La nonviolenza e' in cammino. 919



LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 919 del 4 maggio 2005

Sommario di questo numero:
1. Sissimo
2. Joseph Ratzinger: Per un'etica comune (in dialogo con Juergen Habermas)
3. Rodolfo Venditti: Servizio civile volontario e "difesa civile non armata
e nonviolenta"
4. Maria Grazia Giannichedda: Il dolore delle persone
5. La "Carta" del Movimento Nonviolento
6. Per saperne di piu'

1. EDITORIALE. SISSIMO
Diciamoci le cose che tutti gia' sappiamo.
Che la guerra consiste dell'uccidere, e che il nostro paese e' ancora in
guerra.
Che non vi e' orrore peggiore dell'orrore, e che la guerra non e' efficiente
a impedire la guerra, che scannare innocenti non vale a impedire che
innocenti scannati siano, per la contradizion che nol consente.
Se non si spezzano le armi non cesseranno le stragi, e il pianto ai funerali
degli uccisi non varra' a salvare altre vite.
La legge fondamentale delle Nazioni Unite, come la legge fondamentale della
Repubblica Italiana, rispettivamente qualificano la guerra come "flagello" e
ad essa esprimono netto ed inequivocabile un ripudio. Sarebbe ora di
prendere sul serio le buone leggi che salvano le vite, che fondano l'umana,
civile convivenza.
Sissimo, e' il contrario di omissis.

2. RIFLESSIONE. JOSEPH RATZINGER: PER UN'ETICA COMUNE (IN DIALOGO CON
JUERGEN HABERMAS)
[Dal sito "Caffe' Europa" (per contatti: redazione at caffeeuropa.it)
riprendiamo il testo seguente, trascrizione dell'intervento del cardinale
Joseph Ratzinger nel colloquio tra lui e Juergen Habermas svoltosi il 19
gennaio 2004 a Monaco presso la Katholische Akademie in Bayern sul tema
"Ragione e fede, scambio reciproco per un'etica comune" (la traduzione
italiana degli interventi e' apparsa nel n. 83 del maggio-giugno 2004 della
rivista "Reset" in un dossier dal titolo "Democrazia bisognosa di
religione?"). La traduzione dal tedesco e' di Lorenzo Lozzi Gallo.
Ringraziamo Enrico Peyretti e Raniero La Valle per la segnalazione.
Joseph Ratzinger, all'epoca cardinale e prefetto della "Congregazione per la
dottrina della fede" della Chiesa cattolica apostolica romana, e' oggi di
quella Chiesa pontefice col nome di Benedetto XVI.
Juergen Habermas, sociologo e filosofo tedesco, nato nel 1929, e'
attualmente tra i piu' influenti pensatori contemporanei. Opere di Juergen
Habermas: nella sua enorme produzione segnaliamo almeno Conoscenza e
interesse (1968, tr. it. Laterza); Teoria dell'agire comunicativo (1981, tr.
it. Il Mulino); Etica del discorso (1983, tr. it. Laterza); Il discorso
filosofico della modernita' (1984, tr. it. Laterza). Opere su Juergen
Habermas: un'agile introduzione e' il volumetto di Walter Privitera, Il
luogo della critica. Per leggere Habermas, Rubbettino, Soveria Mannelli
1996; una recente assai utile monografia complessiva di taglio introduttivo
e' quella di Stefano Petrucciani, Introduzione a Habermas, Laterza,
Roma-Bari 2000]

Mentre i processi storici in cui siamo coinvolti evolvono con rapidita'
sempre maggiore, mi sembra che soprattutto due fattori si manifestino come
caratteristiche di un'evoluzione che prima procedeva solo in tempi lunghi:
il primo e' la nascita di una societa' globale, in cui i singoli poteri
politici, economici e culturali sempre piu' fanno riferimento l'uno
all'altro e nei loro differenti spazi vitali entrano in contatto e si
permeano vicendevolmente; il secondo e' lo sviluppo delle possibilita'
dell'essere umano - il potere di creare e di distruggere - le quali
sollevano la questione dei controlli giuridici e morali sul potere molto
oltre rispetto a quanto siamo stati abituati finora.
Pertanto e' assai urgente affrontare la questione di come le culture
incontrandosi possano trovare fondamenti etici atti a condurle sulla strada
giusta ed a costruire una comune forma di delimitazione e regolazione del
potere provvista di una legittimazione giuridica.
Ai due fattori succitati se ne aggiunge un terzo: nel processo di incontro e
compenetrazione delle culture vengono distrutte quelle che erano state
finora le principali certezze in materia di etica. La questione di cosa sia
dunque veramente il bene - soprattutto nel contesto attuale - e perche' lo
si debba mettere in pratica anche a costo di ricavarne un danno personale,
tale questione fondamentale rimane ampiamente senza risposta.
Ora, mi sembra evidente che la scienza come tale non puo' produrre un'etica,
e dunque una rinnovata consapevolezza etica non si realizza come prodotto di
dibattiti scientifici. D'altra parte e' anche innegabile che il fondamentale
cambiamento della concezione del mondo e dell'essere umano, risultato delle
crescenti conoscenze scientifiche, abbia svolto un ruolo essenziale nella
distruzione delle antiche certezze morali.
A tale riguardo, esiste pero' una responsabilita' della scienza nei
confronti dell'essere umano in quanto tale, e soprattutto una
responsabilita' della filosofia nell'accompagnare criticamente lo sviluppo
delle singole scienze e nell'esaminare criticamente conclusioni affrettate e
finte certezze su cosa sia l'essere umano, da dove venga e perche' esista;
in altre parole, nel separare l'elemento non scientifico dai risultati
scientifici - con cui spesso e' mescolato - e mantenere lo sguardo
sull'insieme, sulle altre dimensioni della realta' umana, di cui nella
scienza si possono mostrare solo aspetti parziali.
*
Maggioranza e verita'
In concreto, e' compito della politica sottoporre il potere al controllo
della legge, in modo da garantirne un uso assennato. Non deve valere la
legge del piu' forte, ma la forza della legge. Il potere controllato e
guidato da essa e' l'opposto della violenza, che noi intendiamo come potere
senza legge e contrario alla legge. Per questo e' importante per ogni
societa' superare la diffidenza nei confronti della legge e dei suoi
ordinamenti: solo cosi', infatti, si esclude l'arbitrio e la liberta' puo'
essere vissuta come liberta' condivisa dalla comunita'.
Il compito di porre il potere sotto il controllo del diritto rimanda, di
conseguenza, all'ulteriore questione di come nasce il diritto e di come deve
essere il diritto affinche' sia strumento della giustizia e non del
privilegio di coloro che detengono il potere di legiferare. Il problema
della necessita' che il diritto non sia strumento di pochi, ma espressione
dell'interesse comune, appare risolto - almeno per ora - attraverso gli
strumenti del processo decisorio democratico, perche' tutti collaborano alla
nascita del diritto e percio' esso e' la legge di tutti e puo' e deve essere
considerato tale. Di fatto, la garanzia della collaborazione nella
formazione della legge e nell'equa gestione del potere e' il motivo
fondamentale a favore della definizione della democrazia come la forma di
ordinamento politico piu' adeguata.
Tuttavia, mi sembra, resta ancora aperta una questione.
Dal momento che difficilmente c'e' unanimita' tra gli esseri umani, per il
processo decisorio democratico rimane come strumento indispensabile
esclusivamente la delega della rappresentanza da un lato e la decisione a
maggioranza dall'altro; per quanto riguarda quest'ultima, in base
all'importanza della decisione si possono richiedere diversi ordini di
grandezza della maggioranza. Anche le maggioranze, pero', possono essere
cieche o ingiuste. La storia lo dimostra in modo piu' che evidente: quando
una maggioranza - per quanto preponderante - opprime con norme persecutorie
una minoranza, per esempio religiosa o etnica, si puo' parlare ancora di
giustizia o in generale di diritto?
Il principio di maggioranza lascia pertanto sempre aperta la questione dei
fondamenti etici della legge: la questione se non esista qualcosa che non
puo' mai diventare legittimo, qualcosa dunque che di per se' rimane sempre
un'ingiustizia, oppure al contrario anche qualcosa che per sua natura e'
legge immutabile, a prescindere da ogni decisione della maggioranza, e da
essa deve essere rispettata.
L'eta' moderna ha formulato un patrimonio di simili elementi normativi nelle
differenti dichiarazioni dei diritti umani e li ha sottratti al gioco delle
maggioranze. Ci si puo' accontentare, nella coscienza contemporanea,
dell'evidenza interna di questi valori; tuttavia, anche una simile rinuncia
autoimposta ad indagare ha carattere filosofico. Ci sono dunque valori che
valgono per se stessi, che provengono dalla natura umana e percio' sono
inattaccabili per tutti coloro che possiedono questa natura. Sulla portata
di una simile rappresentazione dovremo tornare ancora in seguito, tanto piu'
che tale evidenza oggi non e' assolutamente riconosciuta in tutte le
culture.
*
Quale rapporto tra religione e progresso?
Quando ci si occupa del rapporto tra potere e diritto e delle fonti del
diritto, anche il fenomeno stesso del potere deve essere preso in esame piu'
approfonditamente.
Non voglio tentare di definire l'essenza del potere in quanto tale, ma
delineare le sfide poste dalle nuove forme di potere che si sono evolute
negli ultimi cinquant'anni.
Nei primi tempi dopo la seconda guerra mondiale, incombeva lo spettro di un
nuovo potere distruttivo per gli uomini, aumentato con la scoperta della
bomba atomica. L'uomo si vedeva improvvisamente in grado di distruggere se
stesso e il suo mondo. Si levo' la questione: quali meccanismi politici sono
necessari, per scongiurare una simile distruzione? Come possono essere
mobilitate forze etiche che creino tali forme politiche e gli conferiscano
capacita' operativa? De facto, per un lungo periodo fu la competizione tra
blocchi di potere contrapposti e la paura di causare la propria distruzione
insieme con quella dell'altro, che ci ha preservati dallo spettro della
guerra atomica. La limitazione reciproca del potere e la paura per la
propria sopravvivenza si dimostrarono forze salvatrici.
Nel frattempo, non ci spaventa piu' tanto la paura di una grande guerra,
bensi' la paura del terrorismo onnipresente, che puo' colpire e attivarsi in
ogni luogo. L'umanita', vediamo oggi, non ha bisogno della grande guerra per
rendere invivibile il mondo. I poteri anonimi del terrore, che possono
essere presenti in ogni luogo, sono sufficientemente forti da perseguitarci
tutti fin nella vita d'ogni giorno, dove permane la minaccia che elementi
criminali guadagnino l'accesso a grandi potenziali di distruzione e percio'
possano sprofondare il mondo nel caos fuori dall'ordinamento della politica.
La questione del diritto e dell'etica si e' dunque spostata: da quale fonte
si alimenta il terrorismo? Come puo' l'umanita' riuscire a scacciare questa
nuova malattia dal suo interno? Inoltre e spaventoso che almeno in parte il
terrorismo si legittimi moralmente. I messaggi di Bin Laden presentano il
terrorismo come la risposta dei popoli oppressi e senza potere alla superbia
dei potenti, come la giusta punizione per la loro arroganza e per il loro
sacrilego autoritarismo e la loro crudelta'. Per persone in determinate
condizioni sociali e politiche simili motivazioni evidentemente sono
convincenti. In parte il comportamento dei terroristi e' rappresentato come
la difesa di una tradizione religiosa contro l'empieta' della societa'
occidentale.
A questo punto si impone un'altra questione su cui dovremo tornare: se il
terrorismo e' alimentato dal fanatismo religioso, come e', la religione e'
salvifica e risanatrice, o non piuttosto un potere arcaico e pericoloso, che
crea falsi universalismi e percio' induce all'intolleranza e al terrorismo?
La religione non deve pertanto essere posta sotto la tutela della ragione e
attentamente delimitata? Sorge dunque spontaneamente la domanda: chi puo'
farlo? Come si puo' fare? Ma la domanda generale rimane: l'annullamento
generalizzato della religione, il suo superamento, deve essere considerato
un necessario progresso dell'umanita' sulla via della liberta' e della
tolleranza universale, o no?
Nel frattempo e' apparsa in primo piano un'altra forma di potere, che sembra
del tutto benefica e meritevole di approvazione, ma in realta' puo'
diventare una nuova minaccia per l'essere umano: l'uomo e' ora in grado di
creare essere umani, per cosi' dire di produrli in provetta. L'uomo diventa
un prodotto, e di conseguenza cambia radicalmente l'atteggiamento dell'uomo
verso se stesso. Non e' piu' un dono della natura o del Dio creatore; e'
prodotto di se stesso. L'uomo e' giunto alla sorgente del potere, nel luogo
di origine della propria stessa esistenza. La tentazione di creare infine
l'uomo perfetto, di condurre esperimenti sugli esseri umani, di vedere gli
esseri umani come spazzatura e di metterli da parte, non e' una
fantasticheria di moralisti nemici del progresso.
Se poco fa ci si e' posta la questione se la religione sia davvero una forza
morale positiva, ora deve affiorare il dubbio sulla affidabilita' della
ragione.
Alla fin fine, anche la bomba atomica e' un prodotto della ragione, e
l'allevamento e la selezione di esseri umani sono stati ideati dalla
ragione. Ora non dovrebbe dunque a sua volta essere messa sotto osservazione
la ragione? Ma da chi o da cosa? O forse religione e ragione dovrebbero
limitarsi a vicenda, e ciascuna mettere l'altra al suo posto e condurla
sulla propria via positiva?
A questo punto di nuovo si pone la questione di come, in una societa'
globale con i suoi meccanismi di potere e con le sue forze senza freni, con
le sue differenti visioni di cio' che e' giusto e di cio' che e' morale, si
possa trovare una evidenza etica operativa, con sufficiente potere di
motivarsi e di imporsi, per rispondere alle sfide delineate in precedenza e
aiutare a superarle.
*
Diritto e ragione
Si raccomanda innanzi tutto uno sguardo alle situazioni storiche comparabili
con la nostra, fino al punto in cui la comparazione e' possibile.
Vale la pena almeno di considerare brevemente che la Grecia conobbe il suo
illuminismo, che il diritto fondato sugli dei perse la sua evidenza e si
dovette indagare alla ricerca di piu' profondi fondamenti del diritto. Cosi'
nacque l'idea che di fronte alla giurisprudenza, che puo' essere iniqua,
deve esserci una legge che promani dalla natura, dall'essenza stessa
dell'essere umano. Tale legge deve essere trovata e rappresenta quindi il
correttivo del diritto positivo.
In un'epoca piu' vicina a noi, si puo' considerare la doppia frattura che si
e' verificata all'inizio dell'evo moderno per la coscienza europea e che ha
costretto ad una nuova riflessione sul contenuto e sull'origine del diritto,
sin dai fondamenti.
In primo luogo, dunque, l'evasione dai confini del mondo europeo e
cristiano, che si compie con la scoperta dell'America. Si incontrano popoli
che non appartengono alla compagine di credo e di diritto cristiana, che era
stata fino ad allora l'origine del diritto per tutti e gli aveva conferito
la sua fisionomia. Ma sono dunque privi di diritto, come molti pensarono
allora e come fu praticato largamente, o esiste un diritto che supera tutti
i sistemi giuridici e lega e delimita gli esseri umani come tali nel loro
incontrarsi? Francisco de Vitoria in questa situazione ha sviluppato il
concetto preesistente dello "ius gentium", il "diritto dei popoli", in cui
nella parola "gentes" e' compreso anche il significato di pagani, non
cristiani.
La seconda frattura nel mondo cristiano si compi' all'interno della
cristianita' stessa, attraverso lo scisma con cui la comunita' dei cristiani
si divise in comunita' diverse e in parte ostili.
Di nuovo occorre sviluppare un diritto comune precedente al dogma, almeno un
minimum giuridico, le cui basi devono trovare il proprio fondamento non piu'
nella fede, ma nella natura, nella ragione umana. Hugo Grotius, Samuel von
Pufendorf e altri hanno sviluppato il concetto di un diritto naturale come
diritto razionale, che oltre le barriere di fede pone in vigore la ragione
come l'organo di comune costruzione del diritto.
Il diritto naturale e' rimasto, soprattutto nella chiesa cattolica, la
figura argomentativa con cui essa richiama alla ragione comune nel dialogo
con le societa' laiche e con le altre comunita' di fede e con cui ricerca i
fondamenti di una comprensione attraverso i principi etici del diritto in
una societa' laica e pluralista. Ma questo strumento e' purtroppo diventato
inefficace, e non vorrei basarmi su di esso in questo intervento. Il
concetto del diritto di natura presuppone un'idea di natura in cui natura e
ragione si compenetrano, la natura stessa e' razionale. Questa visione della
natura, con la vittoria della teoria evoluzionista si e' persa. La natura
come tale non sarebbe razionale, anche se in essa v'e' un atteggiamento
razionale: questa e' la diagnosi che per noi ne deriva e che oggi appare per
lo piu' inoppugnabile. Delle differenti dimensioni del concetto di natura,
su cui si fondava un tempo il diritto naturale, rimane dunque solo quella
sintetizzata da Ulpiano (III secolo d. C.) nella nota formulazione: "Ius
naturae est, quod natura omnia animalia docet". Ma cio' non basta per le
nostre questioni, in cui si tratta di individuare non gia' cosa riguarda
tutti gli "animalia", ma gli specifici doveri, che la ragione umana ha
creato per gli uomini e ai quali non si possono fornire risposte senza la
ragione.
Come ultimo elemento del diritto naturale, che vuole essere il piu'
profondamente possibile un diritto razionale - almeno nell'eta' moderna -
sono rimasti i diritti umani. Essi non sono comprensibili senza presupporre
che l'uomo in quanto tale, semplicemente per la sua appartenenza alla specie
umana, sia soggetto di diritti, che il suo essere stesso comporti valori e
norme che devono essere individuati, ma non inventati.
Forse oggi la teoria dei diritti umani dovrebbe essere integrata da una
dottrina dei doveri umani e dei limiti umani, e cio' potrebbe pero' aiutare
a rinnovare la questione, se non ci possa essere una ragione naturale, e
dunque un diritto razionale, per l'uomo e la sua esistenza nel mondo. Un
simile discorso dovrebbe oggi essere interpretato e applicato
interculturalmente. Per i cristiani cio' avrebbe a che fare con la creazione
e con il Creatore. Nel mondo indiano corrisponderebbe al concetto di
"Dharma", la legge interna all'essere; nella tradizione cinese all'idea
degli ordinamenti celesti.
*
L'interculturalita' e le sue conseguenze
Prima che di arrivare alle considerazioni finali, vorrei approfondire il
discorso accennato poc'anzi.
L'interculturalita' mi sembra rappresentare oggi una dimensione inevitabile
della discussione sulle questioni fondamentali dell'essenza dell'essere
umano, che non puo' essere condotta ne' del tutto all'interno del
Cristianesimo ne' puramente all'interno della tradizione razionalista
occidentale. Infatti, entrambi si considerano universali in base alla
propria percezione di se' e aspirano ad esserlo anche de iure. Devono pero'
riconoscere de facto che sono accettate e addirittura comprensibili solo per
una parte dell'umanita'. Il numero delle culture concorrenti e' tuttavia
molto piu' limitato di quanto puo' sembrare ad un primo sguardo.
Prima di tutto e' importante il fatto che non esiste alcuna unanimita'
all'interno delle aree culturali, ma tutte subiscono l'influenza di profondi
conflitti all'interno della propria tradizione culturale.
In occidente e' del tutto evidente. Anche se predomina largamente la cultura
laica di una rigorosa razionalita', di cui Habermas ci ha fornito
un'immagine persuasiva, ed essa si considera vincolante, la percezione
cristiana della realta' oggi come ieri e' una forza attiva. Gli estremi si
trovano di volta in volta vicini o in conflitto, con reciproca
disponibilita' a imparare oppure in piu' o meno deciso rifiuto l'uno
dell'altra.
Anche la cultura islamica e' influenzata da simili tensioni;
dall'assolutismo fanatico di un Bin Laden fino agli atteggiamenti che
rimangono aperti a una razionalita' tollerante, si stende un ampio
ventaglio.
La terza grande area culturale - la cultura indiana, o meglio le aree
culturali dell'Induismo e del Buddismo - e' attraversata nuovamente da
simili conflitti, anche se essi si manifestano in modo meno drammatico,
almeno ai nostri occhi. Anche questa cultura si vede esposta alle
rivendicazioni della razionalita' occidentale come alle domande della fede
cristiana, le une e le altre rappresentate in essa.
Le culture tribali africane e quelle latinoamericane, risvegliate da
determinate teologie cristiane, completano il quadro. Appaiono mettere in
discussione la razionalita' occidentale, ma anche la rivendicazione
universale del messaggio cristiano.
Qual e' la conseguenza di tutto cio'?
Innanzi tutto, mi sembra, la non universalita' di fatto di entrambe le
principali culture dell'occidente, quella della fede cristiana e quella
della razionalita' laica, per quanto entrambe esercitino - ciascuna a sua
modo - un influsso su tutto il mondo e tutte le culture.
A tale riguardo mi sembra che la questione dei colleghi di Teheran, che
Habermas ha citato, sia dunque di qualche peso: cioe' la questione se la
secolarizzazione europea, in una prospettiva di culture comparate e di
sociologia della religione, non sia una deviazione che necessita una
correzione. Non ridurrei la questione esclusivamente, o almeno non
necessariamente, alla posizione di Carl Schmitt, Martin Heidegger e Leo
Strauss, circa una situazione europea per cosi' dire stanca di razionalita'.
Comunque, e' un dato di fatto che la nostra razionalita' secolare, per
quanto illumini la nostra ragione di formazione occidentale, non e'
comprensiva di ogni ragione che, in quanto razionalita', nella sua ricerca
di rendersi evidente urta contro dei limiti. La sua evidenza e' di fatto
legata a determinati contesti culturali, e deve riconoscere che, in quanto
tale, non e' comprensibile a tutta l'umanita' e percio' in se stessa non
puo' neppure essere del tutto operativa.
In altre parole, non esiste una formula di interpretazione del mondo
razionale, etica o religiosa, su cui tutti siano d'accordo e che potrebbe
dunque sostenere il tutto; comunque e' attualmente irraggiungibile. Percio'
anche la cosiddetta etica globale rimane un'astrazione.
*
Disponibilita' (reciproca) ad apprendere
Che fare, dunque?
Per cio' che riguarda le conseguenze pratiche, mi trovo in ampio accordo con
cio' che Habermas ha esposto sulla societa' post-secolare, riguardo la
disponibilita' ad apprendere e la autolimitazione da entrambe le parti.
Vorrei riassumere la mia opinione personale in due tesi.
In primo luogo, abbiamo visto che ci sono patologie nella religione, che
sono assai pericolose e che rendono necessario considerare la luce divina
della ragione come un organo di controllo, dal quale la religione deve
costantemente lasciarsi chiarificare e regolamentare; questo era anche il
pensiero dei Padri della Chiesa.
Ma nelle nostre riflessioni si e' anche mostrato che esistono patologie
anche nella ragione (cosa che all'umanita' oggi non e altrettanto nota): una
hybris della ragione, che non e' meno pericolosa, ma a causa della sua
potenziale efficacia e' ancora piu' minacciosa: la bomba atomica, l'uomo
visto come un prodotto. Percio' anche alla ragione devono essere rammentati
i suoi limiti ed essa deve imparare la capacita' di ascolto nei confronti
delle grandi tradizioni religiose dell'umanita'. Quando essa si emancipa
completamente e rifiuta questa capacita' di apprendere, questo rapporto
correlativo, diventa distruttiva.
Kurt Huebner ha brevemente formulato una simile esortazione dicendo che con
una tesi del genere non si tratterebbe di un "ritorno alla fede", ma della
"liberazione dall'errore epocale, che essa (cioo' la fede) non abbia piu'
nulla da dire ai contemporanei, perche' in contrasto con la loro idea
umanistica di ragione, illuminismo e liberta'" (in Das Christentum im
Wettstreit der Religionen, Mohr Siebeck, 2003, p. 148). Di conseguenza
parlerei della necessita' di un rapporto correlativo tra ragione e fede,
ragione e religione, che sono chiamate alla reciproca chiarificazione e
devono far uso l'una dell'altra e riconoscersi reciprocamente.
In secondo luogo, questa regola di base deve essere messa in pratica nel
contesto interculturale della contemporaneita'.
Senza dubbio, i due partner principali in questo rapporto correlativo sono
la fede cristiana e la razionalita' laica occidentale: si puo' e si deve
dirlo senza falso eurocentrismo. Entrambi determinano la situazione globale
come nessun'altra delle forze culturali. Cio' non significa pero' che sia
lecito accantonare le altre culture come un'entita' in qualche modo
trascurabile. Cio' sarebbe una hybris occidentale, che pagheremmo cara e in
parte gia' paghiamo. E' importante per entrambe le grandi componenti della
cultura occidentale acconsentire ad un ascolto, ad un rapporto di scambio
anche con queste culture. E' importante accoglierle nel tentativo di una
correlazione polifonica, in cui esse si aprano spontaneamente alla
complementarita' essenziale di ragione e fede, cosicche' possa crescere un
processo universale di chiarificazione, in cui infine le norme e i valori
essenziali in qualche modo conosciuti o intuiti da tutti gli esseri umani
possano acquistare nuovo potere di illuminare, cosicche' cio' che tiene
unito il mondo possa nuovamente conseguire un potere efficace nell'umanita'.

3. RIFLESSIONE. RODOLFO VENDITTI: SERVIZIO CIVILE VOLONTARIO E "DIFESA
CIVILE NON ARMATA E NONVIOLENTA"
[Dal notiziario dell'"Accademia apuana della pace" del 30 aprile 2005 (per
contatti: e-mail: aadp at lillinet.org, sito: www.aadp.it) riprendiamo questo
testo di Rodolfo Venditti. Rodolfo Venditti, nato a Ivrea nel 1925, docente
universitario e magistrato, ha pubblicato vari libri in cui ha analizzato in
chiave critica la legislazione penale militare alla luce dei principi
costituzionali e in cui ha dedicato ampio spazio allo studio dell'obiezione
di coscienza al servizio militare. Opere di Rodolfo Venditti: L'obiezione di
coscienza al servizio militare, Giuffre', Milano 1981 (nuova ed. 1994; terza
edizione 1998, dopo la nuova legge di quell'anno); Le ragioni dell'obiezione
di coscienza, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1986; Giustizia come servizio
all'uomo. Riflessioni di un magistrato sul lavoro del giudice, Elle Di Ci,
Leumann-Torino 1995; La difesa popolare nonviolenta: storia, teoria, esempi
concreti. Aperture dell'ordinamento giuridico italiano, Eirene, Studi per la
pace, Bergamo 1996; Legge e liberta'. I giovani, la legalita', la giustizia,
Fondazione Italiana per il Volontariato, 1998; segnaliamo anche la sua
aggraziata e felice Piccola guida alla grande musica, Sonda, Torino 1990, in
piu' volumetti]

1. L'istituzione del servizio civile volontario, verificatasi parallelamente
alla sospensione dell'obbligatorieta' del servizio militare, ha innescato
una corrente di pensiero che tende a ritenere superato il principio (sancito
dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 164/85) secondo cui il
servizio civile costituisce un modo di adempiere il dovere di difesa della
Patria mediante modalita' di difesa non armata.
Gli argomenti che vengono addotti a fondamento di quella tesi si possono
riassumere nelle seguenti proposizioni:
A) II servizio civile nacque in Italia in relazione al riconoscimento
dell'obiezione di coscienza al servizio militare obbligatorio (legge n.
772/1972); quindi venne a configurarsi, originariamente, come alternativo al
servizio militare obbligatorio e pertanto con valenze riconducibili al
dovere di difesa della Patria (sentenza n. 184/85 della Corte
costituzionale).
B) Oggi l'obbligo del servizio militare e' stato sospeso in tempo di pace
(legge n. 331/2000), poiche' le forze armate sono state ristrutturate
ricorrendo esclusivamente a contingenti di volontari. La scomparsa
dell'obbligo del servizio militare in tempo di pace fa cadere il presupposto
dell'obiezione di coscienza e del servizio civile degli obiettori.
C) E' stato, inoltre, ristrutturato il servizio civile, poiche' la legge n.
64/2001 ha istituito un servizio civile volontario retribuito, aperto a
tutti i giovani (ragazzi e ragazze) aventi determinati requisiti di eta' e
di condizioni fisiche.
D) Conseguentemente e' caduto il presupposto per agganciare il servizio
civile al dovere di difesa della Patria. Tanto piu' che quel servizio ha,
ormai, una totale autonomia rispetto alle forze armate. Esso non e' piu'
riconducibile al dovere di difesa della Patria, bensi' "mira alla difesa
della Repubblica in modo assolutamente diverso e alternativo rispetto alla
'difesa' in parola: costruzione civica di valori fondamentali, fra i quali,
fino a prova contraria, non figura la difesa di cui all'art. 52" (1).
E) Pertanto il servizio civile appare oggi riconducibile al dovere
costituzionale di solidarieta'. E in tale ottica esso non e' piu' concepito
(come lo era, invece, il servizio civile degli obiettori) alla stregua di
una forma di supporto alle esigenze degli enti convenzionati. Invero,
secondo quanto dispone il decreto legislativo 5 aprile 2002 n. 77, la
Presidenza del Consiglio dei Ministri individua le caratteristiche a cui si
devono attenere tutti i progetti di servizio civile; e tali progetti
diventeranno operativi solo se approvati, in esito ad uno specifico esame.
Cio' concreterebbe una sostanziale differenza qualitativa rispetto al
sistema che vigeva ai tempi del servizio militare obbligatorio e del
correlativo servizio civile degli obiettori di coscienza al servizio
militare (2).
*
2. Le affermazioni contenute sub A), B) e C) sono indiscutibili: riguardano
dati obiettivi su cui non c'e' questione. Le questioni sorgono sulle
affermazioni successive, le quali traggono delle conseguenze che sono
ampiamente contestabili. Non pare, infatti, che gli argomenti sub D) e sub
E) siano idonei a fondare la tesi secondo cui oggi l'attuale servizio civile
volontario non puo' essere considerato un modo di adempiere il dovere di
difesa della Patria.
Invero, anche se oggi e' scomparso, per il tempo di pace, l'obbligo del
servizio militare (e su tale scomparsa ritengo sia fondato avanzare dubbi di
incostituzionalita' (3)), resta incontestabile che il dovere di difesa della
Patria riguarda tutti i cittadini indistintamente, e che esso sussiste non
solo in tempo di guerra. Cio' comporta che il cittadino dovra' pur
attivarsi, in tempo di pace, per prepararsi alla evenienza "guerra": tant'e'
vero che, gia' in tempo di pace, una frazione di cittadini si arruola
volontariamente nelle forze armate, in previsione di essere impiegata in
caso di guerra.
E' ben vero che in questa materia non esiste ancora, per il tempo di guerra,
una adeguata normativa che preveda le modalita' di chiamata alle armi di
moltitudini di uomini e donne di cui non sono ancora note le attitudini
militari, e che preveda le modalita' di riconoscimento di eventuali
obiettori ed obiettrici al servizio militare (non potendosi ovviamente
applicare in caso di guerra una normativa sull'obiezione di coscienza in cui
modalita' e tempi di riconoscimento sono previsti in funzione del tempo di
pace). Ed e' vero altresi' che la legislazione e' carente anche in tema di
addestramento in tempo di pace: si puo' ben dire che, pel momento, lascia
cio' all'iniziativa del singolo, al "fai da te".
Ma cio' nulla toglie al reale significato dell'art. 52, primo comma, della
Costituzione. E il reale significato mi pare questo: tutti coloro (uomini e
donne) che non si arruolano volontariamente nelle forze armate sono tenuti a
collaborare alla difesa con modalita' non armate (e a prepararsi a tale
collaborazione). Una di quelle modalita' e', precisamente, il servizio
civile volontario: esso e' oggi disciplinato dalla legge n. 64/2001, la
quale pone appunto tra le prime finalita' di quel servizio il concorrere
alla difesa della Patria con mezzi ed attivita' non militari. Il fatto che
quel servizio civile sia (specialmente dopo la sospensione
dell'obbligatorieta' del servizio militare) del tutto autonomo dalle forze
armate nulla toglie alla sua idoneita' ad essere considerato un mezzo per
adempiere il dovere di difesa: e proprio perche' la difesa puo' essere non
armata, si giustifica perfettamente la autonomia dalle forze armate.
Cio' non esclude, ovviamente, che la difesa non armata della Patria possa
essere praticata attraverso innumerevoli altre forme, diverse dal servizio
civile volontario: come l'attivita' della Croce Rossa, della Protezione
civile, dei Vigili del Fuoco, ecc.
Infatti ci sono mille modi per addestrarsi a difendere con mezzi nonviolenti
la collettivita' nazionale. Ricordo quale caos ci fu in Italia quando
accadde il disastro di Cernobyl: da quel lontanissimo luogo della
Bielorussia si era scatenato un nemico terribile ed invisibile che si
diffondeva in tutta Europa con effetti micidiali. Non c'erano confini che
fermassero quelle radiazioni nucleari; non c'erano armi efficaci per
combatterle. Quel nemico contaminava vegetali e animali, si annidava nel
latte e nelle verdure a foglia larga, metteva in pericolo la salute e la
vita degli esseri umani, specialmente i piu' deboli (come i bambini, i
malati, gli anziani). L'Italia era totalmente impreparata a questo tipo di
aggressione; nessuno sapeva indicare modalita' efficaci di difesa; ministeri
e uffici sanitari davano ordini e contrordini. Per parecchi giorni regno' la
confusione piu' totale. L'Italia aveva schierato truppe e missili ai confini
orientali: ma era totalmente impreparata alla difesa contro quel tipo di
aggressione. Questo e' soltanto un esempio per esprimere in quanti modi puo'
esplicarsi la difesa nonviolenta.
Tra quei modi va ricordato l'addestramento ad un tipo di difesa nonviolenta
che e' stato ampiamente praticato dai popoli in molteplici casi nel corso
della storia: in particolare, in occasione della seconda guerra mondiale e,
in seguito, dai movimenti popolari nonviolenti. Per esempio, quando - dopo
1'8 settembre 1943 - l'Italia venne occupata dalle truppe nazifasciste,
furono innumerevoli gli italiani (uomini, donne, anziani, ragazzi) che si
adoperarono, rischiando la vita, per nascondere un ebreo perseguitato, per
aiutare un partigiano braccato dalle SS naziste o dalle "Brigate Nere"
fasciste, per ostacolare col sabotaggio le attivita' dell'occupante, per
organizzare grandi scioperi di protesta nelle fabbriche del "triangolo
industriale", ecc.
Quanto piu' un popolo e' addestrato ad iniziative di questo genere (che
esigono preparazione e compattezza), tanto maggiori sono le prospettive di
successo. Analogo discorso va fatto a proposito dei movimenti nonviolenti
che si svilupparono, negli ultimi decenni del Novecento, nell'Est europeo e
le cui strategie determinarono, nel 1989 e negli anni successivi, la caduta
del muro di Berlino e dei regimi dittatoriali che governavano i Paesi
dell'Europa orientale: regimi armatissimi che parevano invincibili e che si
sciolsero come neve al sole sotto la pressione di interi popoli che (fatta
eccezione per la Romania, dove vi furono episodi sanguinosi) esprimevano in
modo nonviolento ma deciso, concorde e perentorio, il proprio dissenso e la
propria volonta' di instaurare la democrazia. Negli anni successivi anche il
regime sovietico, che da decenni gestiva assolutisticamente il potere in
Russia e che da anni era eroso da movimenti clandestini di contestazione e
di resistenza nonviolenta, crollava, dando luogo ad una svolta storica, che
fino ad allora era parsa impossibile.
C'e' infine un aspetto molto importante della difesa nonviolenta: quello
della interposizione nonviolenta in zone in cui esistano tensioni tra Stati
o tensioni tra etnie all'interno di un medesimo Stato. In situazioni del
genere l'intervento di soggetti terzi addestrati alla mediazione (per
esempio: soggetti in servizio civile volontario, disponibili a tale tipo di
impegno e congruamente formati ad esso) puo' essere decisivo agli effetti di
evitare lo scontro violento e di superare le tensioni attraverso il dialogo
e la trattativa. Non ho mai capito perche' in situazioni del genere si
intervenga solitamente mandando unita' militari, che - come e' noto - sono
addestrate alla guerra e non alla mediazione.
Ci sono state situazioni in cui un impegno di resistenza nonviolenta era
stato efficacemente iniziato ed avrebbe meritato di essere sviluppato e
potenziato; invece si intervenne con modalita' militari che distrussero ogni
possibilita' di dialogo, pregiudicando per lungo tempo ogni prospettiva di
soluzione pacifica. Esempio tipico: il Kossovo, dove una maggioranza di
etnia albanese era duramente oppressa da una minoranza di etnia serba ed
aveva reagito alla esclusione da scuole ed ospedali pubblici (gestiti dai
serbi) organizzando scuole e ospedali alternativi gestiti da albanesi e
puntando sul dialogo e sulla nonviolenza. Questo delicato e impegnativo
lavoro di superamento degli odi etnici venne distrutto dalla decisione Nato
di intervenire militarmente: la guerra spazzo' via ogni speranza di pace e
il Kossovo divenne terreno di scontro bellico, tuttora presidiato da
contingenti internazionali e tuttora lacerato dall'odio interetnico (*).
*
3. Una recente sentenza della Corte costituzionale (8-16 luglio 2004 n. 228)
si e' pronunciata sul nuovo servizio civile, ribadendo che anche tale nuovo
servizio civile e' riconducibile al dovere di difesa della Patria e
precisando che la "volontarieta'" riguarda solo la scelta iniziale e che il
dovere di difendere la Patria va letto alla luce del principio di
solidarieta', espresso dall'art. 2 della Costituzione. La Corte ha chiarito
che le virtualita' di quel principio trascendono l'area degli "obblighi
normativamente imposti": onde il servizio civile "tende a proporsi come
forma spontanea di adempimento del dovere costituzionale di difesa della
Patria": infatti tale dovere ben puo' essere adempiuto "anche attraverso
comportamenti di tipo volontario".
Ne emerge - a mio giudizio - un perfetto parallelismo tra il binomio
"servizio militare obbligatorio - servizio civile degli obiettori" e il
binomio "servizio militare volontario - servizio civile volontario".
Parallelismo che viene, d'altronde, confermato dalla norma disponente che
"la determinazione del trattamento giuridico ed economico dei volontari in
servizio civile" venga fatta "tenendo conto del trattamento riservato al
personale militare volontario in ferma annuale e nei limiti delle
disponibilita' finanziarie di cui al Fondo nazionale per il servizio civile"
(art. 2, comma 3, lett. b, legge n. 64/2001).
Il fatto, poi, che oggi gli enti di servizio civile siano tenuti a
presentare "progetti" che vengono sottoposti ad un vaglio e ad una
approvazione, non costituisce - a mio modesto avviso - un "salto
qualitativo" di entita' tale da influire sulla natura del servizio: dimostra
semplicemente che il sistema ha subito una positiva maturazione alla luce di
una lunga esperienza trentennale, iniziatasi improvvisamente con
l'emanazione della legge n. 772/1972 (la cui entrata in vigore trovo'
totalmente impreparata l'Amministrazione dello Stato) e portata avanti
attraverso tentativi, sperimentazioni ed errori di vario tipo. Ma: "Errando
discitur".
*
4. La sentenza costituzionale da ultimo citata afferma che il dovere di
difesa della Patria si ricollega al dovere di solidarieta' sancito dall'art.
2 della Costituzione.
Questo rilievo e' pienamente condivisibile, data la sua evidente fondatezza.
Ma ci tengo a rilevare che proprio per tale motivo il dovere di solidarieta'
non puo' essere fondatamente invocato al fine di motivare una diversita' di
natura del servizio civile volontario rispetto al servizio civile degli
obiettori. Adempiere il dovere di difesa e' un modo di adempiere il dovere
di solidarieta', poiche' il primo e' semplicemente una specificazione del
secondo. Anche sotto questo profilo, dunque, non c'e' un salto qualitativo
che connoti il servizio civile volontario e che lo stacchi ontologicamente
dal precedente servizio civile degli obiettori.
Inoltre la nuova formulazione dell'art. 117 Cost. (formulazione introdotta
con la Legge costituzionale n. 3 del 2001), nell'elencare le materie di
legislazione esclusiva dello Stato, indica nel secondo comma, lett. d),
"difesa e Forze armate, sicurezza dello Stato, armi, munizioni ed
esplosivi", distinguendo tra "difesa" e "Forze armate", e quindi facendo
implicito riferimento ad un concetto di "difesa" che non si identifica con
quello di "forze armate", bensi' piu' ampio di esso (4).
Non si dimentichi, poi, che la legge n. 230/98 ha indicato, tra i compiti
dell'Ufficio nazionale per il servizio civile, quello di "predisporre,
d'intesa con il Dipartimento della protezione civile, forme di ricerca e di
sperimentazione di difesa civile non armata e nonviolenta" (art. 8, comma 2,
lett. e)). L'espressione legislativa delinea uno spettro amplissimo di
competenze, che a me sembra comprendere le varie forme di difesa non armata
che ho elencato. La Presidenza del Consiglio dei Ministri ha istituito, in
applicazione di quella norma e con decreto 18 febbraio 2004, un apposito
Comitato di consulenza, composto da      rappresentanti dell'Ufficio
nazionale per il servizio civile e delle Amministrazioni coinvolte, nonche'
di esperti in materia di difesa civile non armata e nonviolenta.
A me pare che le competenze di tale Comitato abbiano l'ampiezza che ho
teste' illustrata, e che tali competenze si riverberino sull'Ufficio
nazionale per il servizio civile e, quindi, sulla natura del servizio civile
stesso (**). Ed allora mi pare che non si possa negare che i giovani e le
giovani che prestano il servizio civile volontario possano essere impiegati,
qualora vi consentano, in servizi di interposizione nonviolenta a livello
internazionale.
*
Note
1. Cosi' P. Consorti, Dal "vecchio" al "nuovo" servizio civile: profili
giuridici, in AA. VV., Senza armi per la pace. Profili e prospettive del
"nuovo" servizio civile (a cura di P. Consorti), Edizioni Plus - Universita'
di Pisa, Pisa 2003, p. 57.
2. P. Consorti, Legislazione del Terzo settore, Edizioni Plus - Universita'
di Pisa, Pisa 2005, p. 64.
3. Sul punto puo' vedersi R. Venditti, L'obiezione di coscienza al servizio
militare. Giuffre', Milano 1999 (terza edizione), p. 180.
4. In tal senso cfr. F. Dal Canto, II servizio civile volontario come difesa
della patria, in "Foro italiano", 2004, I, col. 2959 ss, e particolarmente
col. 2962.
*
Postille
* Ne' si dica che questo tipo di intervento non avrebbe attinenza con la
difesa della Patria. Invero la pace e' un valore fondamentale a cui fanno
riferimento lo Statuto dell'Onu, la Dichiarazione universale dei diritti
umani, l'art. 11 della Costituzione italiana. Una pace autentica e' frutto
di una convivenza internazionale ispirata al dialogo, alla stima dell'altro,
e aliena da aggressivita' e da violenza. Pertanto operare a favore della
pace internazionale significa promuovere la difesa e la sicurezza del
proprio Paese nel modo piu' pieno, piu' efficace e piu' perfetto.
** Escludere da quelle competenze le attivita' di interposizione nonviolenta
significherebbe mutilare la sfera di operativita' del Comitato predetto,
dell'Ufficio nazionale per il servizio civile e del servizio civile
medesimo.

4. RIFLESSIONE. MARIA GRAZIA GIANNICHEDDA: IL DOLORE DELLE PERSONE
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 28 aprile 2005. Maria Grazia
Giannichedda, acutissima sociologa, e' stata una delle principali
collaboratrici degli indimenticabili Franco e Franca Basaglia, la cui lotta
per una psichiatria democratica e per la dignita' umana di tutti gli esseri
umani tuttora prosegue]

In questi giorni molti neuropsichiatri dell'infanzia vivono un grande
sconcerto e imbarazzo: il 25 aprile infatti l'Emea - European Agency for the
Evaluation of Medicinal Products - l'agenzia europea che valuta i farmaci,
ha diffuso la decisione del suo comitato scientifico a proposito di due
particolari classi di farmaci antidepressivi, che hanno la funzione di
bloccare il riassorbimento della serotonina e sono oggi prescritti in Italia
a circa trentamila giovanissimi, tre ogni mille. Test clinici, sostiene
l'Emea "hanno dimostrato che i tentati suicidi... e i comportamenti
aggressivi sono piu' frequenti tra i bambini e gli adolescenti trattati con
questi farmaci", che i ragazzi sono raccomandati, percio', di non usare.
Forti sospetti erano diffusi gia' da diversi anni, specie da quando era
venuto alla luce il fatto che la potente multinazionale Glaxo aveva nascosto
l'evidenza di questi non banali "controeffetti" della somministrazione di
antidepressivi ai minori. Eppure proprio negli ultimi cinque anni in Italia
si e' triplicato l'uso di questi farmaci, prescritti in prevalenza a ragazze
tra il quattordici e i diciassette anni. Certo, siamo ancora lontani dalle
cifre sull'abuso di psicofarmaci documentato negli Stati Uniti e in Canada,
ma non si deve trascurare il consistente "sommerso" rappresentato dall'uso
di altri psicofarmaci come le benzodiazepine, che il nostro servizio
sanitario nazionale non rimborsa e che quindi sfuggono al lavoro di
monitoraggio delle prescrizioni farmacologiche ai minori, che l'istituto
Mario Negri e il consorzio interuniversitario di Bologna stanno conducendo
da oltre cinque anni, sul campione di un milione di bambini e di
adolescenti. Le cifre citate sin qui fanno parte del "terzo rapporto sulle
prescrizioni dei farmaci rimborsabili dal servizio sanitario nazionale ai
bambini non ricoverati in ospedale", presentato alla fine dello scorso anno,
e segnato dalla previsione di un ulteriore aumento delle prescrizioni in
coincidenza con l'arrivo in farmacia, al primo gennaio di quest'anno, del
Ritalin, uno psicostimolante su cui e' accesa da tempo, negli Stati Uniti,
quasi una guerra di religione tra chi ne propaganda gli effetti benefici sui
quasi dieci milioni di bambini trattati, e chi viceversa mette in questione
l'esistenza stessa della "sindrome del bambino iperattivo" che questo
farmaco dovrebbe trattare.
*
C'e' da attendersi, nei prossimi giorni, insieme al plauso anche una ondata
di reazioni critiche alla decisione dell'Emea, probabilmente giocate, come
da tempo e' nella strategia comunicativa delle multinazionali farmaceutiche,
sul tema della diffusione delle malattie mentali, in particolare delle
depressioni, che sembrerebbe aver raggiunto livelli allarmanti, tra i
bambini come tra gli adulti. Si riproporra' il problema di interpretare i
dati che ciclicamente ci arrivano attraverso i grandi media, spesso senza
alcuna citazione delle fonti di informazione e dei finanziatori delle
ricerche e degli screening, che in gran parte sono le stesse case
farmaceutiche produttrici dei rimedi alle malattie che fanno rilevare.
*
Ma cosa significa allora il fatto che siano prescritti oggi antidepressivi a
un cosi' alto numero di adolescenti, in particolare ragazze? Proprio nel
momento in cui si vive, com'e' noto, una delle fasi piu' complesse della
vita, in cui tutto e' fluido e si trasforma, dal corpo alle relazioni con
se' e il mondo? Certo alla base c'e' una sofferenza, che arriva al medico
come domanda, verosimilmente generica, di aiuto da parte dei genitori e
anche degli insegnanti. Questa domanda oggi incontra sempre piu' spesso una
risposta chimica, che ha il vantaggio di convalidare il medico come esperto
e di rassicurare gli utenti senza mettere in questione equilibri
consolidati, in attesa che "passi la nottata", cioe' quel dolore che
vorrebbe dire qualcosa cui nessuno presta orecchio. C'e' anche questo
elemento, e forse ha il maggior peso, dietro al triplicarsi della
depressione tra gli adolescenti.
Che fare allora? E' meglio rivolgersi allo psicoterapeuta che non usa i
farmaci e si offre all'adolescente e magari alla famiglia nello spazio
separato e ancora una volta tecnico del suo ambulatorio? Credo che dovremmo,
innanzi tutto, allargare il ventaglio del possibile, di cio' che possiamo
immaginare e chiedere per la nostra vita. Dovremmo quindi ricominciare a
discutere tutti, esperti e non esperti, sui fatti della vita, sul dolore e i
conflitti che possono accompagnarli, nell'adolescenza come nella menopausa,
per citare un altro periodo che rende le donne piu' degli uomini oggetto di
definizioni diagnostiche e di prescrizioni farmacologiche. Dovremmo
discuterne negli spazi della convivenza, tra amici, in famiglia e anche a
scuola, opponendo resistenza alla crescente tecnicizzazione di ogni spazio,
che fa ad esempio dell'insegnante sempre piu' un fornitore di informazioni
per preparare i giovani al mercato e sempre meno una persona che con altri
suoi simili convive e crea cultura e societa'.
*
Franco Basaglia scriveva nel "Concetto di salute e malattia" del 1975, un
tempo che sembra molto lontano, "che l'ideologia medica assume per se'
l'esperienza della malattia, neutralizzandola fino a ridurla a puro oggetto
di sua competenza", inducendo la persona che sta male "a vivere la malattia
come puro accidente oggettivabile dalla scienza e non come esperienza
personale". Resta questa la questione chiave, su cui troppo poco si discute
e si lavora e che non entra affatto nella formazione dei medici: la
questione del sapere/potere del medico, il suo rapporto col mercato e con la
societa', la medicalizzazione che aliena, che impoverisce l'esistenza, che
restituisce il dolore e la sua complessita' come puro insieme di sintomi.
La scelta tra farmaco e colloquio puo' essere una falsa alternativa se in
entrambi i casi si lavora su diagnosi, in spazi separati, con linguaggi
esoterici che fanno sentire poveri e deboli se non si ha, come nei film di
Woody Allen, la pillola giusta per la propria angoscia o il numero di
telefono del terapeuta.

5. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.

6. PER SAPERNE DI PIU'
* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per
contatti: azionenonviolenta at sis.it
* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia:
www.peacelink.it/users/mir; per contatti: mir at peacelink.it,
luciano.benini at tin.it, sudest at iol.it, paolocand at inwind.it
* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per
contatti: info at peacelink.it

LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 919 del 4 maggio 2005

Per ricevere questo foglio e' sufficiente cliccare su:
nonviolenza-request at peacelink.it?subject=subscribe

Per non riceverlo piu':
nonviolenza-request at peacelink.it?subject=unsubscribe

In alternativa e' possibile andare sulla pagina web
http://web.peacelink.it/mailing_admin.html
quindi scegliere la lista "nonviolenza" nel menu' a tendina e cliccare su
"subscribe" (ed ovviamente "unsubscribe" per la disiscrizione).