), Donne disarmanti,
Edizioni Intra Moenia, Napoli 2003]

L'articolazione del linguaggio e' il ponte fra il pensiero e la realta'. Le
frasi che diciamo vengono pensate in forma gia' "espressa" e non riflettono
solo il mondo attorno a noi, riflettono il modo in cui lo vediamo. Le parole
possono essere usate con molta violenza, come tutte e tutti sappiamo, cosi'
come sappiamo che il linguaggio e' uno degli attrezzi piu' potenti inventato
dalla specie umana.
Gran parte della sua forza sta nel fatto che e' un attrezzo in grado di
trasformarsi, di evolversi per adattarsi ai cambiamenti. Tristemente, la
maggior parte dei termini usati per descrivere uomini e donne sembrano
essere rimasti statici, e raramente riflettono i cambiamenti dinamici che
hanno mutato le vite delle donne. Se il linguaggio, come non solo io
sostengo, riflette l'attitudine, pare che si debba ancora emergere dai
secoli bui.
Il sessismo e il razzismo ripetono ossessivamente parole che servono a
perpetuare le nozioni che essi descrivono; usare termini equi presenta una
realta' totalmente differente a chi legge o chi ascolta. I bambini e le
bambine, ad esempio, prendono le cose a livello letterale: vedono
esattamente quello che ascoltano. Quando le persone parlano della "civilta'
dell'uomo", degli "uomini di buona volonta'", dei "diritti dell'uomo", chi
ascolta vede nella propria mente solo uomini, e non donne, come parte
dell'equazione. Immaginate quant'e' divertente crescere in un mondo in cui
gli uomini sono il centro dell'universo e l'esatto metro di misura, e la
loro unicita' e' la rappresentazione del "tutto" (l'uomo della strada,
l'italiano medio, e poi i padri fondatori, la fratellanza e gli oggetti
fatti dall'uomo...): divertente ed eccitante prospettiva, dicevo, se sei un
ragazzo. Ma meta' dell'umanita' e' composta da ragazze, che si divertono
molto meno.
La maggior parte del linguaggio sessista non e' neppure usata consciamente.
Ci si limita a seguire le convenzioni e gli usi linguistici: l'uso del
maschile come termine generico per riferirsi ad uomini e donne e' ad esempio
comunemente accettato come "corretto". Se e' corretto lavorare contro le
donne, allora sono d'accordo. Il maschile generico le rende infatti
invisibili, triviali e minori.
*
I media in genere non sono piu' colpevoli di altri nel perpetuare attitudini
dannose usando termini sessisti, il problema e' che amplificano il danno: si
spacciano infatti per accurati, professionali, obiettivi, credibili e quasi
sacrosanti, una sorta di vangelo moderno. Quante volte avete sentito
qualcuno/a che per sostenere meglio delle opinioni strampalate se ne esce
con "Ma l'hanno detto alla televisione!"? Il giornalismo veicola
informazioni, idee, opinioni, ma ha anche il compito di descrivere la
societa' a se stessa, una responsabilita' non da poco, e delle cui
implicazioni non tutti quelli con le mani in pasta sono consci.
Gli attivisti nonviolenti per il cambiamento sociale dovrebbero esserlo un
po' di piu': ricerca, fiducia, verita', equita', ricordo, verifica,
relazione, ecc. sono concetti abbastanza comuni, impliciti nella loro
scelta. Perche' ho usato il condizionale? Perche' mi arrivano di continuo,
ad esempio, inviti ad iniziative in cui sta scritto: "Partecipera' il
giudice Caterina Vattelapesca". Caterina, amici ed amiche, e' "la" giudice,
va bene? E l'avvocato Antonia e' l'avvocata Antonia. Non c'e' bisogno di
arrovellarsi con i "sindachessa" e "generalessa": la sindaca, la generale,
l'assessora, la ministra, la consigliera. Questo perche' la loro professione
o l'incarico che ricoprono non cancellano il loro essere donne, e perche'
non vi e' alcuna eccellenza implicita nel termine maschile che descrive
professione o incarico: possiamo avere "il" sindaco piu' incapace della
provincia, e "la" deputata piu' in gamba del collegio elettorale (e
viceversa, ovviamente).
L'altro giorno ho visto, su un quotidiano, una fotografia inerente il rinvio
di un decollo dello Shuttle: la didascalia diceva "L'astronauta Wendy
Lawrence assistito da un impiegato della Nasa". L'impiegato era un uomo, la
signora Wendy Lawrence e' una donna, pero' non se ne sono accorti. Come
avrebbero potuto, d'altronde? Se e' "astronauta" sara' sicuramente un
maschio... e poi aveva pure i capelli corti.
Su un altro giornale, pochi giorni prima, c'era la foto di due donne in
burka. Il quotidiano, che aveva in precedenza speso non poco sudore per
assicurarci che si andava con i carri armati in Afghanistan a "liberarle", e
che aveva poi esultato mostrandoci le donne senza burka, cosi' commentava
l'immagine: "Due donne in abito tradizionale". Tutte a casa, ragazze, la
liberazione e' finita.
Per non parlare della famosa immagine di Jose' Bove' a Porto Alegre, che
saluta il pubblico con una donna indiana in sari al suo fianco: il commento
spiegava che quello era il leader dei contadini eccetera e non nominava la
donna presente. Quella al suo fianco, pero', non era l'addetta alle pulizie
(ed anche se lo fosse stata era corretto indicare il suo nome), era una tal
Vandana Shiva.
A questo punto e' legittimo domandarsi: ci sono o ci fanno?
Tutt'e due, purtroppo, ma almeno noi possiamo fare a meno di imitarli.
*
Le regole base per parlare e scrivere in modo da riflettere non un'equita'
di genere che non c'e' (ne' nello status quo, ne' nei movimenti) ma la
nostra volonta' di crearla, sono brevi e semplici: evitano di dare
descrizioni non accurate, sprezzanti o discriminatorie nei riguardi delle
donne, e faranno si' che io non cancelli il vostro prossimo comunicato
ruminando tra me che se quelle sono le premesse chissa' che noia sara' il
dibattito...
1. Resistete agli stereotipi, che si disegnano lungo le linee non solo del
genere, ma dell'etnia, della religione, della sessualita', dell'eta' e della
classe sociale;
2. Assicuratevi che in ogni iniziativa che promuovete le voci, le visioni e
le prospettive di donne ed uomini siano udite in eguale misura, e se
identificate un relatore con la sua professione o con il gruppo che
rappresenta, fate lo stesso per una relatrice;
3. Le donne ci sono, quindi nominatele. Il maschile non e' generico, e'
maschile;
4. Cominciate a riflettere sui ruoli di genere: sono creati ed assegnati
agli individui dalle societa' umane, e pertanto soggetti come tutto cio' che
e' umano a cambiamento, non sono scritti nel dna della nostra specie o da
una divinita' in qualche libro sacro;
5. Liberatevi dall'ossessione dei ruoli sessuali. Sono nauseata dal fatto
che le rarissime volte in cui il pubblico e' in maggioranza femminile o al
tavolo della presidenza ci sono, che so, cinque donne ed uomo, quest'ultimo
inizi il suo intervento con un ammiccamento sessuale, dicendo quant'e'
contento (o "maliziosamente" preoccupato) di stare in mezzo alle donne. La
situazione contraria e' assai piu' comune: avete mai sentito il commento
speculare dalla donna seduta in mezzo agli uomini? No, naturalmente. Questo
perche' noi donne abbiamo la (malaugurata?) tendenza a prendere gli uomini
sul serio: se l'ecologista Renato Rossi ci sta parlando delle risorse
idriche del pianeta, lo ascoltiamo come esperto, e non come probabile
compagno di letto. E se pure ci venisse una simile, legittima, fantasia, gli
diremo quant'e' affascinante dopo il convegno, non durante. Perche'
all'ecologista Renata Rossi deve essere negato il medesimo rispetto?
6. Contestate e rifiutate tutto cio' che incita, permette o sorvola sulla
violenza contro le donne. Suggerire di scriversi addosso "ci stiamo fottendo
tua madre", come fece il creatore di una nota e briosa newsletter
progressista, rivolgendosi agli iracheni che stavano per essere bombardati
affinche' gli statunitensi leggessero la frase dall'alto, non e' divertente
(e lo e' ancora meno se si pensa che la madre dello spiritoso ha davvero
subito violenza sessuale);
7. Non c'e' nessun bisogno di rendere le donne che hanno un ruolo pubblico
piu' "accettabili" aggiungendo alla loro qualifica o al loro ruolo "moglie
di", "madre di", eccetera; ne' c'e' bisogno di aggiungere commenti sul loro
aspetto fisico. Fare politica non e' una prerogativa maschile, e non le
spoglia della loro femminilita'. Femminilita' non vuol dire timidezza,
vulnerabilita' e tenerezza, cosi' come mascolinita' non vuol dire forza,
coraggio e intraprendenza. Queste sono tutte qualita' umane, che una persona
puo' avere oppure no. Inoltre, se non lo fate per gli uomini, non si vede
perche' dovreste farlo per le donne. Gli uomini vengono usualmente descritti
con la loro professione, le donne con il loro stato civile, la loro eta' o
il loro aspetto: cercate invece di accordare ad entrambi i sessi lo stesso
trattamento intelligente e rispettoso.
*
Incarnare una visione alternativa, e migliore, della societa' significa
anche fare questo piccolo sforzo. Da piu' di trent'anni la maggior parte dei
nostri compagni nelle lotte politiche e sociali ci dicono bonariamente che
alle donne ci si pensera' "dopo la rivoluzione". Preferirei non dover
aspettare altri trent'anni, e cominciare subito, grazie.

2. RIFLESSIONE. GIULIO GIRARDI: RIFLESSIONI SULLA TRAGEDIA DEL SUD-EST
ASIATICO
[Da "Alternative" n. 2, 2005 (nel sito: www.alternativebo.org). Giulio
Girardi e' nato al Cairo nel 1926, filosofo e teologo della liberazione,
durante il Concilio Vaticano II partecipo' alla stesura dello schema XIII;
membro del Tribunale permanente dei popoli, particolarmente impegnato nella
solidarieta' con i popoli dell'America Latina. Opere di Giulio Girardi:
presso la Cittadella sono usciti: Marxismo e cristianesimo; Credenti e non
credenti per un mondo nuovo; Cristianesimo, liberazione umana, lotta di
classe; Educare: per quale societa'?; Il capitalismo contro la speranza;
Cristiani per il socialismo: perche'?; presso Borla sono usciti: Sandinismo,
marxismo, cristianesimo: la confluenza, (a cura di) Le rose non sono
borghesi, La tunica lacerata, Fede cristiana e materialismo storico, Dalla
dipendenza alla pratica della liberta', Il popolo prende la parola (con J.
M. Vigil), La Conquista dell'America, Gli esclusi costruiranno la nuova
storia?, Cuba dopo il crollo del comunismo; presso le Edizioni Associate:
Rivoluzione popolare e occupazione del tempio; presso le Edizioni cultura
della pace: Il tempio condanna il vangelo; presso Anterem: Riscoprire
Gandhi; presso le Edizioni Punto Rosso: Resistenza e alternativa]

Il maremoto del Sud-Est asiatico rientra purtroppo fra le tragedie da non
dimenticare; sulle quali e' giusto continuare e approfondire la riflessione.
Questa tragedia sta provocando infatti un'esplosione della coscienza
mondiale, il cui oggetto fondamentale e' la spaccatura tra il Nord e il Sud.
Essa caratterizza il presente ordine mondiale, dominato dagli egoismi e
dalla competitivita'. In effetti, pur nella universalita' della tragedia e
del suo impatto, non e' stato difficile osservare e denunciare il suo
carattere discriminatorio. Essa ha infatti sconvolto soprattutto i paesi
poveri, incapaci, per mancanza di mezzi e di tecnologia, di garantire la
propria sicurezza. Essa poi ha messo in evidenza il diverso trattamento
riservato ai turisti europei e agli abitanti di quei paesi, il diverso
livello di mobilitazione che li ha raggiunti, salvati o abbandonati al loro
destino.
La globalizzazione, organizzazione del mondo come "villaggio globale", ha
impresso alla tragedia locale un impatto globale. Essa ha provocato, a
livello mondiale, una presa di coscienza "in tempo reale" di cio' che sta
accadendo a livello locale. Ma essa ha suscitato, allo stesso tempo, una
mobilitazione senza precedenti della solidarieta', per cui diventa oggi
legittimo parlare di una globalizzazione della solidarieta'.
L'irrompere della solidarieta' sta cambiando il senso della storia,
introducendo in essa un nuovo sistema di valori imperniato appunto
sull'autodeterminazione solidale, cioe' sul riconoscimento delle persone e
dei popoli, di tutte le persone e di tutti i popoli come soggetti. Cio' che
emerge da questa solidarieta' e' quindi un nuovo ordine mondiale. Essa e' la
prova provata che il mondo nuovo e' possibile e che lo si sta costruendo. Il
maremoto non produce solo distruzione, ma contribuisce alla costruzione
dell'alternativa. Rimane pero' che gli oppressi e le oppresse stanno pagando
un prezzo troppo alto per un'alternativa in cui probabilmente non vivranno
mai, se pure vivranno.
*
Debito estero: cancellarlo o rinviarlo?
Uno dei grandi temi che polarizzano oggi il mondo della solidarieta' con le
vittime del maremoto e' quello che riguarda il debito estero dei paesi
coinvolti. Nei confronti di questo tema cruciale, la solidarieta' si dibatte
fra due proposte: moratoria o cancellazione del debito. Due proposte
distinte, ma in definitiva convergenti. Perche' l'una e l'altra suppongono
che il debito esiste, si tratta solo di mitigarne gli effetti letali. Ma il
vero problema sta appunto qui, la vera risposta e' che il cosiddetto
"debito" del terzo mondo non esiste, e' una costruzione ideologica.
Un debito pero' esiste realmente, ed e' quello del Nord nei confronti del
Sud, del mondo ricco nei confronti di quello povero. Un debito che riflette
il grido degli oppressi e delle oppresse, la loro protesta talora disperata,
la denuncia della espropriazione, dell'usurpazione plurisecolare che li ha
dissanguati e che permette al capitalismo di celebrare il suo trionfo.
Usurpazione delle materie prime, dell'ambiente, dell'acqua potabile, delle
culture; del suolo, del sottosuolo e dello spazio aereo.
E allora, come esaltarsi per questa esplosione di solidarieta', che e' un
semplice dovere di giustizia? Che e' una parziale restituzione del maltolto?
Che dovrebbe suscitare nuove dimensioni della coscienza del peccato e del
pentimento? La nostra ricerca dovrebbe invece assumere un obiettivo diverso:
come pagare il nostro debito storico ai paesi del Terzo Mondo? Come
adempiere il dovere impellente della restituzione?
*
Diluvio del Sud-est asiatico e crisi di fede
Riflettendo sulla tragedia che ha sconvolto e continua a sconvolgere il
mondo, e' difficile evitare di interrogarsi sul ruolo di Dio in questi
avvenimenti. E' difficile accontentarsi di risposte che nascondono il
problema, dicendo che "Dio non c'entra", che sono in gioco soltanto le
"cause seconde", l'iniziativa umana, la natura, la tecnologia. Perche' e'
proprio attraverso queste cause che Dio opera nella storia.
Per quanti non credono nella presenza storica di Dio,il problema non si
pone: ed e' vero che "Dio non c'entra", perche' non esiste. Ma per quanti
credono nell'Amore, e' difficile che questa fede non venga interrogata, che
non venga scossa, forse che non entri in crisi. Essi vedono nella scelta dei
poveri l'ispirazione profonda della loro fede, come anche dell'azione di Dio
nella storia. Ma allora, come giustificare lo sterminio di cui sono vittime
centinaia di migliaia di poveri?
Certo, alcune persone si sono salvate, si considerano miracolate, sono
convinte che le loro preghiere siano state esaudite. Ma le altre? Sembra
difficile eludere il problema della giustizia di Dio, soffocare le domande
che il flagello impone a chiunque cerchi di capire cio' che e' accaduto e
accade. E' forte la tentazione di attribuire la violenza del mare alla
"violenza di Dio".
Il catechismo che abbiamo imparato da bambini cercava di rassicurarci: "Dio
non puo' fare il male perche' non puo' volerlo, essendo bonta' infinita. Ma
lo tollera per lasciare libere le creature, sapendo poi ricavare il bene
anche dal male". Si tratta qui a prima vista del male morale, ma e'
difficile, in un mondo organizzato dall'uomo, non estendere la tolleranza di
Dio alle altre forme del male, come la fame, la sete, la malattia, la
solitudine, la morte.
Ma forse il vangelo ci indica un'altra pista di ricerca, il grido di Gesu',
"Padre, perche' mi hai abbandonato?", rivela un Gesu' che vive l'angoscia
del dubbio; che vive la drammatica esperienza dell'abbandono e della
solitudine; ma per il quale l'abbandono del Padre convive con la speranza e
la certezza della risurrezione. Un cammino certamente difficile da
percorrere: ma ne conosciamo altri?

3. APPELLI. LUISA MORGANTINI: UN APPELLO PER TALI FAHIMA
[Ringraziamo Luisa Morgantini (per contatti: lmorgantini at europarl.eu.int)
per questo intervento. Luisa Morgantini, parlamentare europea e presidente
della delegazione del Parlamento Europeo al Consiglio legislativo
palestinese, fa parte delle Donne in nero e dell'Associazione per la pace;
il seguente profilo di Luisa Morgantini abbiamo ripreso dal sito
www.luisamorgantini.net: "Luisa Morgantini e' nata a Villadossola (No) il 5
novembre 1940. Dal 1960 al 1966 ha lavorato presso l'istituto Nazionale di
Assistenza a Bologna occupandosi di servizi sociali e previdenziali. Dal
1967 al 1968 ha frequentato in Inghilterra il Ruskin College di Oxford dove
ha studiato sociologia, relazioni industriali ed economia. Dal 1969 al 1971
ha lavorato presso la societa' Umanitaria di Milano nel settore
dell'educazione degli adulti. Dal 1970 e fino al 1999 ha fatto la
sindacalista nei metalmeccanici nel sindacato unitario della Flm. Eletta
nella segreteria di Milano - prima donna nella storia del sindacato
metalmeccanico - ha seguito la formazione sindacale e la contrattazione per
il settore delle telecomunicazioni, impiegati e tecnici. Dal 1986 e' stata
responsabile del dipartimento relazioni internazionali del sindacato
metalmeccanico Flm - Fim Cisl, ha rappresentato il sindacato italiano
nell'esecutivo della Federazione europea dei metalmeccanici (Fem) e nel
Consiglio della Federazione sindacale mondiale dei metalmeccanici (Fism).
Dal novembre del 1980 al settembre del 1981, in seguito al terremoto in
Irpinia, in rappresentanza del sindacato, ha vissuto a Teora contribuendo
alla ricostruzione del tessuto sociale. Ha fondato con un gruppo di donne di
Teora una cooperativa di produzione, "La meta' del cielo", che e' tuttora
esistente. Dal 1979 ha seguito molti progetti di solidarieta' e cooperazione
non governativa con vari paesi, tra cui Nicaragua, Brasile, Sud Africa,
Mozambico, Eritrea, Palestina, Afghanistan, Algeria, Peru'. Si e' misurata
in luoghi di conflitto entro e oltre i confini, praticando in ogni luogo
anche la specificita' dell' essere donna, nel riconoscimento dei diritti di
ciascun essere umano: nelle rivendicazioni sindacali, con le donne contro la
mafia, contro l'apartheid in Sud Africa, con uomini e donne palestinesi e
israeliane per il diritto dei palestinesi ad un loro stato in coesistenza
con lo stato israeliano, con il popolo kurdo, nella ex Yugoslavia, contro la
guerra e i bombardamenti della Nato, per i diritti degli albanesi del Kosovo
all'autonomia, per la cura e l'accoglienza a tutte le vittime della guerra.
Attiva nel campo dei diritti umani, si e' battuta per il loro rispetto in
Cina, Vietnam e Siria, e per l'abolizione della pena di morte. Dal 1982 si
occupa di questioni riguardanti il Medio Oriente ed in modo specifico del
conflitto Palestina-Israele. Dal 1988 ha contribuito alla ricostruzione di
relazioni e networks tra pacifisti israeliani e palestinesi. In particolare
con associazioni di donne israeliane e palestinesi e dei paesi del bacino
del Mediterraneo (ex Yugoslavia, Albania, Algeria, Marocco, Tunisia). Nel
dicembre 1995 ha ricevuto il Premio per la pace dalle Donne per la pace e
dalle Donne in nero israeliane. Attiva nel movimento per la pace e la
nonviolenza e' stata portavoce dell'Associazione per la pace. E' tra le
fondatrici delle Donne in nero italiane e delle rete internazionale di Donne
contro la guerra. Attualmente e' deputata al Parlamento Europeo... In Italia
continua la sua opera assieme alle Donne in nero e all'Associazione per la
pace". Opere di Luisa Morgantini: Oltre la danza macabra, Nutrimenti, Roma
2004. Vorremmo sottolineare una volta di piu' la necessita' di una
intrransigente opposizione a tutte le uccisioni: solo con il rispetto per la
vita e la dignita' altrui, e il dialogo tra diversi, e' possibile costruire
la pace, la convivenza]

Care tutte e tutti,
vi segnalo un nuovo appello per la liberazione di Tali Fahima, la prima
ebrea israeliana in detenzione amministrativa dal 9 agosto 2004, l'appello
e' promosso da Jacob Katriel, docente presso l'Universita' di Haifa e membro
dell'Alternative Information Center, e invita la societa' civile
internazionale, i suoi rappresentanti e i movimenti di solidarieta' a
firmare la petizione internazionale per la liberazione di Tali e a
organizzare iniziative e campagne per la liberazione di tutti i prigionieri
politici palestinesi.Invio anche una mia lettera, scritta nel dicembre dello
scorso anno, che ricostruisce la storia di Tali Fahima e della sua
detenzione arbitraria. Aderendo alla lettera ricevuta da Jacob Katriel vi
rinnovo il mio invito a una campagna per la liberazione di Tali Fahima e di
tutti i prigionieri politici palestinesi.
Un abbraccio,
Luisa Morgantini
*
Per contatti con i promotori dell'appello, disponibile in inglese:
Alternative Information Center The Committee for the immediate release of
Tali Fahima, e-mail: yossi at alt-info.org
*
Il nome di Tali Fahima e' divenuto noto in Israele. Tali, 26 anni, di madre
algerina, ebrea Israeliana, dal 9 agosto scorso, e' in detenzione
amministrativa (incarcerata senza accuse formali e senza condanna). Secondo
i suoi difensori e' il primo caso di detenzione amministrativa di una
cittadina ebrea israeliana. Cresciuta a Kiryat-Gat, una citta' d'immigrati
orientali ai bordi del deserto del Negev, era impiegata come segretaria
presso uno studio legale di Tel Aviv, ed e' stata licenziata per le sue
attivita' politiche contro l'occupazione militare israeliana.
Un tempo elettrice del Likud, il partito di Ariel Sharon, e fervente
nazionalista, ha, nel tempo, cambiato le sue posizioni. Punto di svolta e'
stato il documentario di Juliano Mer, I bambini di Arna (trasmesso anche da
Arte il 27 settembre scorso), su un progetto educativo per i bambini di
Jenin attraverso il teatro, condotto nella prima Intifadah da Arna, una
donna israeliana pacifista, madre di Juliano Mer e deceduta qualche anno fa
. Nel film si vede il percorso di sei palestinesi che nella prima Intifadah
erano bambini, alcuni di loro morti in questa seconda Intifadah. Tali vuole
conoscere Jenin, i suoi abitanti, e fare qualcosa; decide cosi' di iniziare
un corso d'informatica per bambini organizzando una raccolta fondi a Jaffa.
Malgrado il divieto, lo scorso anno si e' recata a Jenin, dove ha conosciuto
Zakaria Zubeidi, un tempo uno dei "figli" di Arna, ed oggi capo locale delle
Brigate dei Martiri di al-Aqsa; tra loro e' nata un'amicizia basata sul
confronto e la comprensione dei problemi dei due popoli. Come dichiara lei
stessa: "Mi hanno sempre insegnato che gli arabi erano qualcosa che
semplicemente non doveva esistere. Sono sempre stata di destra. Fin
dall'infanzia mi hanno insegnato a odiare gli arabi, a non fidarmi di loro e
a pensare che l'occupazione fosse giusta. Ho cominciato a perdere le mie
illusioni prima delle elezioni, ma ho votato Likud perche' avevo ancora una
paura primordiale degli attentati terroristici e perche' sapevo che Sharon
era un buon guerriero". Mentre stava lavorando molto intensamente nei
progetti educativi del campo profughi di Jenin, Tali venne arrestata una
prima volta in marzo a causa di sue dichiarazioni rilasciate alla stampa in
cui si diceva pronta a proteggere con il suo corpo Zakaria, come gesto di
protesta nei confronti della prassi delle esecuzioni mirate ed
extraterritoriali, costantemente applicata dall'esercito israeliano.
Dopo essere stata rilasciata, venne contattata dai servizi segreti
israeliani perche' collaborasse con loro in qualita' di informatrice, e dopo
il suo rifiuto, il 9 agosto, mentre si recava a Jenin venne nuovamente
arrestata. Da quel giorno e' in detenzione amministrativa, successivamente
trasformata in detenzione penale. Tutto questo senza che fossero pronunciate
accuse formali o un'effettiva condanna. Il tribunale continua a rimandare le
udienze per lasciare piu' tempo di investigare su quelle che i servizi
segreti interni in Israele considerano le sue attivita' illecite. E' infatti
sospettata di collusione con il nemico in tempo di guerra, d'associazione a
delinquere, di possesso di materiale militare e di violazione dei decreti
militari che interdicono a qualunque cittadino israeliano di entrare nella
"Zona A" (zona autonoma palestinese).
Le sue condizioni psicologiche e fisiche stanno peggiorando, sia per lo
stato di detenzione prolungata, sia per le pressioni a cui viene sottoposta
per costringerla a confessare reati che non ha commesso. Il metodo e' il
solito: presunte dichiarazioni di un prigioniero palestinese (rilasciate con
ogni probabilita' sotto tortura), per le quali durante la sua permanenza a
Jenin Tali avrebbe visto del materiale esplosivo nelle mani di combattenti
palestinesi. Ma, come dichiara la sua avvocata, se anche cosi' fosse, e Tali
ha fermamente smentito, questo non puo' costituire di per se' un motivo
sufficiente per essere incriminata di collaborazione nell'organizzazione di
attentati terroristici in Israele.
Di fatto ci troviamo davanti ad un nuovo caso di manipolazione della legge e
delle informazioni da parte del governo israeliano, alle spese di chiunque
non si dimostri allineato con le politiche coloniali condotte dal governo di
Sharon contro il popolo palestinese. Cosi' come Mordechai Vanunu, tecnico
della centrale nucleare di Dimona, nel deserto del Negev in Israele,
arrestato nel 1986 con l'accusa di spionaggio e tradimento dello Stato per
aver denunciato all'opinione pubblica internazionale l'attivita' illegale di
Israele in materia di armamenti nucleari, anche Tali Fahima e' vittima di
quella che prende le forme piu' di una vendetta tribale che
dell'applicazione della giustizia e del diritto; entrambi sono attaccati dal
governo israeliano, che li identifica come traditori, dipingendoli nei
confronti dell'opinione pubblica come una minaccia alla sicurezza ed
integrita' nazionale; in questo senso il nuovo arresto di Vanunu lo scorso
12 novembre, cosi' come la detenzione amministrativa e i continui
interrogatori nei confronti di Tali, testimoniano un atteggiamento
persecutorio del governo israeliano nei confronti di chiunque scelga una
strada diversa dal giustificare, come esigenza di sicurezza per Israele, le
violazioni dei diritti umani e del diritto internazionale dell'esercito
israeliano, con l'occupazione militare in primo luogo, la distruzione delle
case, i rastrellamenti, i bombardamenti di civili. Lo sanno e lo denunciano
i militari israeliani che hanno scelto di dire "no" e di denunciare
pubblicamente i crimini commessi dall'esercito israeliano. Come diceva a
Roma Jonathan Shapira, pilota refusnik: "Ho detto no per amore verso Israele
e i miei vicini palestinesi, e vedo ogni giorno di piu' restringersi nel mio
paese gli spazi di democrazia'.
*
Chiedere la liberta' per Tali Fahima e' un piccolo passo per la convivenza e
la democrazia. Scrivete a Ariel Sharon, fax (+972 2) 670-5361, e-mail:
rohm at pmo.gov.il, al Ministro della Difesa Shaul Mofaz, fax (+972 3)
691-6940, e-mail: sar at mod.gov.il ed al Ministro di Giustizia Yosef Lapid,
fax: (+972 2) 628-5438, e-mail: sar at justice.gov.il, nonche' all'Ambasciata
israeliana in Italia, e-mail: info-coor at roma.mfa.gov.il

4. APPELLI. LA PACE E' L'UNICA SICUREZZA
[Da molti amatissimi interlocutori riceviamo il seguente appello
sottoscritto da varie associazioni e persone sinceramente impegnate per la
pace, e volentieri lo proponiamo ai lettori del nostro foglio. Ma pur
apprezzandone l'intenzione, ci sembra che sia anche, ahinoi, l'ennesimo
appello sciatto e rituale, generico e astratto, che rischia di non servire a
nulla, se non a nascondere sotto coltri di retorica un non ignobile e non
disutile sentimento di dolore, vergogna, fallimento che bisognerebbe invece
saper riconoscere ed affrontare; o peggio: a chiudere gli occhi sulle
proprie responsabilita', ambiguita', collusioni; il solito appello, ahinoi,
che non dice l'unica parola che e' decisivo dire: che occorre la scelta
della nonviolenza. Perche' questo e' il punto: se non si fa la scelta della
nonviolenza non si da' azione per la pace, i diritti, la convivenza; se non
si fa la scelta della nonviolenza non si contrasta la catastrofe in corso;
se non si fa la scelta della nonviolenza si resta complici del disordine
costituito. Il pacifismo generico e' ormai nulla piu' che la foglia di fico
della violenza imperiale; e per dirla con le parole del nostro ruvido amico
Annibale Scarpante: "le strutture e le rappresentanze che sul pacifismo
generico raggranellano finanziamenti o costruiscono carriere in un rapporto
di collusione e subalternita' con il sistema di potere e in accettazione e
sfruttamento della condizione di privilegio, rapporto e condizione che
contribuiscono a condannare all'assoggettamento alla fame e alla morte i
quattro quinti dell'umanita', ebbene, tali strutture e tali rappresentanze
quantunque dicano e facciano anche sovente cose buone e meritorie, dal
nostro punto di vista non hanno voce in capitolo nel definire i compiti
dell'ora: poiche' i compiti dell'ora in questo e non in altro si
compendiano: la scelta della nonviolenza, la rottura della complicita' coi
poteri che uccidono, la resistenza la piu' nitida e la piu' intransigente ad
ogni violenza e ad ogni collaborazionismo, ad ogni cointeressenza con tutti
i poteri che negano altrui il diritto alla vita e alla dignita'. Reticenti,
elusivi su questo - et pour cause -, si rischia di esser peggio che
inadeguati rispetto a cio' che si proclama, si rischia di trovarsi dalla
parte sbagliata della barricata, a far da truppe di complemento e da
copertura ideologica ai signori della guerra, si rischia di funger da pezzi
dell'apparato del consenso al potere assassino". Solo la nonviolenza puo'
salvare l'umanita', la nonviolenza che e' scelta di lotta contro tutte le
uccisioni, scelta di aiuto all'umanita' intera, conflitto ordinato al
disarmo integrale, azione politica rivoluzionaria che contrasti ogni
privilegio, ogni sfruttamento, ogni oppressione, per ottenere che a tutti
gli esseri umani siano riconosciuti tutti i diritti umani. (severino
vardacampi)]

Questa volta e' toccato a Londra.
La popolazione londinese, colpita da atti criminali che non hanno
giustificazione alcuna, ha subito morte, orrore, paura.
Siamo al loro fianco, esprimiamo loro tutta la nostra solidarieta'.
Siamo tutti vittime di una guerra globale contro l'umanita' che ogni giorno,
spesso nell'indifferenza generale, colpisce tante comunita' umane in tutto
il mondo.
E' una guerra fra potenti. E' combattuta dagli interessi forti che tirano le
fila dell'ingiustizia e dello sfruttamento, dagli stati che fanno le guerre,
dalle organizzazioni che, per competere con essi, utilizzano strategie
terroristiche.
La guerra e' loro. Nostri sono i morti innocenti, le vittime civili. Alla
guerra globale bisogna reagire, se vogliamo assicurare a noi stessi e al
mondo un futuro.
Quattro anni di guerra condotta in nome della lotta al terrorismo, oltre a
seminare distruzione, hanno aumentato in modo gigantesco l'insicurezza, la
destabilizzazione, i pericoli in tutto il pianeta. Lungi dall'averli
diminuiti, la guerra ha alimentato gli attacchi terroristici.
Bisogna cambiare radicalmente strada, prima che sia troppo tardi. Sottrarsi
al circolo vizioso nel quale guerra genera guerra e terrore e' l'unica
possibilita' per garantire sicurezza a tutte e a tutti.
Bisogna opporsi alla costruzione di un mondo armato, di societa' e di
economie di guerra.
Bisogna portare subito l'Italia fuori dal sistema della guerra.
Le grandi e pacifiche manifestazioni a Edimburgo hanno ancora una volta
mostrato la volonta' di lottare per una giustizia globale: questa lotta e'
possibile e necessaria.
E' possibile e necessario ritirare immediatamente le nostre truppe
dall'Iraq, finirla con il riarmo, l'esportazione di armi e l'aumento delle
spese militari, smantellare subito le basi militari straniere, ripulire il
nostro territorio dalle armi nucleari e di distruzione di massa, avviare una
politica estera di pace che obbedisca al dettato costituzionale: "L'Italia
ripudia la guerra".
E' possibile e necessario impegnarsi per la giustizia globale, ricercare la
convivenza, combattere la discriminazione e il razzismo, mettere al bando
l'islamofobia, chiudere i cosiddetti Centri di Permanenza Temporanea e
accogliere i migranti.
E' possibile e necessario affermare diritti, costruire giustizia sociale ed
eguaglianza, innovare ed estendere la democrazia fondata sulla
partecipazione.
Le scelte del governo italiano, confermate dalle prime reazioni
all'attentato di Londra, vanno nella direzione opposta. Il governo conferma
la partecipazione alla guerra, alimenta l'intolleranza, aumenta la stretta
contro gli immigrati, contro i musulmani, contro le lotte sociali. Annuncia
il futuro ritiro di soli trecento soldati dall'Iraq ma si appresta a
prendere il comando delle forze Nato in Afghanistan.
Questa politica espone il nostro paese e noi tutti a gravi pericoli. Il
governo stesso annuncia che siamo un paese fortemente a rischio. Gioca la
carta della paura per puntellare le sue scelte di guerra.
Bisogna fermarli.
E possiamo fermarli con la mobilitazione popolare che il nostro paese in
tante occasioni e' stata in grado di esprimere e che ha diffuso un'altra
coscienza, un'altra cultura, l'urgenza di un'altra politica.
C'e' bisogno di una reale alternativa, non di unita' nazionale con chi ci ha
spinto sull'orlo del baratro.
Invitiamo tutti e tutte a costruire insieme una grande campagna, fatta di
iniziative, azioni, riflessione e dibattito perche' la paura non produca
rassegnazione, ma voglia di ribellarsi e di cambiare.
Diritti e convivenza, disarmo e giustizia globale.
*
Per aderire: adesioni at unmondodiverso.it

5. RIFLESSIONE. PINO FERRARIS: LA LEZIONE DI RANIERO PANZIERI
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 14 luglio 2005. Se e' lecito esprimere en
passant un'opinione su un punto specifico di questo per il resto assai
pregevole intervento, sorprende che un militante e studioso della storia e
del prestigio di Pino Ferraris esprima un giudizio entusiasta su
un'esperienza per molti aspetti ancora embrionale, per altri equivoca, e
complessivamente frutto di una sconfitta storica e di un arretramento
politico e culturale come il cosiddetto "movimento dei movimenti" (severino
vardacampi).
Pino Ferraris, militante e studioso del movimento operaio, docente
universitario, autore di numerose pubblicazioni, una delle figure piu' vive
della sinistra critica lungo tutto il secondo Novecento.
Raniero Panzieri, intellettuale e militante del movimento operaio, nato a
Roma nel 1921 e deceduto a Torino nel 1964, dirigente del partito
socialista, condirettore della rivista "Mondo Operaio", redattore alla
Einaudi, animatore dell'esperienza dei "Quaderni rossi". Opere di Raniero
Panzieri: oltre alla serie dei "Quaderni Rossi", cfr. tre raccolte di suoi
scritti: La ripresa del marxismo leninismo in Italia, Sapere, Milano 1972,
poi Nuove Edizioni Operaie, Roma 1977; La crisi del movimento operaio
(Scritti interventi lettere, 1956-1960), Lampugnani Nigri, 1973; Lotte
operaie nello sviluppo capitalistico, Einaudi, Torino 1976. Opere su Raniero
Panzieri: oltre agli ampi apparati critici dei volumi citati, cfr. ora Paolo
Ferrero (a cura di), Raniero Panzieri. Un uomo di frontiera, Edizioni Punto
rosso - Carta, Milano-Roma 2005]

Le presentazioni del libro Raniero Panzieri. Un uomo di frontiera, curato da
Paolo Ferrero per le Edizioni Punto rosso/Carta (prefazione di Marco
Revelli, pp. 285, euro 13) di cui ha scritto Massimo Raffaeli su "Alias" del
14 maggio - sono state occasioni per ricordare la figura di Panzieri ma
anche per aprire una discussione su alcuni nodi di fondo del nostro agire
politico. Una discussione da riprendere e allargare.
Panzieri e' stato organizzatore politico e dirigente negli aspri anni
Cinquanta. Come direttore di "Mondo Operaio", la rivista ufficiale del Psi,
nel 1957-'58, apri' con vigore e lucidita', dopo i fatti d'Ungheria, l'unica
prospettiva di uscita a sinistra, classista e libertaria, dallo stalinismo.
Conosceva sino in fondo la vischiosa resistenza delle strutture del passato,
sapeva della estrema difficolta' e della grande complessita' di strutturare
il nuovo. Nonostante cio' egli scelse di rompere per continuare. Panzieri fu
e rimase uomo di frontiera senza cedere di un millimetro al richiamo delle
comode dimore dell'ufficialita' politica, rifiutando senza la minima
esitazione ogni spregiudicata estetica del sovversivismo settario. La
rottura del 1963 con Mario Tronti e i compagni che lasciarono i "Quaderni
Rossi" per fondare "Classe operaia" fu politicamente importante oltre che
molto pesante per Raniero.
*
Quel dibattito rinvia a dispute antiche del movimento operaio che lo storico
francese Dolleans sintetizza nelle formula del conflitto tra rivoluzione di
potenza e rivoluzione di capacita'. Rivoluzione di potenza indica
l'orientamento che subordina la trasformazione sociale alla potenza
acquisita con la conquista del potere statale. In questa ottica l'azione
sociale immediata e quotidiana e' strumentalizzata alla finalita' di
produrre dominio organizzato della macchina politica. Essa prevede la
sovranita' del Partito guida, la necessita' del momento autoritario. La
rivoluzione di capacita' rinvia invece alla capacita' autogestionaria delle
libere associazioni attraverso l'incremento delle risorse intellettuali e
morali dei lavoratori e della loro forza autonoma di imporre soluzioni in
proprio e dal basso dei loro problemi. Essa prevede il partito strumento al
servizio delle solidarieta' di classe e la coincidenza permanente fra
emancipazione sociale e liberazione politica.
Le rivoluzioni di potenza hanno vinto molte volte, ci ricorda Wallerstein,
hanno vinto con le loro strategie basate sulle due fasi: la conquista del
potere statale per poi trasformare la societa'. Ma lo storico americano ci
ricorda che i vecchi movimenti anti-sistemici "orientati allo stato" sono
rimasti vittime dello stato stesso. Sono falliti nella promessa sociale e
nella sfida della liberta' e sono implosi. Da quei fallimenti, secondo
Wallerstein, prende avvio la vicenda che e' partita da quella che egli
continua a chiamare la "rivoluzione mondiale del 1968", madre di tutti i
successivi nuovi movimenti anti-sistemici, sino al piu' maturo di tutti,
l'attuale movimento dei movimenti.
*
E' qui, sul terreno della trasformazione della politica che Raniero Panzieri
ebbe intuizioni veramente profetiche. Che cosa voleva dire, in quegli anni,
richiamare il tema del controllo operaio lanciato col dirompente manifesto
politico dei minatori del Galles del sud nel 1912 come alternativa sia alla
proprieta' capitalistica sia alla statalizzazione? Per quei minatori in
lotta lo Stato era un nemico tanto quanto il padrone. I lavoratori volevano
diventare capaci di dirigere la propria industria con un sistema completo di
controllo operaio. "Socializzare senza statizzare", e' questa l'ultima
proposta di rivoluzione delle capacita' avanzata alla vigilia di quella
prima guerra mondiale che forgera' lo scheletro d'acciaio dell'esperienza
novecentesca, fatta di statalismo autoritario, capitalismo organizzato e
politica militarizzata.
Il richiamo di Panzieri del tema del controllo operaio, l'apertura della
dimensione del movimento politico di massa, l'affermazione secondo la quale
il proletariato ha la possibilita' e la necessita' di educare se stesso
costruendo i suoi propri istituti di democrazia riapre (nel linguaggio e
nella forme del suo tempo) la perduta prospettiva della rivoluzione di
capacita' e tenta di ricongiungere intransigente istanza socialista e
radicalismo della liberta'. E tutto questo prima della "rivoluzione del 68",
prima del crollo catastrofico del comunismo, prima dell'esaurimento del
secolo socialdemocratico.
*
Tronti rispolvera vecchie antitesi tra movimentismo e organizzazione, tra
spontaneita' e direzione, tra Consigli e Partito. Non sono piu' questi i
termini del problema. Le articolazioni reticolari del far da se' solidale,
le richieste di comunalismo partecipato, l'esigenza di un sindacalismo
orizzontale in grado di coniugare protagonismo democratico, forza
rivendicativa e capacita' di fare societa' anche negli ambiti di vita, i
movimenti di pace e di difesa dell'ambiente, il ritorno embrionale di forme
di economia solidale tutto questo sollecita un grande sforzo di invenzione
politica. In momenti come questi occorre soprattutto chiederci:quale
politica? quale partito? Paolo Farneti, che e' stato uno dei piu' acuti e
stimolanti sociologi della politica, ci ha ricordato che l'esperienza
storica del partito politico di massa non ci propone soltanto il modello di
quel partito alternativo alla societa' civile che tendeva a inglobare e a
partitizzare la societa' intiera secondo l'esperienza della socialdemocrazia
tedesca di Bebel e di Kautsky e dei partiti della III internazionale.
Il vecchio partito laburista, cinghia di tramissione alla rovescia che
rappresentava i sindacati nel parlamento, poteva essere visto come partito
complementare alle strutture date della solidarieta' operaia. E' possibile
invece vedere nel partito operaio belga di Vandervelde un partito
coordinatore delle solidarieta'. Era una associazione di associazioni, una
federazione politica di camere sindacali, societa' di mutuo soccorso e
cooperative. E' bene tener presente questa articolazione pluralistica
dell'esperienza storica del partito di massa quando la posta in gioco e' un
radicale ripensamento della politica. Dopo il crollo del partito burocratico
di massa che inquadrava e mobilitava singoli individui collettivizzati
emergono ora i fragili e arroganti partiti videocratici e personali che
cercano di costruire il loro dominio sull'apatia e sull'atomizzazione di
massa. Contemporaneamente il movimento dei movimenti dimostra nuova tenuta
associativa, capacita' cooperativa e forti esigenze di politica reticolare e
partecipata.
*
Oggi ci troviamo di fronte al confronto e allo scontro tra forme diverse
della politica che implicano ipotesi alternative dell'agire sociale. Di
questo incominciava a parlarci Raniero quarant'anni fa. Ma c'e' un'altra
lezione per l'oggi che ci viene da lui. E' fondamentale ricordare il suo
metodo esemplare di analisi e di controllo delle grandi transizioni sociali.
Negli anni a cavallo tra la seconda meta' degli anni Cinquanta e i primi
anni Sessanta egli indaga e contesta il passaggio verso il neocapitalismo
del cosiddetto "miracolo economico".
Due strumenti essenziali Panzieri ha messo in opera a questo fine: la
critica dell'uso capitalistico delle macchine e l'inchiesta operaia.
Sul terreno dell'analisi e del controllo della successiva grande
trasformazione del post-fordismo il nostro fallimento e' totale. Il
mutamento verso la societa' informazionale ci e' semplicemente caduto
addosso. Come mai questa tecnologia informatica che per sua essenza
intreccia tecnica e potere, non siamo riusciti a sezionarla con il bisturi
di Panzieri della critica dell'uso capitalistico delle macchine? E' vero che
la telematica ha un doppio volto. Essa vende computer come beni di consumo
durevoli che ci rendono disinvolti consumatori di informazione. Ma questa
tecnologia e' anche e soprattutto un formidabile bene strumentale che scende
sul versante del lavoro come procedura che regola, come ordinatore che
guida, come panopticon che sorveglia.
Quando incominciammo, nei primi anni Ottanta, ad analizzare l'automazione
flessibile a base elettronica nelle fabbriche vedevamo soprattutto
l'informatizzazione come automazione di sostituzione del lavoro umano, come
robotizzazione. Eravamo ossessionati dall'utopia capitalistica della
fabbrica senza operai. In realta' lo sviluppo principale dell'informatica e'
stato nella direzione della tecnologia di integrazione che ha prodotto
operai senza fabbrica. Due notizie recenti danno il segno della direzione di
marcia. Nelle fabbriche dell'ex Zanussi, dove venti anni fa seguivamo
criticamente il processo di robotizzazione, ora si smontano i robot e si
mettono di nuovo gli uomini e le donne sulle linee di produzione. La
destabilizzazione del lavoro generata dall'informatizzazione ha prodotto una
tale abbondanza di lavoratori flessibili e a basso costo da rendere
conveniente l'utilizzazione del lavoro umano al posto del robot.
Contemporaneamente, da una ricerca universitaria commissionata dal sindacato
inglese, ci viene una novita' sconvolgente: si diffonde la robotizzazione
diretta dell'umano. Sono migliaia gli operai con il computer da polso che
vengono guidati e controllati, via satellite, nei minimi dettagli delle loro
operazioni lavorative. Questa funzione della telematica come nuovo
automa-autocrate del processo di produzione che ha sostituito la catena di
montaggio ci ha lasciato disorientati. Non esiste una critica dell'uso
capitalistico del macchinismo post-fordista. Il decentramento centralizzante
dell'automazione d'integrazione informatica ha scisso cooperazione tecnica e
cooperazione sociale, ha verticalizzato e concentrato il comando mentre ha
frantumato e disseminato orizzontalmente macchine e operai. Si va perdendo
la centralita' della fabbrica come luogo di integrazione del ciclo di
produzione. Diventa molto piu' complesso quel movimento di andata e ritorno
tra soggettivita' operaia e movimenti del capitale che era proprio
dell'inchiesta che ci proponeva Panzieri. Quando allora si parlava di
con-ricerca o di inchiesta socialista si sottintendeva una visione, non
certo deterministica, ma comunque piuttosto ottimista circa il rapporto tra
essere sociale e coscienza sociale. Oggi questo rapporto e' molto piu'
contraddittorio.
*
In tempi come questi il rischio piu' grave e' quello di andare a cercare
soltanto cio' che vogliamo trovare mentre e' fondamentale nell'inchiesta
incontrare l'alieno, lo sconosciuto, l'imprevisto. L'intreccio sempre piu'
significativo tra ambiti di vita e di lavoro richiede un ripensamento di
fondo dell'inchiesta. Non c'e' piu' un punto di osservazione privilegiato
della condizione operaia. Il call center, il bancario al video-terminale, il
conduttore di sistemi automatici, il lavoro autonomo di seconda generazione,
l'hacker creativo? Oppure le immense periferie cinesi, indiane e brasiliane
che ci ricordano, su smisurata dimensione di scala, la Londra ottocentesca
di Engels? Occorre rifuggire dalle semplificazioni, occorre evitare di
assumere la parte per il tutto, e' necessario riaccendere i riflettori sul
lavoro da ogni lato, da molte postazioni, da svariate angolature.
Vi sono queste e infinite altre difficolta' nel ridefinire e rilanciare il
metodo dell'inchiesta ma alla base della paralisi e dell'indifferenza verso
l'inchiesta c'e' una colossale, gigantesca svalutazione economica, culturale
e politica del lavoro. Solo dei visionari potrebbero negare la dilatata
presenza sociologica del lavoro, tutti pero' dobbiamo constatare il crollo
del valore del lavoro che, a mio avviso, ha la sua radice principale nella
rottura drammatica del nesso tra lavoro e politica, tra lavoro e
trasformazione sociale. Ci vuole anticonformismo, e' necessario spezzare
senza pieta' il conservatorismo delle pratiche e delle idee, occorre
consapevolezza piena dei mutamenti di fondo, coraggio, come diceva Raniero,
di rompere radicalmente, ma rompere per continuare. Non rompere per
liquidare.

6. RILETTURE. MANUELA DVIRI: LA GUERRA NEGLI OCCHI
Manuela Dviri, La guerra negli occhi, Avagliano Editore, Cava de' Tirreni
2003, pp. 180, euro 12. Il "diario da Tel Aviv" di una straordinaria donna
costruttrice di pace.

7. RILETTURE. MANUELA DVIRI: VITA NELLA TERRA DI LATTE E MIELE
Manuela Dviri, Vita nella terra di latte e miele, Ponte alle Grazie, Milano
2004, pp. 168, euro 10. Dal lutto per la morte del figlio all'impegno per la
pace, nella "storia di una donna qualunque in tempi difficili" una nitida e
preziosa testimonianza che indica la via della convivenza, contro tutte le
violenze, contro tutte le uccisioni.

8. RILETTURE. ELENA LOEWENTHAL: L'EBRAISMO SPIEGATO AI MIEI FIGLI
Elena Loewenthal, L'Ebraismo spiegato ai miei figli, Bompiani, Milano 2002,
pp. 96, euro 6,20. In stile semplice e piano, con tenerezza e commozione,
una presentazione dell'ebraismo da parte di un'autorevole studiosa; una
lettura per bambine e bambini, ragazze e ragazzi, ma assai giovevole anche
agli adulti.

9. RILETTURE. ELENA LOEWENTHAL: LETTERA AGLI AMICI NON EBREI
Elena Loewenthal, Lettera agli amici non ebrei, Bompiani, Milano 2003, pp.
96, euro 6,20. Un libro acuto e appassionato, una lettura doverosa.

10. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.

11. PER SAPERNE DI PIU'
* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per
contatti: azionenonviolenta at sis.it
* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia:
www.peacelink.it/users/mir; per contatti: mir at peacelink.it,
luciano.benini at tin.it, sudest at iol.it, paolocand at inwind.it
* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per
contatti: info at peacelink.it

LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 994 del 17 luglio 2005

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