La nonviolenza e' in cammino. 857



LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 857 del 3 marzo 2005

Sommario di questo numero:
1. Enrico Peyretti: Giuliana
2. Per Giuliana. Un digiuno
3. Peppe Sini: Angelino
4. Maria G. Di Rienzo: Paura, disistima, insicurezza. Che fare?
5. Mao Valpiana: Dichiarazione in aula a nome di tutti gli imputati per il
blocco nonviolento del treno della morte
6. Giulio Vittorangeli: Quando lavorare significa avvelenarsi
7. Ileana Montini: Leila e noi
8. La "Carta" del Movimento Nonviolento
9. Per saperne di piu'

1. EDITORIALE. ENRICO PEYRETTI: GIULIANA
[Ringraziamo Enrico Peyretti (per contatti: e.pey at libero.it) per questo
intervento..
Enrico Peyretti e' uno dei principali collaboratori di questo foglio, ed uno
dei maestri piu' nitidi della cultura e dell'impegno di pace e di
nonviolenza. Tra le sue opere: (a cura di), Al di la' del "non uccidere",
Cens, Liscate 1989; Dall'albero dei giorni, Servitium, Sotto il Monte 1998;
La politica e' pace, Cittadella, Assisi 1998; Per perdere la guerra, Beppe
Grande, Torino 1999; Dov'e' la vittoria?, Il segno dei Gabrielli, Negarine
(Verona) 2005; e' disponibile nella rete telematica la sua fondamentale
ricerca bibliografica Difesa senza guerra. Bibliografia storica delle lotte
nonarmate e nonviolente, ricerca di cui una recente edizione a stampa e' in
appendice al libro di Jean-Marie Muller, Il principio nonviolenza, Plus,
Pisa 2004 (libro di cui Enrico Peyretti ha curato la traduzione italiana), e
una recentissima edizione aggiornata e' nei nn. 791-792 di questo
notiziario; vari suoi interventi sono anche nei siti: www.cssr-pas.org,
www.ilfoglio.org. Una piu' ampia bibliografia dei principali scritti di
Enrico Peyretti e' nel n. 731 del 15 novembre 2003 di questo notiziario.
Giuliana Sgrena, intellettuale e militante femminista e pacifista tra le
piu' prestigiose, e' tra le maggiori conoscitrici italiane dei paesi e delle
culture arabe e islamiche; autrice di vari testi di grande importanza (tra
cui: a cura di, La schiavitu' del velo, Manifestolibri, Roma 1995, 1999;
Kahina contro i califfi, Datanews, Roma 1997; Alla scuola dei taleban,
Manifestolibri, Roma 2002; Il fronte Iraq, Manifestolibri, Roma 2004); e'
stata inviata del "Manifesto" a Baghdad, sotto le bombe, durante la fase
piu' ferocemente stragista della guerra tuttora in corso. A Baghdad e' stata
rapita il 4 febbraio 2005. Dal sito del quotidiano "Il manifesto"
riprendiamo, con minime modifiche, la seguente scheda: "Nata a Masera, in
provincia di Verbania, il 20 dicembre del 1948, Giuliana ha studiato a
Milano. Nei primi anni '80 lavora a 'Pace e guerra', la rivista diretta da
Michelangelo Notarianni. Al 'Manifesto' dal 1988, ha sempre lavorato nella
redazione esteri: appassionata del mondo arabo, conosce bene il Corno
d'Africa, il Medioriente e il Maghreb. Ha raccontato la guerra in
Afghanistan, e poi le tappe del conflitto in Iraq: era a Baghdad durante i
bombardamenti (per questo e' tra le giornaliste nominate 'cavaliere del
lavoro'), e ci e' tornata piu' volte dopo, cercando prima di tutto di
raccontare la vita quotidiana degli iracheni e documentando con
professionalita' le violenze causate dall'occupazione di quel paese.
Continua ad affiancare al giornalismo un impegno anche politico: e' tra le
fondatrici del movimento per la pace negli anni '80: c'era anche lei a
parlare dal palco della prima manifestazione del movimento pacifista"]

Giuliana Sgrena, a un mese dal rapimento, e' chiusa nel buio della piu'
ignota prigione. Sono certo che molti di noi, al calar di ogni sera, mandano
un pensiero di appoggio al suo animo oppresso, e un raggio di calore di
amicizia, nell'ora in cui ogni cuore raccoglie la sua giornata, se ne chiede
il senso e il frutto, interroga il futuro attraverso la notte.
Sono certo che questo bene le arriva, per le vie misteriose della
compresenza, della comunione spirituale piu' solida e profonda delle nostre
consapevolezze.
Sono certo che, per le energie sue e le nostre insieme, Giuliana resiste,
fino a tornare libera e attiva.
Sono certo che il digiuno a staffetta, che si annuncia corale, di cui lei
ora non sa nulla (ma certamente immagina che mobilitiamo molte forze per
lei), le comunica condivisione della sofferenza, invisibile vicinanza,
estrazione di forze interiori sommerse in noi tutti, che la libera rinuncia
a qualche necessita' non assoluta, produce e rivela sorprendentemente.
Ma piu' di ogni altra cosa sono certo che Giuliana sa che, insieme a lei, ci
preoccupiamo e impegniamo per tutti i prigionieri della guerra: intendo le
vittime, ma anche i violenti di tutte le parti, prigionieri miserabili della
violenza scatenata dalla inescusabile decisione di guerra.
In quel video sconvolgente, prostrata dalla sofferenza fisica e morale, lei
ha detto quello che ha sempre detto: questa guerra impregnata di falsita'
tortura un popolo; l'Italia vi partecipa e si fa odiare.
Noi siamo parte del moto popolare, culminato nella fiumana del 19 febbraio e
nel digiuno corale, di insistente richiesta di giustizia, percio' di
liberazione di tutti i sequestrati - Giuliana, Florence Aubenas e il suo
interprete Hussein - e di fine della guerra e dell'occupazione.
E diciamo che alla guerra deve seguire, per giustizia, il civile e pacifico
aiuto internazionale all'Iraq, e che  gli invasori devono, per giustizia,
essere esclusi dai profitti strategici, politici ed economici del
dopoguerra, loro cinico movente.
Ma anche ci dobbiamo chiedere perche' sono colpite cosi' le persone e
tacitate le voci che parlano contro questa guerra. Noi speriamo e preghiamo
che le violenze scatenate non colpiscano piu' nessuno, e che sia restituita
la parola ai testimoni, perche' la verita' e' necessaria come la vita.
Obbligati a pensare e valutare i fatti, sappiamo che chi ha voluto questa
guerra, per motivi osceni, e' responsabile delle sue conseguenze. La
dittatura precedente non giustifica la dittatura della guerra, che spande
veleni.
Anche da questa storia brutta uscira' rafforzata la volonta' di pace.

2. INIZIATIVE. PER GIULIANA. UN DIGIUNO
[Riceviamo e diffondiamo il seguente appello, e invitiamo ad aderire
all'iniziativa (per ulteriori informazioni e per comunicare le adesioni:
sito: www.pergiuliana.org, e-mail: adesioni at pergiuliana.org)]

Con questo appello lanciamo l'iniziativa "Quanti giorni all'alba?", un
digiuno pubblico e comunitario che rappresenta un grido sofferto per
chiedere al governo italiano il ritiro delle truppe del nostro paese
dall'Iraq; per chiedere la liberazione di Giuliana Sgrena, Florence Aubenas,
Hussein Hanoun, delle altre persone sequestrate; per chiedere la fine dei
bombardamenti su Ramadi e l'apertura di un corridoio umanitario; per
chiedere la fine dell'utilizzo delle bombe a grappolo o cluster bombs e la
liberazione e di tutto il popolo iracheno.
Ma soprattutto con questo digiuno intendiamo chiedere con estrema decisione
la fine di una guerra spaventosa, essa stessa generatrice di terrorismo.
Si tratta di un digiuno pubblico, interreligioso e comunitario perche'
chiediamo che a viverlo siano gruppi e comunita' religiose e non. In questo
frangente e' importante metterci insieme, digiunare insieme nel rispetto
delle singole tradizioni e culture di appartenenza. Per questo chiediamo la
partecipazione al digiuno a tutte le realta', organizzate e non, che si
oppongono ad un sistema di violenza, che fa della guerra lo strumento per
mantenere l'oppressione dei popoli.
A tutti i gruppi coinvolti chiediamo che questo digiuno comunitario sia
praticato a staffetta per 24 ore, da mezzanotte a mezzanotte. Dato che le
comunita' digiunanti saranno sparse in tutta Italia, una persona, o un
gruppo, sara' ogni giorno davanti a Palazzo Chigi, la sede del governo
italiano. Ogni giorno sara' segnato dal nome delle comunita' che digiunano.
Ad ogni persona che digiuna chiediamo di mettere una fascia bianca al
braccio. E' un digiuno pubblico fatto davanti alla nazione.
La gravita' della situazione irachena e' frutto di una guerra ingiusta e
immorale. Questo senso di impotenza, che tutti sperimentiamo, ci ha portato
a lanciare questo digiuno come gesto di protesta contro la guerra in Iraq.
In tutte le religioni monoteiste il digiuno e' un aspetto importante della
pratica religiosa, nell'Islam ne e' addirittura uno dei pilastri. In tutte
le religioni, i grandi maestri della nonviolenza attiva da Abdul-Ghaffar
Khan a Martin Luther King, dal Mahatma Gandhi a Desmond Tutu, da Lanza del
Vasto a Perez Esquivel, ci hanno insegnato con il loro esempio che il
digiuno e' uno degli strumenti privilegiati della nonviolenza, per
protestare contro regimi e leggi oppressive, inique e discriminatorie.
Testimoniare il bene, la giustizia, la pace e' un imperativo etico assoluto.
La testimonianza non passa solo attraverso rituali, ma anche attraverso
azioni concrete e positive. Il digiuno e' certamente una di queste pratiche
in quanto si realizza attraverso uno sforzo personale, una privazione. Per
tutti il digiuno e' diventato uno dei metodi nonviolenti di protesta sociale
piu' apprezzato. Il digiuno non e' semplicemente un sacrificio, ma e' un
mezzo che ci permette di sentire sulla nostra pelle la sofferenza
dell'altro - il grido angosciato del popolo iracheno, di Giuliana e di tutti
gli altri - come nostra.
La sofferenza del digiuno che ci apprestiamo ad iniziare affinera' il nostro
spirito. Faremo cosi' nostro non solo il grido lancinante del popolo
iracheno e la solitudine dei rapiti, ma anche il grido di sofferenza di
tutte le vittime di questo sistema di morte, soprattutto il grande grido dei
poveri.
Allora, quanti giorni all'alba?
*
Primi firmatari: Alex Zanotelli, missionario comboniano; Alessandro Santoro,
Comunita' di base delle Piagge; Izzeddin Elzir, Imam di Firenze; Jeremy
Milgrom, rabbino, Rabbini per i Diritti Umani, Gerusalemme; Tavola Valdese;
archimandrita Julio Brunella, Chiesa Melchita; mons. Luigi Bettazzi, vescovo
emerito di Ivrea; Hamza Piccardo, segretario nazionale Unione delle
comunita' islamiche in Italia (Ucoii); Luigi Ciotti, Gruppo Abele e Libera;
Albino Bizzotto, Beati i costruttori di pace; Tonio Dell'Olio, coordinatore
Pax Christi Italia; Feras Jabarin, Imam di Colle Val d'Elsa; Moschea di
Sorgane (Fi); Comunita' islamica di Centocelle (Roma); Casa della cultura
islamica di Milano; Moschea Alsalam di Torino; Andrea Bigalli,
"Testimonianze"; Aldo Tarquini, padre domenicano parroco di San Domenico di
Fiesole; Suore Domenicane Firenze e Livorno; Armando Zappolini, Cnca; Fabio
Corazzina, Pax Christi; Dario Bossi, Comboniani; Renato Sacco, Pax Christi;
Missionarie Comboniane di Verona; Giovanni Franzoni, Comunita' di San Paolo
fuori le mura.
*
Per adesioni: sito: www.pergiuliana.org, e-mail: adesioni at pergiuliana.org

3. LUTTI. PEPPE SINI: ANGELINO
E' deceduto alcuni giorni fa Angelo La Bella. Militante comunista,
organizzatore delle occupazioni delle terre nel dopoguerra e per questo
perseguitato e imprigionato, parlamentare della repubblica, per piu' decenni
sindaco di Civitella d'Agliano, presidente a Viterbo dell'Associazione
nazionale partigiani, pubblicista brillante, persona buona, gentile,
generosa, fino alla fine dei suoi giorni impegnato per la pace e la dignita'
umana. Come capita a molte persone buone fu nel suo generoso impegno sovente
settario e talora come tutti commise degli errori di valutazione: ma sempre
per generosita', nella convinzione di difendere i diritti altrui, la
dignita' di tutti, la verita' che e' una, la causa del popolo, la causa
della giustizia, per la liberazione degli oppressi.
Gli ho voluto bene, e lui ne ha voluto a me, non solo le infinite volte in
cui fummo compagni di lotta, ma anche quando ci contrappose dieci anni fa un
durissimo contrasto, poiche' io pensavo (ed ottenni, con una faticosa, aspra
e lacerante lotta) che se un assessore del suo partito agiva male andasse
senza esitazioni allontanato dalla gestione della cosa pubblica, e lui
riteneva impossibile che un assessore del suo partito avesse mal agito
(quanti vecchi militanti comunisti ho conosciuto che sempre questa
presunzione mantennero, che il partito per definizione non sbagliasse mai, e
per questo chiusero sovente gli occhi talora persino dinanzi a palesi
nequizie e sordidezze e infamie quando commesse dal e per il partito).
L'ultima volta che ci incontrammo ci salutammo abbracciandoci ancora,
commossi; mi parve di vedere nei suoi occhi delle lacrime, e forse lui ne
vide nei miei.
Ci lascia una persona buona e degna, dall'animo grande, ferma la voce e
salda la postura, possano nascerne cento altre a prendere il suo posto nella
lotta che e' ancora da condurre per un'umanita' di libere e liberi, di
diverse e diversi ed eguali, per l'affermazione di tutti i diritti umani per
tutti gli esseri umani.
A Rosa e agli altri familiari forte un abbraccio.

4. FORMAZIONE. MARIA G. DI RIENZO: PAURA, DISISTIMA, INSICUREZZA. CHE FARE?
[Ringraziamo Maria G. Di Rienzo (per contatti: sheela59 at libero.it) per
questo intervento. Maria G. Di Rienzo e' una delle principali collaboratrici
di questo foglio; prestigiosa intellettuale femminista, saggista,
giornalista, regista teatrale e commediografa, formatrice, ha svolto
rilevanti ricerche storiche sulle donne italiane per conto del Dipartimento
di Storia Economica dell'Universita' di Sidney (Australia); e' impegnata nel
movimento delle donne, nella Rete di Lilliput, in esperienze di solidarieta'
e in difesa dei diritti umani, per la pace e la nonviolenza; e' coautrice
dell'importante libro: Monica Lanfranco, Maria G. Di Rienzo (a cura di),
Donne disarmanti, Edizioni Intra Moenia, Napoli 2003]

Scelta nonviolenta, va bene, l'abbiamo fatta nel nostro gruppo e stiamo
imparando a maneggiarla. Abbiamo progettato un'azione, che comporta il
volantinaggio porta a porta e/o la nostra presenza in qualche luogo con dei
banchetti informativi. Siamo arrivati/e al dunque, ma non riusciamo piu' a
trovarci, gli orari improvvisamente non coincidono, ci sono defezioni
inaspettate... E allora, cosa stiamo aspettando?
Stiamo aspettando che queste tre ansieta' trovino risposta:
1) non riesco a parlare ad estranei;
2) non so abbastanza sulla questione, non ho autorevolezza;
3) Il quartiere dove vuoi mandarmi, bieca Di Rienzo, e' pieno di gente di
destra che mi rovescera' il banchetto a calci, oppure mi picchiera' se busso
a qualche porta.
Paura, disistima, insicurezza: si da' loro il benvenuto come a qualsiasi
altra emozione, le si interroga, e poi le si trasforma.
*
La paura
La questione numero uno riguarda la paura: d'accordo, anch'io faccio fatica
a parlare con gente che non conosco, non sono il tipo del piazzista e
probabilmente neanche tu.
Ma che entrambi non ci riusciamo mai non e' vero. Bussare alla prima porta,
o tendere il primo volantino, puo' essere terrificante per molti, ma nessuno
e' incapace di apprendere come farlo. Se qualche volta hai interrotto uno
sconosciuto mentre stavate pranzando nella stessa tavola calda, se ad una
festa sei riuscita/o a presentarti a dodici nuove persone di fila, se in
famiglia hai intavolato una caldissima discussione politica con i parenti di
ritorno dall'Australia (che vedi una volta ogni dieci anni), bene, hai le
conoscenze di base che ti servono. Comunque, nessuno ha detto che devi agire
da solo/a.
Opera con qualcuno che abbia gia' fatto quell'esperienza, e lascialo/a
parlare finche' non brucerai dal desiderio di sottolineare quel punto che
lui/lei continua a dimenticarsi. Alla prossima porta, o al prossimo
visitatore del banchetto, di' quello che avresti voluto dire prima.
*
La disistima
La questione numero due riguarda la disistima: poiche' hai preparato questo
progetto con il tuo gruppo, devi sapere abbastanza della questione che state
affrontando, e poiche' ti sei presa/o la briga di far parte del gruppo, devi
anche essere abbastanza motivata/o da volere che altre persone lo diventino.
Cosa ti impedisce di discuterne efficacemente con un estraneo? Cio' che ti
muove, cio' che ti commuove, cio' che ti appassiona: e' di questo che devi
parlare rispetto all'istanza.
Se la campagna richiede messaggi "personalizzati", il gruppo ne creera' per
quanti sono gli attivisti coinvolti. Le persone con cui lavori, e le persone
estranee con cui parli della faccenda, sono tutte differenti "esperti" delle
varie sfaccettature che essa presenta.
"Ma la gente poi mi farà domande a cui io non sapro' rispondere!". E' vero.
Probabilmente qualcun altro del gruppo e' pero' in grado di farlo. O puo'
trattarsi di domande che esulano del tutto dalla questione (e persino di
deliri verbali). Ad ogni modo, tratta le domande come risorse, segnandoti
quelle piu' frequenti su un taccuino e discutendone poi in gruppo: la
prossima volta che uscirai a fare questo lavoro, saprai gia' cosa
aspettarti, e avrai molte piu' risposte da dare alle domande "impossibili".
E ricorda di spendere nelle risposte la tua piu' ricca risorsa, l'argomento
su cui nessuno ne sa piu' di te: la ragione per cui tu, proprio tu, sei
coinvolto/a in quella campagna.
*
L'insicurezza
La questione numero tre riguarda l'insicurezza: mi attengo fermamente alla
verita': in oltre trent'anni di attivismo a me e' capitato di essere gettata
a terra e calpestata (una volta), prelevata da casa da poliziotti senza
mandato e condotta di forza in questura (una volta), convocata in questura
(un paio di volte), spintonata (una dozzina di volte), insultata (piu'
spesso), fermata per strada dalle forze dell'ordine con la scusa
dell'identificazione e minacciata (assai piu' spesso, ma soprattutto nel
circoscritto periodo detto "anni di piombo"), aggredita per strada e/o
minacciata da sedicenti rivoluzionari/disobbedienti (tre volte). Ripeto:
cio' si e' dato nell'arco di oltre trent'anni.
E mai, dando un volantino o presenziando ad un banchetto, ho ricevuto
qualcosa di piu' di un esibito fastidio, di una porta chiusa sul naso, o di
un urlaccio volante. Se consideri la casistica riferendola a te stesso/a, ne
risultera' molto probabilmente che hai subito aggressioni ed insulti un
maggior numero di volte in situazioni che con l'attivismo non avevano nulla
a che fare.
Molte persone hanno paura di salire in aereo, perche' temono incidenti;
spesso le stesse persone non hanno alcun problema a guidare un'automobile,
ma gli incidenti automobilistici hanno una frequenza assai maggiore di
quelli aerei. Quindi, fermo restando che vi sono alcune precauzioni da
prendere, ed ora le vedremo, e' importante non lasciarsi ossessionare
dall'idea che l'attivismo sia "pericoloso" in se', e piu' pericoloso in
assoluto di altre scelte.
*
Precauzioni
1) Assieme al tuo gruppo, organizza periodicamente incontri e seminari
sull'azione diretta nonviolenta, e apprendi i metodi per rispondere
efficacemente alla violenza.
2) Volantinaggio e banchetti sono lavori da fare, al minimo, in coppia. Se
ritieni, con cognizione di causa, che il luogo dove intendete fare
informazione sia potenzialmente pericoloso, ma volete andarci comunque,
cercate di essere piu' di due e che un membro del gruppo si porti dietro una
macchina fotografica o una videocamera: i due aggeggi fungono da deterrente,
perche' difficilmente un aggressore e' contento di essere ripreso mentre si
lascia travolgere dalla rabbia, viola la legge, eccetera. Se sei in
difficolta', ricorda che ti trovi in un luogo pubblico, frequentato da altre
persone che possono aiutarti, percio' attira la loro attenzione non appena
fiuti dei guai.
3) Tieni presente che il modo in cui entri in relazione con le persone e
l'ambiente in cui ti trovi a gestire il banchetto informativo o a
distribuire volantini puo' rendere l'eventuale responso violento assai
improbabile. Tenta di costruire un'atmosfera che trasmetta sicurezza,
inclusione, anche leggerezza: usa l'umorismo, la musica, e non aver paura di
sorridere. Non piombare nel luogo come un estraneo o un'estranea, cerca di
conoscerlo ed informarti prima. Se si tratta del tuo quartiere, o di una
zona che ti e' nota, tanto meglio: sara' facile entrare in sintonia con te,
mentre dirai: "Sono madre di due bambini che frequentano qui la scuola...",
"Come abitante di questa zona da dieci anni...", "Poiche' ho vissuto qui da
piccolo...". Inoltre, una persona palesemente ostile puo' mutare
atteggiamento se solo gli parli con calma, ti mostri disposta/o ad ascoltare
le sue preoccupazioni, e non agisci violentemente in risposta (e' cio' che
l'aggressore si aspetta, percio' sii creativo/a e spiazzalo con la tua
gentilezza).
*
Toc toc, buongiorno
Se stai bussando alle porte delle abitazioni per consegnare il volantino,
invitare le persone ad una riunione e/o fare domande, il principale problema
che ti troverai a dover maneggiare sara' la diffidenza. Alcune persone, dopo
averti dato un'occhiata attraverso lo spioncino ed averti identificato come
sconosciuto/a non risponderanno ne' apriranno. E' controproducente
insistere: scusati per il disturbo, e lascia il materiale sullo zerbino o
nella cassetta della posta. Puoi eventualmente riprovare qualche giorno
dopo: "Si ricorda di me? Sono Federica Rossi del gruppo X. Le ho lasciato un
volantino su... Abbiamo avuto una prima riunione al proposito la settimana
scorsa: qualcuno dei suoi vicini di casa e' venuto alla riunione. Per caso
gliene ha parlato?".
Quando invece la persona ti apre, sfodera il migliore dei tuoi sorrisi,
spiega chi sei e perche' ti trovi li'. La conversazione e' iniziata, e
perche' vada a buon fine:
1) E' bene fare frequenti pause, per dare il modo alla gente di risponderti.
Se devono ascoltare un comizio, per di piu' non richiesto, troveranno in
fretta qualcos'altro da fare.
2) Poni domande a cui possano facilmente rispondere in modo affermativo:
"Lei pensa che nel nostro quartiere si potrebbe vivere meglio?", "Lei crede
che i cittadini dovrebbero potersi esprimere su...?". Diventerai
immediatamente piu' simpatico/a, se si puo' conversare con te partendo da
una base di accordo.
3) Mantieni il contatto con lo sguardo, e' il modo piu' efficace di
trattenere l'attenzione altrui e di stabilire una connessione umana con una
persona che non conosci. Il rapporto che stabilisci con costei o costui puo'
essere addirittura piu' importante di quello che dici. Un individuo puo'
trovare difficile mettere in questione le proprie opinioni con te alla sua
porta, ma piu' tardi, riflettendo sull'incontro, si ricordera' di quel
gentile giovane attivista, di quella gentile signora con i volantini, e le
cose potranno cominciare a sembrargli differenti.
4) Ascolta ciò che ti viene detto con estrema attenzione: annuisci,
interagisci con "certo, capisco, mmm-mmm". Quando si arriva ad un punto
"caldo", e magari tu sei completamente in disaccordo con esso, rispondi:
"Ecco, questo e' un argomento interessante. In effetti molte persone, come
lei, sono convinte di... hanno letto sui giornali che... hanno sentito in
tv... pero' c'e' un altro lato della questione, ed e'...".
5) Sottolinea, ove possibile, le connessioni personali fra te e chi ti sta
parlando. Se il discorso del tuo interlocutore si e' aperto con: "Come padre
di tre figli, io penso che...", la tua risposta si aprira' con: "Come
genitore, comprendo le sue preoccupazioni...", oppure "I miei genitori
condividerebbero le sue preoccupazioni...", o ancora: "Anch'io penso che i
bambini...".
6) Nel caso la persona si mostri molto interessata e condivida l'azione che
le stai proponendo, non dimenticare lo scambio di recapiti. E' probabile che
tu abbia conquistato una nuova attivista o un nuovo attivista. E dire che
all'inizio non riuscivi neppure ad offrire un volantino, eh?

5. MATERIALI. MAO VALPIANA: DICHIARAZIONE IN AULA A NOME DI TUTTI GLI
IMPUTATI PER IL BLOCCO NONVIOLENTO DEL TRENO DELLA MORTE
[Riportiamo di seguito il documento letto da Mao Valpiana, a nome di tutti
gli imputati, nell'aula del Tribunale di Verona il 27 gennaio 1997 al
processo di primo grado per il blocco nonviolento del "treno della morte"
che recava armi per la guerra del Golfo nel 1991, processo che si concluse
con la piena assoluzione degli amici della nonviolenza. Un'ampia
documentazione sull'azione nonviolenta del 1991 e sul processo di primo
grado del 1997 e' pubblicata sul numero di gennaio-febbraio 1997 di "Azione
nonviolenta" (in rete disponibile nel sito www.nonviolenti.org); sul
processo d'appello svoltosi a Venezia il 24 febbraio 2005, e conclusosi con
la definitiva conferma dell'assoluzione degli amici della nonviolenza, una
documentazione essenziale abbiamo pubblicato nei giorni scorsi su questo
foglio ed e' naturalmente disponibile anche nel sito del Movimento
Nonviolento (www.nonviolenti.org). Mao (Massimo) Valpiana (per contatti:
mao at sis.it) e' una delle figure piu' belle della nonviolenza in Italia; e'
nato nel 1955 a Verona dove vive ed opera come assistente sociale e
giornalista; fin da giovanissimo si e' impegnato nel Movimento Nonviolento
(si e' diplomato con una tesi su "La nonviolenza come metodo innovativo di
intervento nel sociale"), e' membro del comitato di coordinamento nazionale
del Movimento Nonviolento, responsabile della Casa della nonviolenza di
Verona e direttore della rivista mensile "Azione Nonviolenta", fondata nel
1964 da Aldo Capitini. Obiettore di coscienza al servizio e alle spese
militari ha partecipato tra l'altro nel 1972 alla campagna per il
riconoscimento dell'obiezione di coscienza e alla fondazione della Lega
obiettori di coscienza (Loc), di cui e' stato segretario nazionale; durante
la prima guerra del Golfo ha partecipato ad un'azione diretta nonviolenta
per fermare un treno carico di armi (processato per "blocco ferroviario", e'
stato assolto); e' inoltre membro del consiglio direttivo della Fondazione
Alexander Langer, ha fatto parte del Consiglio della War Resisters
International e del Beoc (Ufficio Europeo dell'Obiezione di Coscienza); e'
stato anche tra i promotori del "Verona Forum" (comitato di sostegno alle
forze ed iniziative di pace nei Balcani) e della marcia per la pace da
Trieste a Belgrado nel 1991; un suo profilo autobiografico, scritto con
grande gentilezza e generosita' su nostra richiesta, e' nel n. 435 del 4
dicembre 2002 di questo notiziario]

Sembrano passati molti decenni da quando ci ritrovammo in migliaia sulle
gradinate dell'Arena per manifestare il nostro no alla guerra del Golfo, lo
stesso no che allora rimbombava in molte piazze d'Italia, d'Europa e degli
Stati Uniti... e invece sono passati appena sei anni.
E' incredibile, oggi la storia dura fino a quando te la racconta la
televisione poi sparisce uno scenario e se ne apre un altro: i nostri
interessi e la nostra memoria hanno dei limiti, ma non dovrebbero essere
quelli dettati dalla tv. E' una realta' parziale, ritagliata,
spettacolarizzata, quella che conosciamo, oggi la si definirebbe virtuale,
ed e' comunque con questa realta' che dobbiamo fare i conti perche' e' da
questa realta' che muove il nostro agire, il nostro vivere.
Non c'e' dubbio che, se il processo nel quale siamo accusati del blocco del
treno che trasportava i carri armati per la "Tempesta nel deserto", fosse
stato sei anni fa, avremmo beneficiato di tutt'altro clima, di elevato
interesse e di ben altra partecipazione. Articoli sui giornali, dibattiti
pubblici, servizi alla tv, manifesti, volantini, interventi degli
intellettuali, aula del tribunale gremita, manifestazioni di solidarieta' in
piazza... ma anche tutto cio' sarebbe parte, oggi, dello spettacolo e di
quella realta' virtuale alla quale bastano sei anni (ma anche molti meno)
per essere completamente dimenticata, rimossa.
Quelli che sicuramente restano, sono i problemi irrisolti che un folle agire
militare, su entrambi i fronti, non ha saputo minimamente affrontare e,
naturalmente, i morti, migliaia, decine di migliaia? Chi lo sa? La Cnn non
si e' presa la briga di contarli e sicuramente neanche i giudici che
dovranno emettere una sentenza sul nostro operato ne saranno a conoscenza.
Puo' sembrare impossibile, ma mentre oggi noi possiamo sapere quante perdite
vi furono durante la battaglia delle Termopili o quanti bersaglieri caddero
con il generale La Marmora in Crimea, nessuno sa dirci quante vite umane e'
costata quella che, con falso pudore, fu definita una "operazione di polizia
internazionale". Forse ce lo dira', tra qualche secolo, una brillante
spedizione archeologica.
Il clima di smemoratezza e disinteresse che ci accompagna in sostanziale
solitudine a questo processo, evidenzia un vuoto che oggi c'e' a livello
politico. In questo silenzio che avvertiamo possiamo cogliere
l'essenzialita' scarna della nonviolenza: la tensione interna che suscita
nella nostra persona e' assolutamente reale, anche se, ai piu', sembra non
"realista", o forse idiota.
Sei anni fa, il processo che andiamo ad affrontare, sarebbe stato un
processo realmente politico; oggi la politica italiana ed internazionale
guardano da un'altra parte, non hanno interesse a verificare i risultati di
un'azione pur sempre politica, come e' stata la guerra nel Golfo.
Quali sono stati i costi? Quali i benefici? Gli obiettivi prefissati sono
stati raggiunti? Il diritto internazionale ne e' uscito rafforzato?
L'Organizzazione delle Nazioni Unite ha retto l'emergenza? Il Kuwait, oggi,
e' un paese libero? La nostra Costituzione e' stata violata? La nostra
azione di resistenza attiva alla guerra, isolata e di pochi, era realmente
sconsiderata? Diciamolo francamente, non gliene frega piu' niente a nessuno.
Ed anche i giudici potrebbero tapparsi le orecchie per "attenersi
strettamente ai fatti contestati".
*
Se questo e' lo sconsolante quadro della situazione attuale, perche'
vogliamo farlo a tutti i costi questo processo? Perche', per esempio, non
scegliamo la scorciatoia del patteggiamento?
L'azione nonviolenta contro il convoglio militare carico di armi, di
passaggio dalla stazione ferroviaria di Balconi di Pescantina, non puo'
essere liquidata come un'azione estemporanea, attuata sulla spinta di una
emotivita' pacifista che si e' coagulata per caso a Verona; non e' stata
un'impulsiva ragazzata di un gruppo di giovani pur animati da sani principi.
Sono piu' di vent'anni che a Verona e' attiva una sede del Movimento
Nonviolento, con tutti i limiti che si possono facilmente immaginare,
strutturali, economici, ma anche personali, legati ai singoli individui che
in questi anni vi hanno partecipato.
L'attivita' del Movimento Nonviolento ha reso possibile la diffusione di una
concezione della pace non semplificata e semplificante, non piu' centrata
sulla difesa e salvaguardia di un solo valore, per esempio la liberta' (e
quindi guerra per la liberta'), oppure la sola giustizia (e quindi guerra
per la giustizia), ma sull'interdipendenza complicata di un insieme di
valori spesso conflittuali fra loro, come il diritto alla vita, alla
liberta', alla giustizia, l'equilibrio ecologico, il benessere, etc.
Una concezione della pace che non vuole nascondere o negare il conflitto,
risolvendolo con la semplice legge del piu' forte, ma che pone l'accento
sulla positivita' del conflitto e che riserva molta attenzione alle
modalita' con le quali si intende risolverlo, preservando come indissolubile
il legame tra mezzi e fini. Gandhi diceva che gia' nei mezzi sono contenuti
i fini e che da mezzi ingiusti, seppur impiegati per nobili ideali, si
ottengono risultati non desiderabili. I mezzi ingiusti, e tra questi sono
anche la violenza e la guerra, snaturano i fini e li stravolgono.
Una concezione della pace, questa, che se vede come interdipendenti i
valori, a maggior ragione vede cosi' oggi anche i disvalori. Le ingiustizie
e i disequilibri planetari rimandano a corresponsabilita' planetarie. In
altre parole, come cittadini italiani, noi ci sentiamo corresponsabili sia
per quanto concerne le ragioni che hanno innescato il conflitto, sia per
quanto riguarda le modalita' con le quali si e' voluto cercare di
risolverlo. Chi semina vento raccoglie tempesta. Non sono forse di marca
italiana gli elicotteri usati da Saddam? o le mine antiuomo ed anticarro e
chissa' quante altre diavolerie belliche? Non era forse nostro interesse
continuare a comprare petrolio a prezzo stracciato, mentre Saddam in seno
all'Opec chiedeva insistentemente di limitarne la produzione e di innalzarne
il prezzo al barile? Non facciamo parte anche noi di quella Alleanza
Atlantica che direttamente ha partecipato alla crisi mediorientale,
finanziandola, sostenendola e tramando in svariati modi a seconda dei suoi
mutanti interessi?
E' proprio in questo sentirsi corresponsabili e non estranei, che matura la
necessita' di opposizione a una politica che prepara inevitabilmente la
guerra, che la prevede e si esercita ad essa. Questa politica ancora oggi
mal sopporta la semplice obiezione di coscienza individuale di chi rifiuta
il servizio di leva, e' naturale che non possa che incriminare coloro che la
intralciano concretamente, anche se le loro azioni hanno effetti
insignificanti nella pratica.
Quando partercipammo a quella manifestazione nonviolenta eravamo
perfettamente consci di non essere in grado di fermare, se non
simbolicamente, l'escalation della guerra; eravamo gia' politicamente
sconfitti, ma per fortuna il ragionamento ed il calcolo politico non
esauriscono i pensieri, i sentimenti e le azioni umane. La nostra e' stata
un'azione che e' andata piu' in la' della politica, nella speranza di
poterla un giorno contaminare.
Di fronte ai grandi fallimenti e alle insufficienze della politica nazionale
ed internazionale non si sente il bisogno interiore di attingere ad altra
fonte?
*
Scriveva Gandhi, che era anche un avvocato: "Nessuno, probabilmente, ha
redatto piu' petizioni o difeso piu' cause perse di me, e posso dirvi che
quando volete ottenere qualcosa di veramente importante, non dovete solo
soddisfare la ragione, ma toccare i cuori. L'appello della ragione e'
rivolto al cervello, ma il cuore si raggiunge solo attraverso la sofferenza.
Essa dischiude la comprensione interiore dell'uomo. La sofferenza, e non la
spada, e' il simbolo della razza umana".
I nostri avvocati hanno il compito di spiegare tutte queste cose ai giudici,
perche' si possa aprire un varco nella giurisprudenza, non tanto per
trattare lo sconto della pena o patteggiare una soluzione. Quel che ci
interessa e' una sentenza che sappia recepire valori che non potranno
risultare sempre perdenti e sconfitti dalla dura realta' politica.
Una sentenza chiara, scritta perche' la possano leggere e capire anche i
nostri figli, che sei anni fa non erano ancora nati e oggi si preparano alle
elementari.

6. SOLIDARIETA'. GIULIO VITTORANGELI: QUANDO LAVORARE SIGNIFICA AVVELENARSI
[Ringraziamo Giulio Vittorangeli (per contatti: g.vittorangeli at wooow.it) per
questo intervento. Giulio Vittorangeli e' uno dei fondamentali collaboratori
di questo notiziario; nato a Tuscania (Vt) il 18 dicembre 1953, impegnato da
sempre nei movimenti della sinistra di base e alternativa, ecopacifisti e di
solidarieta' internazionale, con una lucidita' di pensiero e un rigore di
condotta impareggiabili; e' il responsabile dell'Associazione
Italia-Nicaragua di Viterbo, ha promosso numerosi convegni ed occasioni di
studio e confronto, ed e' impegnato in rilevanti progetti di solidarieta'
concreta; ha costantemente svolto anche un'alacre attivita' di costruzione
di occasioni di incontro, coordinamento, riflessione e lavoro comune tra
soggetti diversi impegnati per la pace, la solidarieta', i diritti umani. Ha
svolto altresi' un'intensa attivita' pubblicistica di documentazione e
riflessione, dispersa in riviste ed atti di convegni; suoi rilevanti
interventi sono negli atti di diversi convegni; tra i convegni da lui
promossi ed introdotti di cui sono stati pubblicati gli atti segnaliamo, tra
altri di non minor rilevanza: Silvia, Gabriella e le altre, Viterbo, ottobre
1995; Innamorati della liberta', liberi di innamorarsi. Ernesto Che Guevara,
la storia e la memoria, Viterbo, gennaio 1996; Oscar Romero e il suo popolo,
Viterbo, marzo 1996; Il Centroamerica desaparecido, Celleno, luglio 1996;
Primo Levi, testimone della dignita' umana, Bolsena, maggio 1998; La
solidarieta' nell'era della globalizzazione, Celleno, luglio 1998; I
movimenti ecopacifisti e della solidarieta' da soggetto culturale a soggetto
politico, Viterbo, ottobre 1998; Rosa Luxemburg, una donna straordinaria,
una grande personalita' politica, Viterbo, maggio 1999; Nicaragua: tra
neoliberismo e catastrofi naturali, Celleno, luglio 1999; La sfida della
solidarieta' internazionale nell'epoca della globalizzazione, Celleno,
luglio 2000; Ripensiamo la solidarieta' internazionale, Celleno, luglio
2001; America Latina: il continente insubordinato, Viterbo, marzo 2003. Per
anni ha curato una rubrica di politica internazionale e sui temi della
solidarieta' sul settimanale viterbese "Sotto Voce" (periodico che ha
cessato le pubblicazioni nel 1997). Cura il notiziario "Quelli che
solidarieta'"]

Sono partiti verso le 4 di mattina di domenica 20 febbraio in circa mille
persone e il numero aumentera' con il passare dei giorni. A Managua e'
previsto l'arrivo di almeno diecimila persone.
La strada che conduce a Chinandega e', per gli ultimi 70 chilometri, una
lunga striscia di asfalto che attraversa la secca spianata dell'occidente
nicaraguense. Terra un tempo ricoperta di boschi ed oggi trasformatasi in
una landa semideserta e ingiallita dalla stagione estiva. Negli anni, i
boschi hanno lasciato spazio alle coltivazioni del cotone e poi alle banane
e ai terreni predisposti per coltivazioni di sesamo e, soprattutto, per
l'allevamento.
Su questa strada, soffocante per il caldo e dove l'asfalto brucia sotto i
piedi, marciano per la quarta volta i bananeros (ex lavoratori delle
piantagioni di banane) ammalati a causa del pesticida Nemagon (il Dbcp,
secondo l'acronimo derivato dalla sua formula chimica), prodotto ed
applicato senza nessuna misura di sicurezza dalle multinazionali
nordamericane del banano.
Una serie di queste multinazionali hanno prodotto e impiegato, in
coltivazioni sparse in vari paesi, questo pesticida particolarmente dannoso
per la salute e l'ambiente. Quando i lavoratori statunitensi, negli anni
'70, se ne accorsero sulla loro pelle, gli Stati Uniti bloccarono la
produzione; ma le scorte accumulate nei magazzini furono dirette nel
cosiddetto Terzo Mondo. Cosi' i lavoratori latinoamericani, asiatici e
africani continuarono ad usarlo per anni ancora, senza protezione giacche'
"era loro di impaccio" e frenava il ritmo produttivo.
Il risultato, di questa esposizione prolungata e priva di protezione a quel
veleno, e' stato quello di innumerevoli morti, di uomini diventati sterili,
di donne che hanno avuto figli deformi, di ammalati che contano le ore che
li separano dalla fine delle loro sofferenze.
Le multinazionali sono ora accusate (grazie alle legge 364 del Nicaragua) di
questo crimine, ma si rifiutano ancora di accettare la richiesta di
indennizzo che migliaia di ex lavoratori e lavoratrici del banano stanno
chiedendo per potersi curare e lasciare in eredita' dopo la loro morte.
Risulta quindi ancora piu' beffardo il premio "Ethic Award" concesso alla
Chiquita dalla rivista "Gdoweek" e dalla societa' Kmpg "per il forte impegno
adoperato a livello mondiale per superare il passato attraverso diverse
modifiche strutturali".
Intanto e' accaduto quanto era stato promesso l'anno scorso: "Se non
verranno rispettati gli accordi che oggi abbiamo firmato (Acuerdo del
Raizon - 20 marzo 2004), ci rivedrete qui molto presto, ma questa volta
sara' con diecimila persone e non ce ne andremo fino a che non vedremo
rispettate le promesse (...) Nella riunione di tutti i leader del movimento
dei bananeros abbiamo deciso che questa sara' una marcia senza ritorno. Non
torniamo indietro fino a che non verra' approvato tutto quello che stiamo
chiedendo. Se non facciamo cosi' sappiamo gia' che ogni anno dovremo
marciare su Managua e molta gente non se lo puo' permettere per le
condizioni in cui versa. E' una lotta finale e siamo disposti a tutto", ha
concluso Victorino Espinales, presidente della Asotraexdan (Associazione dei
bananeros). Del resto, dall'ultima marcia del febbraio 2004 sono morte altre
110 persone.
*
Siano davanti ad una lotta sociale, non solo di resistenza, ma anche e
soprattutto di proposte concrete; come la proposta di modifica del bilancio
generale della Repubblica per inserire i 227 milioni di cordobas (circa 14
milioni di dollari) per le spese mediche e il progetto di legge per creare
una pensione vitalizia per tutti gli ammalati accertati.
Una lotta contro lo strapotere delle multinazionali, un governo insensibile
che si e' rimangiato costantemente le promesse fatte e che non ha voluto
inserire nel bilancio della Repubblica gli aiuti economici per le spese
sanitarie di cui i bananeros hanno disperatamente bisogno.
Una lotta, in Nicaragua come in altri paesi, che e' una questione di
giustizia, di dignita' sul lavoro, di rispetto ambientale, di civilta'. In
questo senso, interroga il Nord del mondo e quindi anche noi, consumatori di
banane, che ne facciamo parte. Per questo e' importante che le informazioni
sulla loro marcia e sulla loro lotta escano dai confini del Nicaragua e
giungano dall'altra parte dell'oceano, per far crescere una solidarieta'
concreta.
Cosi' l'Associazione Italia-Nicaragua ha iniziato una serie di azioni per
sostenere ancora una volta la lotta dei bananeros (tutte le informazioni sul
sito www.itanica.org); inoltre da lunedi' 28 febbraio e' possibile
(collegandosi al sito dell'Associazione Italia-Nicaragua) inviare un
messaggio di appoggio alla lotta dei bananeros al Presidente della
Repubblica, ai deputati, ai partiti e alle Commissioni parlamentari
direttamente interessate dalle richieste dei bananeros.

7. RIFLESSIONE. ILEANA MONTINI: LEILA E NOI
[Ringraziamo Ileana Montini (per contatti: ileana.montini at tin.it) per questo
intervento. Ileana Montini, prestigiosa intellettuale femminista, gia'
insegnante, e' psicologa e psicoterapeuta. Nata nel 1940 a Pola da genitori
romagnoli, studi a Ravenna e all'Universita' di Urbino, presso la prima
scuola di giornalismo in Italia e poi sociologia; giornalista per
"L'Avvenire d'Italia" diretto da Raniero La Valle; di forte impegno
politico, morale, intellettuale; ha collaborato a, e fatto parte di, varie
redazioni di periodici: della rivista di ricerca e studio del Movimento
Femminile DC, insieme a Tina Anselmi, a Lidia Menapace, a Rosa Russo
Jervolino, a Paola Gaiotti; di "Per la lotta" del Circolo "Jacques Maritain"
di Rimini; della "Nuova Ecologia"; della redazione della rivista "Jesus
Charitas" della "famiglia dei piccoli fratelli e delle piccole sorelle"
insieme a fratel Carlo Carretto; del quotidiano "Il manifesto"; ha
collaborato anche, tra l'altro, con la rivista "Testimonianze" diretta da
padre Ernesto Balducci, a riviste femministe come "Reti", "Lapis", e alla
rivista di pedagogia "Ecole"; attualmente collabora al "Paese delle donne".
Ha partecipato al dissenso cattolico nelle Comunita' di Base; e preso parte
ad alcune delle piu' nitide esperienze di impegno non solo genericamente
politico ma gramscianamente intellettuale e morale della sinistra critica in
Italia. Il suo primo libro e' stato La bambola rotta. Famiglia, chiesa,
scuola nella formazione delle identita' maschile e femminile (Bertani,
Verona 1975), cui ha fatto seguito Parlare con Dacia Maraini (Bertani,
Verona). Nel 1978 e' uscito, presso Ottaviano, Comunione e liberazione nella
cultura della disperazione. Nel 1992, edito dal Cite lombardo, e' uscito un
libro che racconta un'esperienza per la prevenzione dei drop-out di cui ha
redatto il progetto e  curato la supervisione delle operatrici: titolo: "...
ho qualche cosa anch'io di bello: affezionatrice di ogni cosa". Recentemente
ha scritto la prefazione del libro di Nicoletta Crocella, Attraverso il
silenzio (Stelle cadenti, Bassano (Vt) 2002) che racconta l'esperienza del
Laboratorio psicopedagogico delle differenze di Brescia, luogo di formazione
psicopedagogica delle insegnanti e delle donne che operano nelle relazioni
d'aiuto, laboratorio nato a Brescia da un progetto di Ileana Montini e con
alcune donne alla fine degli anni ottanta, preceduto dalla fondazione,
insieme ad altre donne, della "Universita' delle donne Simone de Beauvoir".
Ha recentemente pubblicato, con altri coautori, Il desiderio e l'identita'
maschile e femminile. Un percorso di ricerca, Franco Angeli, Milano 2004. Su
Ileana Montini, la sua opera, la sua pratica, la sua riflessione, hanno
scritto pagine intense e illuminanti, anche di calda amicizia, Lidia
Menapace e Rossana Rossanda]

Leila e' il suo nome fittizio e con quello ha firmato un libro
autobiografico appena tradotto dall'editrice Piemme (Leila, Murata viva,
Piemme, Casale Monferrato 2005).
Leila e' una marocchina-francese, o una francese-marocchina. Fa lo stesso.
E' molto giovane e la sua storia e' di questi ultimi anni e corrisponde a
pennello con altre del tutto, o quasi, uguali per intensita' e tragicita'.
Sua madre e' araba e suo padre e' berbero: sono immigrati in Francia da
trent'anni dove hanno visto nascere i loro figli e figlie. Appunto, Leila in
Francia ci e' cresciuta e ha studiato, mentre il Marocco lo conosce per via
delle vacanze presso i parenti. Ma, divenuta abbastanza adulta, a lei, come
a tante altre, viene imposto un giorno il matrimonio combinato con uno
sconosciuto ultratrentenne marocchino che cosi' potra' acquisire la
cittadinanza francese. Le autorita' francesi conoscono il fenomeno ma non
possono farci niente.
Leila si trova da sola a dover affrontare il suo destino di donna in una
famiglia che ancora si sente vincolata, per un bisogno profondo di
appartenenza, alle tradizioni tribali e patriarcali. Leila vuole vivere come
le ragazze francesi e allora fuma, si veste come loro e vuole essere libera.
Ma la madre e il padre la picchiano, le fanno capire che rischia di perdere
la verginita' che e' il bene supremo per accedere al matrimonio
marocchino-musulmano ed essere considerata una donna per bene che fa onore
alla famiglia. I suoi fratelli invece sono piu' liberi  e sanno di
condividere con il padre la proprieta' di lei e di sua madre. Anzi, ne
abusano sessualmente, facendo molta attenzione a non rovinare la verginita'.
Leila impara a dire bugie e a evitare i ragazzi "come la peste", ma sopporta
male il dover fare la serva degli uomini: "mi sembrava normale che i miei
fratelli dovessero, come me, apparecchiare e sparecchiare la tavola, mettere
a posto le loro cose, dare una mano alla famiglia invece di oziare,
criticandomi se non obbedivo ai loro ordini... E tuttavia, nonostante la mia
ribellione, il mio rifiuto di obbedire alle leggi degli uomini, ero
costretta ad accettarle, o ad aggirarle, come una criminale. Non ero la
sola".
La vita delle famiglie magrebine nella Francia moderna e' un microcosmo a
parte che Leila descrive sinteticamente cosi': "I padri, i fratelli, i
mariti non fanno altro che frugare nel cervello delle donne, nelle loro
cose, nella cartella, nelle tasche, alla ricerca di oggetti proibiti. Un
pacchetto di sigarette? Mia figlia e' una puttana. Un portacipria, un
rimmel, un rossetto, uno slip rosso? Mia figlia e' una puttana. Il biglietto
di un amico? Mia figlia e' una puttana. Un tampone igienico? Subito dal
medico per il solito controllo. Il marito scopre una scatola di pillole?
Subito il  ripudio. I nostri nemici, i nostri carcerieri, oltre ai genitori,
sono i fratelli, i cugini, gli zii, le suocere... Non siamo neppure trattati
come oggetti. Un oggetto si rispetta, una donna no. Ecco la ragione della
mia rabbia, della mia ribellione. Siamo in migliaia a tacere e a subire,
perche' i parenti sanno che una ragazza non puo' vivere al di fuori della
famiglia e della comunita'".
Nonostante il Marocco si sia un po' evoluto, le tradizioni sono, come
sempre, la colla di base per dare e riconfermare l'identita' collettiva. E
cosi' arriva il matrimonio, prima in Marocco, secondo il rito antico in
lingua araba: "la  figlia del tal dei tali si dichiara nubile, vergine, e
diviene cosi' la proprieta' del figlio di un talaltro, mediante una dote
di...". E se la donna non e' piu' vergine perche' e' stata sposata, deve
essere annotato sui registri: "Donna non vergine".
Il libro racconta il dramma di questa giovane che deve subire un matrimonio
non d'amore, anche a causa della suocera. La nuora deve obbedienza ai
suoceri in assenza del marito, ovvero quando e' in casa. Deve alzarsi prima
della suocera e prepararle la colazione e se necessario farle anche il
bagno. Il legame madre-figlio che viene descritto nel libro e' quasi un
frammento da manuale clinico psicoanalitico. Ma probabilmente la spiegazione
sta proprio nei rapporti di potere e nella loro distribuzione all'interno
della famiglia. Gli uomini hanno la proprieta' delle donne, ma le donne
hanno il diritto di  esercitare il dominio sulle loro simili gerarchicamente
subalterne. Nella Romagna contadina dell'Ottocento e primo Novecento, la
suocera attendeva sulla porta di casa la nuova nuora per il rito di
sottomissione. E oggi, senza riti espliciti, quante suocere pretendono in
vecchiaia ancora la cura da parte delle nuore o esercitano l'invadenza con
la complicita' silenziosa del figlio?
Leila e' riuscita alla fine a divorziare imponendo questo scacco alla sua
famiglia, ma il suo giudizio su come vanno le cose attualmente nelle
famiglie musulmane magrebine e' molto amaro e severo: "Tutti quelli che
sostengono l'integrazione dei marocchini in Francia non sanno che e'
impossibile cambiare la sorte delle donne del mio Paese. Perfino le mie
amiche e io, che avevamo avuto la fortuna di studiare in una scuola
francese, non avevamo potuto ribellarci. Eravamo prigioniere di un sistema,
e forse anche noi avremmo educato le nostre figlie secondo la tradizione,
facendole soffrire come avevamo sofferto noi. Da quando ero nata la
comunita' musulmana in Francia non si evolveva affatto, anzi, regrediva.
Quando ero piccola non erano tante le musulmane che portavano il velo, ora
ne sono piene le strade. Spesso sono le ragazze  che scelgono di metterlo.
Alcune lo fanno per recuperare un'identita' perduta. E' una specie di crisi
adolescenziale, un po' diversa dalla mia. Ma so che altre, la maggior parte,
si velano per stare tranquille, perche' i fratelli le lascino in pace. Il
ragionamento e' semplice: se una ragazza porta il velo non c'e' bisogno di
controllarla".
Siamo a conoscenza del fenomeno, in forte crescita, dei delitti d'onore in
Germania e in Olanda nelle famiglie musulmane dove mariti, padri e fratelli
puniscono la donne che con le loro ribellioni dimostrano qualche crepa nel
sistema di controllo parentale. Ma non abbiamo ancora analisi approfondite
per comprendere e per aiutare queste comunita' a evolvere  anziche'
ripiegarsi nell'integralismo. Non sappiamo fare i conti con le nostre
responsabilita' anche forse perche' questi comportamenti collettivi non ci
sono cosi' incomprensibili, esistendo ancora come sottofondo pronto a
riemergere nelle pieghe delle nostre buone tradizioni patriarcali
mediterranee.

8. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.

9. PER SAPERNE DI PIU'
* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per
contatti: azionenonviolenta at sis.it
* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia:
www.peacelink.it/users/mir; per contatti: mir at peacelink.it, sudest at iol.it,
paolocand at inwind.it
* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per
contatti: info at peacelink.it

LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 857 del 3 marzo 2005

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