La nonviolenza e' in cammino. 855



LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 855 del primo marzo 2005

Sommario di questo numero:
1. Giuliana, o della nonviolenza
2. Giobbe Santabarbara: Per Mario Luzi
3. Angela Giuffrida: Le donne, la politica e la guerra
4. Monica Lanfranco: Sulla capacita' di identificare la violenza
5. Per una bibliografia sulla Shoah (parte trentaduesima)
6. Umberto Santino: Nonviolenza, mafia e antimafia (parte seconda)
7. Per una definizione critica e pluridimensionale della nonviolenza
8. Angelo Cavagna: Testimonianza al processo per il blocco nonviolento del
treno della morte
9. La "Carta" del Movimento Nonviolento
10. Per saperne di piu'

1. EDITORIALE. GIULIANA, O DELLA NONVIOLENZA
[Giuliana Sgrena, intellettuale e militante femminista e pacifista tra le
piu' prestigiose, e' tra le maggiori conoscitrici italiane dei paesi e delle
culture arabe e islamiche; autrice di vari testi di grande importanza (tra
cui: a cura di, La schiavitu' del velo, Manifestolibri, Roma 1995, 1999;
Kahina contro i califfi, Datanews, Roma 1997; Alla scuola dei taleban,
Manifestolibri, Roma 2002; Il fronte Iraq, Manifestolibri, Roma 2004); e'
stata inviata del "Manifesto" a Baghdad, sotto le bombe, durante la fase
piu' ferocemente stragista della guerra tuttora in corso. A Baghdad e' stata
rapita il 4 febbraio 2005. Dal sito del quotidiano "Il manifesto"
riprendiamo, con minime modifiche, la seguente scheda: "Nata a Masera, in
provincia di Verbania, il 20 dicembre del 1948, Giuliana ha studiato a
Milano. Nei primi anni '80 lavora a 'Pace e guerra', la rivista diretta da
Michelangelo Notarianni. Al 'Manifesto' dal 1988, ha sempre lavorato nella
redazione esteri: appassionata del mondo arabo, conosce bene il Corno
d'Africa, il Medioriente e il Maghreb. Ha raccontato la guerra in
Afghanistan, e poi le tappe del conflitto in Iraq: era a Baghdad durante i
bombardamenti (per questo e' tra le giornaliste nominate 'cavaliere del
lavoro'), e ci e' tornata piu' volte dopo, cercando prima di tutto di
raccontare la vita quotidiana degli iracheni e documentando con
professionalita' le violenze causate dall'occupazione di quel paese.
Continua ad affiancare al giornalismo un impegno anche politico: e' tra le
fondatrici del movimento per la pace negli anni '80: c'era anche lei a
parlare dal palco della prima manifestazione del movimento pacifista"]

Continua il sequestro, continuano il terrore e le stragi, continua
l'occupazione militare, continua la guerra.
Solo la scelta della nonviolenza puo' far cessare tutto cio': far cessare la
guerra, far cessare l'occupazione militare, far cessare le stragi e il
terrore, far cessare questo e gli altri sequestri.
Finche' ci si illude che vi possa essere pace e rispetto della dignita'
umana usando mezzi come le armi e la guerra, le torture e i rapimenti, i
suicidi e gli omicidi, la violenza e la complicita' con la violenza,
l'ingiustizia e la complicita' con l'ingiustizia, mai avremo pace e rispetto
dell'umana dignita'. Solo la scelta della nonviolenza costruisce la pace,
invera la dignita' umana di tutti gli esseri umani e dell'umanita' intera.
Chi vuol lottare per la pace e la giustizia, e non fa la scelta della
nonviolenza, non lotta per la pace e la giustizia. Questo dobbiamo dire
chiaro e forte. Ad ogni logica, apparato, strumento di morte opporci
dobbiamo. La nonviolenza e' l'unica via per la liberazione dell'umanita',
per la convivenza dell'umanita', per contrastare il male e la morte.
La scelta della nonviolenza, la scelta di stare dalla parte delle vittime,
la scelta della verita', della forza della verita' che libera, ahimsa,
satyagraha: la scelta di Giuliana.

2. LUTTI. GIOBBE SANTABARBARA: PER MARIO LUZI
Vi sono poesie di Mario Luzi che reco in me come lampe, lame di verita', che
straziano e illuminano a un tempo. Ogni volta che rileggo Presso il
Bisenzio, o La notte lava la mente, o la Richiesta d'asilo d'un pellegrino a
Viterbo, sento che e' della nostra, della mia stessa esistenza che quella
voce dice, e piango ancora.
O Mario, grazie, grazie ancora, grazie per sempre.

3. RIFLESSIONE. ANGELA GIUFFRIDA: LE DONNE, LA POLITICA E LA GUERRA
[Ringraziamo Angela Giuffrida (per contatti: frida43 at inwind.it) per averci
messo a disposizione questo articolo estratto da un suo libro. Angela
Giuffrida e' docente di filosofia ed acuta saggista; tra le sue
pubblicazioni: Il corpo pensa, Prospettiva edizioni, Roma 2002]

Gli uomini che fanno politica perseguono generalmente un unico fine: il
potere personale.
Rispondendo alla domanda: "Ma la politica e' una cosa da uomini?" posta ad
alcune parlamentari da un settimanale femminile, cosi' ha risposto Grazia
Francescato: "Le donne sono poco interessate alla politica? No, non e' vero:
in realta' non sono interessate a 'questa' politica (...). Le donne vedono
la politica piu' come un servizio che come esercizio di potere. (...) Gli
uomini, invece, mirano al potere. Divergiamo negli scopi. E anche nei modi.
A me piace realizzare le cose in sintonia con gli altri e per gli altri, non
contro. Gli uomini, invece, passano attraverso la gerarchla e la lotta. Per
loro e' importante ricoprire un ruolo, assegnare una medaglietta (...) mi
sono resa conto che per molti uomini e' importante il ruolo in se': se
glielo togli, cade il mondo. E' cruciale, e' l'identita' (...) Non vali per
quello che sei, ma per il ruolo che hai: purtroppo questa e' la logica". Ma
se questa e' la logica, bisogna portarla alle sue logiche conseguenze. La
Francescato ha sottolineato un dato di fatto noto a tutti: non e' certo un
mistero che tutta la storia del patriarcato sia un'ossessiva ricerca di
potere; e' un mistero invece che un dato cosi' eclatante non conduca alle
sue naturali e necessarie conclusioni.
Sappiamo che il motivo che spinge l'uomo a perseguire l'imperio in ogni sua
forma e' la percezione della propria, costitutiva debolezza; e' possibile
che un individuo con lo sguardo perennemente fisso su di se', addirittura su
una parte di se', possa occuparsi di politica? Per fare politica non occorre
uno sguardo capace di "vedere" gli altri e di coglierli nella loro
interezza, visto che deve "regolare" le loro vite? Se il fine della politica
e' la direzione della vita pubblica, possono le norme, i principi, le regole
politiche esulare non dico dalla conoscenza e dalla comprensione dell'altro,
ma dalla semplice attenzione nei suoi confronti? Se la politica e' la
scienza e l'arte di governare, che scienza e che arte puo' produrre un
individuo cieco e sordo, che scorge un unico fine nella sua azione politica
e ascolta un'unica istanza? Per prestare attenzione agli altri occorre non
essere interamente assorbiti dalle proprie difficolta'; per provare empatia,
cioe' per riconoscere l'altro, bisogna prima conoscere se stessi; per dare
qualcosa agli altri si deve avere qualcosa da dare. Se la politica e' un
servizio prestato alla comunita' necessita di individui forti.
Bisogna concludere che la politica non e' decisamente cosa da uomini, se si
pensa che il ricorso alla violenza e' il modo privilegiato con cui vengono
risolte le controversie e che tutti gli Stati, qualunque sia la forma di
governo o il grado di ricchezza, investono miliardi in spese militari,
nonostante l'attuale militarismo maschile sia "l'attivita' umana che
comporta la piu' intensa dispersione d'energia, poiche' trasforma le energie
accumulate direttamente in distruzione e rovina, senza che ne derivi alcun
utile appagamento dei bisogni essenziali dell'uomo" e "con la somma che
serve a costruire un missile intercontinentale balistico si potrebbero
nutrire cinquanta milioni di bambini, costruire 160.000 scuole, aprire
340.000 centri di assistenza sanitaria. Anche soltanto il costo di un nuovo
sottomarino nucleare - pari alla somma destinata annualmente all'educazione
in ventitre' paesi in via di sviluppo, in un mondo ove centoventi milioni di
bambini non hanno una scuola in cui andare, e undici milioni di loro muoiono
prima di raggiungere il primo anno di eta' - potrebbe offrire nuove
opportunita' a milioni di persone, che oggi sono condannate a vivere nella
poverta' e nell'ignoranza".
Eppure ci troviamo a disquisire puntualmente se fare o no questa o quella
guerra, come se si trattasse di un male necessario ed inestirpabile; ed in
effetti lo e' e tale rimarra' fino a quando l'irrazionalita' maschile
governera' il mondo. Nelle innumerevoli ed inutili tavole rotonde si
fronteggiano favorevoli e contrari, in un clima salottiero dove in
definitiva una tesi vale l'altra e anzi i sostenitori della guerra
dimostrano un'arrogante sicumera che costringe all'angolo i malcapitati
pacifisti di turno. In realta' chi sostiene la guerra non sta esprimendo
un'opinione come un'altra, sta invece sottoscrivendo la condanna a morte di
altre persone, non importa se molte o poche; le tesi belliciste non sono
innocenti dissertazioni: chiunque uccida o decreti l'uccisione o appoggi col
suo consenso l'uccisione dei propri simili e' un assassino.
Tutte le argomentazioni sull'opportunita' di non scatenare guerre, per
quanto logiche e sensate siano, sono destinate a lasciare il tempo che
trovano se non si aggredisce con fermezza il concetto chiave che permette
agli Stati di farle: dev'essere chiaro una volta per tutte che uccidere e'
sempre e comunque un crimine e l'assunzione da parte dello Stato della forza
"legittima", come non puo' includere la tortura, a maggior ragione non puo'
prevedere l'assassinio sotto forma di pena di morte o di guerra. Compito
prioritario dello Stato e' la tutela dei cittadini, percio', a rigor di
logica, non puo' mettere in pericolo la loro sicurezza e la loro vita
uccidendoli direttamente o esponendoli alla morte nei conflitti armati: le
sue armi non possono che essere quelle della ragionevolezza, della
mediazione e della diplomazia.
Ma nessuna logica e' possibile riscontrare nello speciale status di cui gode
la guerra, considerata altro rispetto al comune delitto, legittimata e
addirittura ammantata di nobili ideali; quanto poco nobili siano i motivi
che scatenano le guerre nel mondo e' dato a tutti di sapere, in ogni caso ha
senso considerare criminale chi uccide una persona ed eroe chi ne uccide
milioni? Ha ragione Giancarla Codrignani quando afferma che: "agli uomini la
guerra piace. Sono state create regole perche' gli stati diano valore alla
violenza, alla gerarchia, alla vendetta, per fare impunemente quello che
fanno volgari assassini e stupratori". Bisogna avere il coraggio di
affermare con forza che non ci puo' essere alcuna legittimita'
nell'uccidere, nel recare sofferenze e lutti ai propri simili, bisogna avere
il coraggio di rispondere all'arroganza bellicista e alla finta
ragionevolezza di chi la sostiene che la guerra non ha giustificazioni
possibili, bisogna smascherare senza tentennamenti i reali motivi che stanno
alla radice di ogni guerra e cioe' il delirio di onnipotenza di una mente
incapace di riconoscere l'altro, di attribuire valore alla vita, persino
alla propria, e di rispondere alla complessita' e alla ricchezza del reale
con ragionamenti complessi e flessibili.
E' ora di finirla di considerare chi disdegna la guerra un'anima bella
incapace di confronto razionale con la realta' perche', al contrario, la sua
razionalita' e' ben robusta, e molto fragile, anzi proprio inesistente, e'
la razionalita' di chi fa ricorso alla forza per risolvere i problemi: la
risposta violenta e' il fallimento della ragione e la spia del mancato
incivilimento della mente, percio' chi si arroga il diritto di sopprimere
una vita non puo' appartenere ad una specie che si vuole civilizzata.

4. RIFLESSIONE. MONICA LANFRANCO: SULLA CAPACITA' DI IDENTIFICARE LA
VIOLENZA
[Ringraziamo Monica Lanfranco (per contatti: e-mail: mochena at tn.village.it,
siti: www.marea.it, www.marea.it/lanfranco) per averci permesso di
pubblicare qui come anticipazione questo suo intervento che apparira'
successivamente in rivista. Monica Lanfranco, giornalista professionista,
nata a Genova il 19 marzo 1959, vive a Genova; collabora con le testate
delle donne "DWpress" e "Il paese delle donne"; ha fondato il trimestrale
"Marea"; dirige il semestrale di formazione e cultura "IT - Interpretazioni
tendenziose"; dal 1988 al 1994 ha curato l'Agendaottomarzo, libro/agenda che
veniva accluso in edicola con il quotidiano "l'Unita'"; collabora con il
quotidiano "Liberazione", i mensili "Il Gambero Rosso" e "Cucina e Salute";
e'' socia fondatrice della societa' di formazione Chance. Nel 1988 ha
scritto per l'editore PromoA Donne di sport; nel 1994 ha scritto per
l'editore Solfanelli Parole per giovani donne - 18 femministe parlano alle
ragazze d'oggi, ristampato in due edizioni. Per Solfanelli cura una collana
di autrici di fantasy e fantascienza. Ha curato dal 1990 al 1996 l'ufficio
stampa per il network europeo di donne "Women in decision making". Nel 1995
ha curato il libro Valvarenna: nonne madri figlie: un matriarcato imperfetto
nelle foto di fine secolo (Microarts). Nel 1996 ha scritto con Silvia
Neonato, Lotte da orbi: 1970 una rivolta (Erga): si tratta del primo testo
di storia sociale e politica scritto anche in braille e disponibile in
floppy disk utilizzabile anche dai non vedenti e rintracciabile anche in
Internet. Nel 1996 ha scritto Storie di nascita: il segreto della
partoriente (La Clessidra). E' stato pubblicato recentemente il suo libro,
scritto insieme a Maria G. Di Rienzo, Donne disarmanti, Intra Moenia, Napoli
2003. Cura e conduce corsi di formazione per gruppi di donne strutturati
(politici, sindacali, scolastici) sulla storia del movimento delle donne e
sulla comunicazione]

"Davvero gli uomini e le donne possono convivere senza che i primi siano
violenti con le seconde?"
Una mia amica, oggi cinquantenne, mi confesso' qualche tempo fa, che da
quando si era sposata, appena ventenne, e fino al divorzio (circa diciotto
anni dopo), veniva regolarmente picchiata dal marito. Lui, alcolista, aveva
quasi subito rivelato il suo volto violento, dopo un breve periodo di
equilibrio durato i primi momenti del matrimonio. Silvia, (la chiamero'
cosi') aveva dato per scontato, per decenni, che nelle relazioni tra i due
sessi la violenza fosse inevitabile, connaturata alla dinamica tra un uomo e
una donna: un accessorio indispensabile che segnava il dover essere di un
marito, uomo, compagno, nei confronti delle donne, ed in particolare di
quella che divide con lui la vita e il letto. In parte, a corollario di
questa convinzione, trasmessa anche della madre di Silvia con il consenso
del suo ambiente sociale, lei stessa pensava che una donna meritasse quel
trattamento.
Non stiamo parlando di una donna del profondo sud (o del profondo nord)
deprivato, e di una classe sociale disagiata, ma dell'esperienza di una
donna del nord Italia di classe media. Come vuole la tradizione misogina
sessista, condivisa e tollerata, anche solo a livello di battuta considerata
scherzosa e leggera, ad ogni latitudine, la sua vita e' stata  sottesa dalla
massima: "Arrivato a casa picchia tua moglie: tu non sai perche', ma lei
si'".
Approdare, per Silvia, a porsi la domanda iniziale ("Davvero gli uomini e le
donne possono convivere senza che i primi siano violenti con le seconde?")
ha rappresentato per lei, alle soglie dell'eta' matura e con una figlia gia'
adolescente, l'inizio del percorso di riconoscimento della violenza. Quella
subi'ta, quella introiettata, quella trasmessa, quella potenzialmente
trasmissibile da lei a sua figlia.
*
Parto da questa angolazione per tratteggiare un possibile approccio al tema
"capacita' di identificare la violenza", che ritengo fondamentale proprio
perche' non esiste opposizione efficace alla violenza senza l'individuazione
e il riconoscimento della violenza stessa.
Da alcuni decenni sono soprattutto le/gli studiose/i di psicopedagogia
infantile che lavorano su bambini e bambine traumatizzate a sostenere a gran
voce la necessita' di insegnare ai cuccioli come riconoscere i pericoli che
possono, purtroppo, arrivare dagli adulti, quelli che dovrebbero essere loro
alleati e protettori. Dall'esperienza di "assecondamento" e di accettazione
della violenza da parte dei piccoli parte infatti la riflessione per capire
come, senza un adeguato input verso il riconoscimento dei propri diritti, il
soggetto che diventa oggetto di violenza non solo non la riconosca come
tale,  non solo e' destinato a subirla, ma spesso poi anche a perpetuarla a
danni di altri in futuro, in una spirale senza fine.
Poche settimane fa a Genova, in pieno centro cittadino, in una discoteca una
quattordicenne e' stata violentata da un maggiorenne nei bagni del locale.
Il giorno dopo, durante il tragitto sull'autobus, ho ascoltato uno scambio
tra due adolescenti, pressoche' coetanee della vittima: il loro dialogo, che
mi e' parso atrocemente identico al ragionamento dei difensori degli
stupratori neofascisti del Circeo (quelli di Processo per stupro) verteva
su: quanto la vittima avesse in realta' collaborato, come e se la sua vita
sarebbe stata segnata dall'esperienza. In fondo non e' morta, che cosa sara'
mai uno stupro? Sembravano chiedersi.
Analizzando freddamente questa situazione appare che cio' che quelle giovane
donne stanno testimoniando e' la non consapevolezza che essere chiuse in un
bagno da un ragazzo che impone con la forza una penetrazione e' violenza: le
due ragazzine non la riconoscevano, evidentemente, come tale. Anche loro,
come la mia amica ormai matura, sono il frutto di una trasmissione di
informazioni sulla percezioni di se', sulla natura delle relazioni tra i
sessi, sullo svilupparsi della sessualita', sul valore dell'inviolabilita'
del corpo e dell'autodeterminazione, che codificano il non essere lo stupro
un tabu', e come tale oggetto di censura e disapprovazione sociale.
In un clima globale bellico e militaresco, che giustifica e ammette attacchi
preventivi, guerre umanitarie, reazioni di "resistenza" kamikaze, che ci si
puo' aspettare? Se non si riconosce e identifica la violenza, se non si
rifiuta il paradigma della forza come fondativo delle relazioni, non ci puo'
essere alcuna speranza di convivenza umana pacifica e feconda.
Alla base di questo percorso c'e' la necessita' di riconoscere la violenza
sulle donne come violenza primaria da sradicare. Ce lo insegna, oggi, lo
straordinario sforzo legislativo spagnolo, che con la nuova legge contro la
violenza in famiglia afferma: una cultura violenta contro le donne
originera', a cascata, modelli violenti in ogni altra manifestazione del suo
corpo sociale. Riconoscerlo e' un'emergenza.

5. MATERIALI. PER UNA BIBLIOGRAFIA SULLA SHOAH (PARTE TRENTADUESIMA)

GERSHOM SCHOLEM
Illustre studioso della mistica ebraica, docente universitario (Berlino
1897 - Gerusalemme 1982). Opere di Gershom Scholem: Le grandi correnti della
mistica ebraica (1941), Einaudi, Torino 1993; La Qabbalah e il suo
simbolismo (1960), Einaudi, Torino 1980; Walter Benjamin e il suo angelo
(1972), Adelphi, Milano 1978; Walter Benjamin. Storia di un'amicizia (1975),
Adelphi, Milano 1992; Da Berlino a Gerusalemme, Einaudi, Torino 2004 (nuova
edizione); e' stata annunciata la pubblicazione per aprile 2005 di Tre
discorsi sull'ebraismo, La Giuntina, Firenze. Interviste a Gershom Scholem:
Scholem/Shalom. Due conversazioni con Gershom Scholem su Israele, gli ebrei
e la Qabbalah, Quodlibet, Macerata 2001. Carteggi e opere su Gershom
Scholem: Walter Benjamin, Gershom Scholem, Teologia e utopia. Carteggio
1933-1940, Einaudi, Torino 1987; Jacob Taubes, Il prezzo del messianismo.
Lettere di Jacob Taubes a Gershom Scolem e altri scritti, Quodlibet,
Macerata 2000; vedi anche la discussione epistolare con Hannah Arendt in
Hannah Arendt, Ebraismo e modernita', Unicopli, Milano 1986, Feltrinelli,
Milano 1993. Nella rete telematica sono disponibili ampi brani della
notevole tesi di laurea di Flavia Piperno su Gershom Scholem e il rapporto
tra sionismo e Kabbala', Roma 2002 (www.morasha.it/tesi/pprn/index.html)

HANS E SOPHIE SCHOLL
Martiri antinazisti, cfr. la voce Rosa Bianca.

GERHARD SCHREIBER
Gerhard Schreiber e' uno dei maggiori esperti tedeschi di storia militare.
Opere di Gerhard Schreiber: I militari italiani internati nei campi di
concentramento del Terzo Reich 1943-1945, Ufficio storico dello Stato
Maggiore dell'Esercito, Roma 1992; La vendetta tedesca. 1943-1945 Le
rappresaglie naziste in Italia, Mondadori, Milano 2000, 2001.

NINA SCHROEDER
Nina Schroeder e' nata nel 1961 a Einbeck ed e' cresciuta a Berlino. Dopo
gli studi umanistici ha vissuto in Italia, dove e' diventata giornalista
professionista. Ha lavorato per stampa, tv e radio come cronista culturale;
e' autrice del film documentario per la Rai di Bolzano Letteratura e musica:
il confronto di due mondi, ed e' stata fra i curatori dei primi due volumi
del saggio storico Das 20. Jahrhundert in Suedtirol (Il ventesimo secolo in
Sudtirolo). Opere di Nina Schroeder: Le donne che sconfissero Hitler, Il
Saggiatore, Milano 2001.

6. RIFLESSIONE. UMBERTO SANTINO: NONVIOLENZA, MAFIA E ANTIMAFIA (PARTE
SECONDA)
[Dal sito del Centro Siciliano di Documentazione "Giuseppe Impastato" (per
contatti: via Villa Sperlinga 15, 90144 Palermo, tel. 0916259789, fax:
091348997, e-mail: csdgi at tin.it, sito: www.centroimpastato.it) riprendiamo
questo recente testo di Umberto Santino. Umberto Santino ha fondato e dirige
il Centro siciliano di documentazione "Giuseppe Impastato" di Palermo. Da
decenni e' uno dei militanti democratici piu' impegnati contro la mafia ed i
suoi complici. E' uno dei massimi studiosi a livello internazionale di
questioni concernenti i poteri criminali, i mercati illegali, i rapporti tra
economia, politica e criminalita'. Il Centro siciliano di documentazione
"Giuseppe Impastato" e' un istituto di ricerca tra i piu' accreditati in
campo internazionale, particolarmente specializzato su mafia e poteri
criminali; operante dal 1977, e' stato successivamente intitolato a Giuseppe
Impastato, militante della nuova sinistra assassinato dalla mafia nel 1978;
una sintetica ma esauriente scheda di autopresentazione, di quattro pagine,
e' richiedibile presso il Centro Impastato. Tra le opere di Umberto Santino:
(a cura di), L'antimafia difficile,  Centro siciliano di documentazione
"Giuseppe Impastato", Palermo 1989; Giorgio Chinnici, Umberto Santino, La
violenza programmata. Omicidi e guerre di mafia a Palermo dagli anni '60 ad
oggi, Franco Angeli, Milano 1989; Umberto Santino, Giovanni La Fiura,
L'impresa mafiosa. Dall'Italia agli Stati Uniti, Franco Angeli, Milano 1990;
Giorgio Chinnici, Umberto Santino, Giovanni La Fiura, Ugo Adragna, Gabbie
vuote. Processi per omicidio a Palermo dal 1983 al maxiprocesso, Franco
Angeli, Milano 1992 (seconda edizione); Umberto Santino e Giovanni La Fiura,
Dietro la droga. Economie di sopravvivenza, imprese criminali, azioni di
guerra, progetti di sviluppo, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1993; La
borghesia mafiosa, Centro siciliano di documentazione "Giuseppe Impastato",
Palermo 1994; La mafia come soggetto politico, Centro siciliano di
documentazione "Giuseppe Impastato", Palermo 1994; Casa Europa. Contro le
mafie, per l'ambiente, per lo sviluppo, Centro siciliano di documentazione
"Giuseppe Impastato", Palermo 1994; La mafia interpretata. Dilemmi,
stereotipi, paradigmi, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli 1995; Sicilia
102. Caduti nella lotta contro la mafia e per la democrazia dal 1893 al
1994, Centro siciliano di documentazione "Giuseppe Impastato", Palermo 1995;
La democrazia bloccata. La strage di Portella della Ginestra e
l'emarginazione delle sinistre, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli 1997;
Oltre la legalita'. Appunti per un programma di lavoro in terra di mafie,
Centro siciliano di documentazione "Giuseppe Impastato", Palermo 1997;
L'alleanza e il compromesso. Mafia e politica dai tempi di Lima e Andreotti
ai giorni nostri, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli 1997; Storia del
movimento antimafia, Editori Riuniti, Roma 2000; La cosa e il nome.
Materiali per lo studio dei fenomeni premafiosi, Rubbettino, Soveria
Mannelli 2000. Scritti su Umberto Santino: Peppe Sini, Una rassegna
bibliografica di alcuni lavori di Umberto Santino. La borghesia mafiosa tra
violenza programmata, "doppio Stato" e capitalismo finanziario, Centro di
ricerca per la pace, Viterbo 1998, 2003]

Precedenti. Le riflessioni piu' recenti
Nel dicembre del 1990 la rivista di Pax Christi "Mosaico di pace" pubblicava
due articoli sul tema "Mafia e nonviolenza", di Giorgio Pratesi e di
Giuliana Martirani (14). Il primo, un sacerdote, osservava che le
difficolta' di una lotta efficace alla mafia derivavano da due aspetti: la
collusione con il potere politico, economico e sociale; la ramificazione
diffusa in gran parte della societa' civile. Pertanto l'idea di poter
debellare la mafia affrontandola militarmente appariva tragicamente ridicola
e molti pensano che non ci sia niente da fare. Pero' venivano rilevati dei
segnali positivi: un limite di sopportazione gia' raggiunto da diverse
persone, l'impegno della chiesa, l'attivita' di gruppi minoritari, la giunta
Orlando, il distacco dei giovani dai modelli del passato, il pentitismo.
La lotta alla mafia andava condotta su diversi versanti, ma soprattutto,
almeno in una prima fase, su quello culturale: "occorre un'opera educativa
profonda che pian piano modifichi la mentalita' e l'atteggiamento della
gente". Per questo occorre un'idea-luce: la nonviolenza. C'e' una radicale
opposizione tra mafia e nonviolenza: il mafioso preferisce la violenza per
affermare il suo potere, si preoccupa solo del suo punto di vista, minaccia
e intimidisce, non tollera chi non riconosce il suo potere fondato sul
silenzio e l'omerta', afferma il diritto della forza, sopprime l'avversario;
il nonviolento pensa che la nonviolenza sia la strada migliore per affermare
i suoi diritti, vuole l'affermazione dei diritti di tutti, si sforza di
ascoltare e capire anche le ragioni dell'avversario, mette in discussione se
stesso, confida nel confronto e nel dialogo, afferma la forza del diritto,
ricerca una soluzione ragionevole per entrambe le parti.
Un'azione nonviolenta sistematica per affrontare una situazione di mafia e'
tutta da inventare (non c'e' nessun riferimento a Dolci) e l'autore dava
alcune indicazioni preliminari: chi vuole avviarsi su questa strada deve
evitare ogni comportamento mafioso, in una societa' violenta la nonviolenza
e' un percorso continuo che puo' conoscere fermate e cadute, si puo'
cominciare con azioni concrete (spettacoli, petizioni, marce) che diano
fiducia alla gente, bisogna favorire il riavvicinamento dei cittadini alla
gestione della cosa pubblica, manifestare solidarieta' a chi viene colpito o
minacciato.
La Martirani, una geografa impegnata nel sociale, dava delle indicazioni per
un impegno delle parrocchie, che dovevano diventare uno spazio per
progettare e praticare l'esodo dalla cultura mafiosa. Venivano individuate
sette virtu' parrocchiali: l'obiezione di coscienza al potere dei capi, alla
giustizia mafiosa, a feste e processioni organizzate dai mafiosi, alle
devianze minorili, alla giustizia sommaria, alle banche che riciclano il
denaro sporco, ai sacramenti amministrati ai mafiosi. A queste obiezioni
corrispondono altrettante proposte alternative: il canto del Te Deum per
ribadire il primato di Dio, il comitato arbitrale parrocchiale, la festa di
fratellanza, le cooperative, il comitato di soccorso giuridico, le Mag
(Mutua autogestione: strutture di credito alternative), la delega al
vescovo. Non so che accoglienza abbiano avuto queste proposte all'interno
del mondo ecclesiale.
*
Possiamo considerare il tentativo piu' corposo di analisi e di progetto di
lavoro negli anni novanta un saggio di Guglielmo Minervini e un documento di
gruppo che ne ricalca le linee, apparsi sulle riviste "Rocca" nel marzo 1992
e "Mosaico di pace" nel dicembre 1992, prima e dopo le stragi di Capaci e di
via D'Amelio (15).
Nel documento redatto da un gruppo di studiosi e operatori sociali facenti
capo all'Osservatorio meridionale di Reggio Calabria (tra gli altri, Piero
Fantozzi e Tonino Drago) si partiva da una premessa: per uscire dalla
profonda crisi del Sud bisognava ampliare lo sguardo, guardando al Nord, al
primo e al terzo mondo (il secondo, quello del socialismo reale, non c'era
piu'). Le attivita' criminali si inseriscono in tendenze e processi
sovranazionali e un'azione di resistenza e' impedita dalle connivenze con
settori del potere economico e politico-istituzionali che vanno oltre il Sud
e vengono legittimate come componenti l'elite nazionale e sovranazionale.
"Gli aspetti piu' importanti di queste connivenze hanno una natura
oggettiva; essi poggiano sul modo stesso in cui si evolvono e si riproducono
gli interessi nelle societa' capitalistiche avanzate. Il mercato, ad
esempio, tende sempre piu' ad espandere le sue prerogative finanziarie e
speculative e a comprimere i processi produttivi. Tutto cio' e'
oggettivamente funzionale alla legittimazione dei capitali delle
associazioni mafiose; inoltre la grande quantita' di proventi illeciti
immessa in questo processo alimenta ed accelera tale tendenza. Si tratta di
un circolo chiuso che potrebbe essere spezzato da uno spirito e da un'etica
che oggi non sono ancora date ne' al Sud ne' al Nord d'Italia" (16).
La criminalita' mafiosa (con il termine si indicano le principale
organizzazioni criminali: mafia siciliana, 'ndrangheta, camorra) viene
definita l'unico conflitto sociale in cui si ha di fronte un avversario che
spara. La violenza e' essenziale per la gestione dei conflitti. Un
territorio marcato dal dominio mafioso e' segnato dalla violenza. Venivano
individuati come indicatori di tale condizione: la militarizzazione della
vita civile, il tasso elevatissimo di mortalita' violenta, un diffuso clima
di intimidazione e di paura, un livello altissimo di esposizione personale
nelle faide tra le cosche. Siamo percio' in presenza di un'occupazione
criminale del territorio che si configura come controllo del territorio
fisico e controllo delle strutture sociali.
La criminalita' mafiosa mira a costituire un monopolio effettivo della
violenza, al posto di quello non effettivo dello Stato, con un esercito
professionale di circa 15.000 uomini e una leva volontaria di circa 100.000
persone, che sarebbe il tramite per porsi come "strumento univoco per
l'integrazione e per la regolazione politica, economica, sociale dei bisogni
e dei conflitti" (17). Il suo rapporto con lo Stato e' insieme di
antagonismo e di collaborazione; essa rappresenta la forma specifica di
realizzazione della modernizzazione nel territorio meridionale e la
modalita' attraverso cui i gruppi sociali meno abbienti superano le barriere
all'acquisizione di potere reale ed e' collegata con organizzazione eversive
operanti all'interno delle istituzioni (esempio: loggia P2). Pertanto
sarebbe un errore strategico puntare alla riappropriazione da parte dello
Stato del monopolio della violenza: le elite di potere non possono
autoepurarsi. Bisogna rovesciare i rapporti di forza, "riportando al centro
le potenzialita' di risposta che la societa' civile e la coscienza
collettiva ancora possiedono; uscire insomma dalla logica impotente della
doppia schiavitu': al gruppo mafioso o al ceto politico, per spostare avanti
la democrazia, ripensando in modo nonviolento, cioe' collettivo e
costruttivo, insieme lo Stato, le istituzioni, il modello di sviluppo e la
propria vita" (18).
Venivano indicati due tipi di nonviolenza possibili: una volontaria, l'altra
strutturale.
Il potere, anche quello mafioso, si regge sul consenso (si obbedisce alla
mafia per paura, abitudine, interesse, identificazione psicologica,
indifferenza, assenza di relazioni sociali) e la nonviolenza volontaria si
fonda sulla costruzione di diffusi loci di potere che controllino il potere
costituito e siano alternativi ad esso. Sottrarre consenso alle mafie si
puo' in vari modi: con l'obiezione individuale (Libero Grassi) e di gruppo
(associazioni antiracket), che interagisce con l'azione repressiva dello
Stato. Precondizioni per questo tipo di attivita' sono: l'individuabilita'
dell'avversario, un certo grado di collaborazione dello Stato, la natura
emergenziale del fenomeno criminale. I limiti sono evidenti se l'occupazione
mafiosa e' diffusa, lo Stato e le istituzioni piu' che garantire diritti
sociali tutelano interessi di gruppi, il tessuto sociale e' disgregato. In d
efinitiva questo tipo di nonviolenza si fonda su un'analisi semplificata
della realta', non cogliendo il coinvolgimento nelle pratiche criminali
delle istituzioni.
La nonviolenza strutturale invece si fonda su ipotesi di lettura della
realta' piu' adeguate: il clientelismo come modalita' diffusa, l'illegalita'
dominante e il potere mafioso come modello di sviluppo che ripropongono e
deformano quello consumistico-capitalista, intrecciando dominio e egemonia,
e si sviluppa non solo sulla linea dell'obiezione ma anche su quella
"dell'autonomia culturale, del programma costruttivo, del cambiamento
sociale, della elaborazione di un modello di sviluppo radicalmente diverso
da quello capitalistico occidentale" (19).
Venivano indicati i lineamenti per una strategia di nonviolenza strutturale:
l'analisi del contesto in cui nasce il grande crimine organizzato, che
affronti tematiche di carattere generale (come gli effetti dei processi di
modernizzazione, che indeboliscono le forme di regolazione e innescano
processi degenerativi, mettendo in mora le credenze nel concetto di
legalita', frutto della mediazione tra legittimazione interna ed esterna,
cioe' tra obbedienza fondata su valori condivisi e obbedienza fondata sulla
paura della sanzione) e specifiche, relative alla realta' del Mezzogiorno.
Qui dominano il degrado criminale e l'illegalita' di massa che non
incontrano significative resistenze collettive e organizzate. La credenza
nella legalita' si e' indebolita, lo Stato di diritto esiste solo sulla
carta. Nel Mezzogiorno la legittimazione delle centrali criminali viene da
basso, nel Nord Italia i processi dell'illecito partono dall'alto. Per
superare il dominio mafioso bisogna operare sulle radici sociali e una lotta
nonviolenta dev'essere riconoscibile, poggiare su un lavoro prolungato di
radicamento sociale, risvegliare identita' soggettive e collettive forti,
produrre un cambiamento radicale di mentalita', con un atteggiamento nuovo
nei confronti dell'avversario, di fronte a ogni forma di aggressione e di
ingiustizia, con un'intensa educazione spirituale e pratica. Nel Sud i
movimenti per la pace, ecologisti, il volontariato assumono forme
contraddittorie dando vita a sporadiche mobilitazioni di massa. Occorre
costruire dei gruppi aperti, capaci di dialogare con i bisogni concreti e
con i valori culturali del territorio, elaborare un programma costruttivo
che faccia del popolo meridionale un soggetto capace di autogestire il
proprio destino e miri a un mutamento radicale del modello di sviluppo e di
strutture sociali che produce ingiustizie, emarginazione e mafie. Agire
dall'interno, cambiando mentalita' e comportamenti, e nell'esterno, mutando
il quadro sociale.
Come si vede siamo di fronte a un modello analitico-progettuale che riprende
nelle linee fondamentali quello dolciano, con una maggiore preoccupazione di
rigore analitico che porta a identificare le mafie come forme specifiche
della modernizzazione capitalistica e coniuga conoscenza e pratica di
cambiamento.
Da questo modello sembra discostarsi Tonino Drago, nella sua relazione
all'incontro del 22 novembre 2004 a Palermo, quando ritiene la mafia una
risposta sbagliata a un modello di sviluppo sbagliato, non tenendo conto che
la mafia fa parte integrante del modello di sviluppo, in quanto componente
del blocco dominante. Drago recepisce una visione della criminalita'
organizzata, soprattutto nella forma camorristica, come ribellismo violento
e antisistema delle classi subalterne, aspetto che sara' pur presente ma che
dev'essere contestualizzato in un'analisi piu' complessa dei fenomeni di
criminalita' mafiosa, piu' propensi all'integrazione nel modello di sviluppo
capitalistico che alla sua contestazione.
*
Problemi
Mafia: ipotesi definitorie. Come abbiamo visto c'e' un percorso d'analisi
che parte dal gruppo clientelare-mafioso di Dolci e arriva al sistema
sociale mafioso, attraverso le riflessioni del gruppo meridionale sulle
criminalita' mafiose come forma del modello di sviluppo capitalistico, con
aspetti specifici legati alla realta' meridionale ma sempre piu' collegate a
processi economico-sociali (finanziarizzazione, illegalita' diffuse) in atto
a livello nazionale e sovranazionale.
Il rischio e' di operare una criminalizzazione generalizzata che chiude
qualsiasi possibilita' di cambiamento o lo connette con ipotesi (l'idea
luce) di palingenesi etico-sociale, alquanto improbabili. Nella mia analisi
i gruppi criminali agiscono all'interno di un sistema relazionale e la
"borghesia mafiosa", frutto dell'interazione tra soggetti illegali e legali
legati da cointeressenze e codici culturali, assume funzione dominante nel
contesto sociale (20). Nei processi di globalizzazione in atto individuo un
contesto criminogeno (quindi non totalmente criminale) per due aspetti:
aggravamento degli squilibri territoriali e dei divari sociali, con
l'emarginazione di grandi aree del pianeta che hanno come unica risorsa il
ricorso al crimine, e finanziarizzazione dell'economia, con sempre maggiori
possibilita' di fusione tra capitali illeciti e leciti (21). Questa analisi
rifugge da criminalizzazioni generalizzate, del tipo capitalismo uguale
mafie, sul piano storico e su quello dell'attualita'. Il capitalismo ha
generato mafie quando sono state compresenti alcune condizioni, come le
difficolta' all'inserimento e i proibizionismi. Nella stessa societa'
siciliana e meridionale, il dominio-egemonia mafiosi pur presentando
tendenze di tipo totalizzante non e' tale da oscurare l'intero quadro.
Quando parlo di societa' mafiogena, cioe' di un contesto sociale che
presenta alcune caratteristiche che producono e perpetuano il fenomeno
mafioso (22), non intendo dire che tutto e', e non puo' che essere, mafia.
Parlerei quindi, piu' che di sistema sociale mafioso tout court, di sistema
sociale a dominio mafioso.
Per cio' che riguarda l'assunzione delle riflessioni di psicologi sociale e
psicanalisti sarei molto cauto con tesi come lo "psichismo mafioso" (23) che
rischiano di riportare il fenomeno mafioso a una sorta di inconscio
collettivo peculiare dei siciliani, riproponendo uno schema antropologico di
tipo razziale, ignorando un percorso storico segnato da grandi lotte di
massa che si sono scontrate con il dominio mafioso, la cui sconfitta va
ricercata nel rapporto tra mafia e istituzioni, solidali nel fronteggiare
progetti di cambiamento che mettevano in forse assetti consolidati di
potere.
La scelta di puntare sul sottosistema culturale, per la sua capacita' di
riproduzione del dominio mafioso ma pure per le capacita' trasformative che
esso offrirebbe rischia di far riemergere l'ipotesi culturalista. Nel mio
"paradigma della complessita'" l'aspetto culturale e' costitutivo del
fenomeno mafioso ma in interazione con gli altri aspetti. Possiamo fare
questa scelta, per una sorta di divisione del lavoro, ma sapendo che gli
altri aspetti vanno tenuti ben presenti.
Istituzioni e societa' civile. Nel documento del gruppo meridionale, si da'
per scontata la completa mafiosizzazione delle istituzioni e la loro
irrecuperabilita' a un'azione seria ed efficace contro le mafie. Si ignorano
le contraddizioni che ci sono anche all'interno del quadro istituzionale e,
nonostante l'analisi sul coinvolgimento degli strati popolare nel sistema
mafioso, si punta tutto sulla societa' civile e sul popolo meridionale. Si
potrebbe cogliere in queste analisi un riflesso dell'antipolitica, luogo
comune particolarmente diffuso da parecchi anni, dopo la crisi della forma
partito? Il riferimento al popolo e' un po' troppo generico e risente di un
certo pasolinismo piu' o meno di maniera, ormai tramontato da un pezzo,
assieme alla presunta "innocenza" degli emarginati dei borghi romani.
Violenza legittima e nonviolenza. Sanfilippo da' per scontata la sconfitta e
l'inefficacia della violenza legittima mentre da' un giudizio ampiamente
positivo dei successi della nonviolenza. C'e' da dire che l'attivita'
repressiva da parte delle istituzioni nei confronti della mafia ha sempre
avuto il carattere dell'emergenza e della risposta ai fatti di sangue piu'
eclatanti (si vedano anche le osservazioni di Giovanni Abbagnato). Cio'
rimanda certamente alla natura sistemica del fenomeno mafioso, alla forza e
persistenza dei rapporti tra mafia e istituzioni, ma non si puo' ignorare
l'imprescindibilita' del momento repressivo che, con tutti i limiti che
vogliamo (parzialita', precarieta', emergenzialita'), anche in una realta'
come quella del nostro Paese ha inferto colpi significativi almeno all'ala
militare della mafia, andando incontro a sostanziali insuccessi per quanto
riguarda i rapporti con la politica. Non si puo' neppure ignorare la
centralita' del momento giudiziario nell'assalto al patrimonio mafioso,
premessa indispensabile per l'uso sociale dei beni confiscati.
I limiti dell'azione repressivo-giudiziaria rimandano all'assoluta
necessita' di dare la dovuta attenzione al quadro politico, in particolare
alla fase che stiamo attraversando in Italia.
Quanto ai successi dell'azione nonviolenta sarei piu' cauto: che fine hanno
fatto le esperienze di Gandhi e di Martin Luther King? Non mi pare che oggi
resti molto di loro, al di la' di un mito che tende a disinnescare la loro
carica eversiva e a farne pretesto per spot pubblicitari piu' o meno ben
confezionati e suggestivi. La loro attivita' rimane comunque un punto di
riferimento essenziale, ma purtroppo non ha dato luogo a risultati duraturi
e irreversibili.
Antimafia e nonviolenza. Il movimento contadino era nonviolento? Puo'
parlarsi di nonviolenza generica, ma ci sono casi di scontri non proprio
nonviolenti e anche di omicidi. Anche per il movimento antimafia attuale
puo' parlarsi solo di nonviolenza generica e di appiattimento sul tema della
legalita', che spesso significa solidarieta'-tifo per i magistrati e per gli
uomini delle forze dell'ordine piu' impegnati, con scarso interesse per
visioni critiche o alternative (potrei ricordare la scarsa attenzione per
scritti controcorrente, come i miei Oltre la legalita' e Storia del
movimento antimafia, all'interno di Libera). Condivido la proposta di
sostituire a una visione fondata sulla legalita', troppo spesso formale e
astratta, un'altra visione fondata sulla responsabilita', che implica
critica dell'esistente, anche della legislazione vigente.
*
Note
14. Cfr. G. Pratesi, Come contrastare la mafia?, in "Mosaico di pace", Anno
I, n. 4, dicembre 1990, pp. 8-9; G. Martirani, Voi sparerete le vostre
lupare e noi suoneremo le nostre campane, ibidem, pp. 10-11.
15. Cfr. G. Minervini, Mafia, le radici, la struttura, le connivenze, il
modello di sviluppo, le possibili risposte, in "Rocca", n. 6, 15 marzo 1992,
pp. 27-37; Idem (a cura di), Mafia e nonviolenza, in "Mosaico di pace", anno
III, n. 12, dicembre 1992, pp. 13-24. Il documento e' stato ripubblicato in
Osservatorio meridionale, Mafie e nonviolenza. Materiali di lavoro, Edizioni
la meridiana, Molfetta 1993.
16. G. Minervini (a cura di), op. cit., p. 14.
17. Ibid., p. 16.
18. Ibid., p. 18.
19. Ibid., p; 21.
20. Cfr. U. Santino, La mafia interpretata. Dilemmi, stereotipi, paradigmi,
Rubbettino, Soveria Mannelli 1995.
21. Cfr. U. Santino, Modello mafioso e globalizzazione, in M. A. Pirrone, S.
Vaccaro (a cura di), I crimini della globalizzazione, Asterios, Trieste
2002, pp. 81-110.
22. Cfr. U. Santino, Oltre la legalita'. Appunti per un programma di lavoro
in terra di mafie, Centro Impastato, Palermo 2002, pp. 53 ss.
23. Cfr. I. Fiore, Le radici inconsce dello psichismo mafioso, Franco
Angeli, Milano 1997.
(Parte seconda. Continua)

7. MATERIALI. PER UNA DEFINIZIONE CRITICA E PLURIDIMENSIONALE DELLA
NONVIOLENZA
[Il testo seguente, estratto da un piu' ampio documento del 2001, abbiamo
recentemente riprodotto ne "La domenica della nonviolenza" n. 5 del 23
gennaio 2005. Ci e' parso opportuno nuovamente riproporlo qui]

Il termine "nonviolenza", distinto dalla locuzione "non violenza"
La parola "nonviolenza" e' stata coniata dal filosofo ed educatore italiano
Aldo Capitini (1899-1968) e traduce i due termini creati da Mohandas Gandhi
(1869-1948) per definire la sua proposta teorico-pratica: "ahimsa" e
"satyagraha".
La parola "nonviolenza" designa un concetto del tutto distinto dalla
semplice locuzione "non violenza" o "non-violenza"; la locuzione "non
violenza" infatti indica la mera astensione dalla violenza (ed in quanto
tale puo' comprendere anche la passivita', la fuga, la rassegnazione, la
vilta', l'indifferenza, la complicita', l'omissione di soccorso); il
concetto di "nonviolenza" afferma invece l'opposizione alla violenza come
impegno attivo e affermazione di responsabilita'.
Infatti i due termini usati da Gandhi, che il termine capitiniano di
"nonviolenza" unifica e traduce, hanno un campo semantico ampio ma molto
forte e ben caratterizzato: "ahimsa" significa "contrario della violenza",
"negazione assoluta della violenza", quindi "opposizione alla violenza fino
alla radice di essa"; "satyagraha" significa "adesione al vero, contatto con
il bene, forza della verita', vicinanza all'essere, coesione essenziale".
*
La nonviolenza non e' un'ideologia
La "nonviolenza" quindi e' un concetto che indica la scelta e l'mpegno di un
intervento attivo contro la violenza, la sopraffazione, l'ingiustizia (non
solo quella dispiegata e flagrante, ma anche quella cristallizzata e
camuffata, quella acuta e quella cronica, quella immediata e quella
strutturale).
La nonviolenza non e' un'ideologia ne' una fede: ci si puo' accostare alla
nonviolenza a partire da diverse ideologie e da diverse fedi religiose e
naturalmente mantenendo quei convincimenti. Ad esempio nel corso dello
scorso secolo vi sono stati uomini e donne che si sono accostati alla
nonviolenza aderendo a fedi diverse: induista, cristiana, buddhista,
islamica, ebraica, altre ancora, o anche non aderendo ad alcuna fede.
Ugualmente vi sono stati uomini e donne che si sono accostati alla
nonviolenza aderendo a ideologie diverse: liberali, socialiste (nelle varie
articolazioni di questo concetto teorico e movimento storico), patriottiche,
internazionaliste, democratiche in senso lato.
*
La nonviolenza e' una teoria-prassi sperimentale e aperta
La nonviolenza infatti e' una teoria-prassi, ovvero un insieme di
riflessioni ed esperienze, creativa, sperimentale, aperta. Non dogmatica,
non autoritaria, ma che invita alla responsabilita' personale nel riflettere
e nell'agire.
*
La nonviolenza e' un concetto pluridimensionale
Molti equivoci intorno alla nonviolenza nascono dal fatto che essa e' un
concetto a molte dimensioni, cosicche' talvolta chi si appropria di una sola
di queste dimensioni qualifica la sua collocazione e il suo agire come
"nonviolenti", in realta' commettendo un errore e una mistificazione,
poiche' si da' nonviolenza solo nella compresenza delle varie sue dimensioni
(ovviamente, e' comunque positivo che soggetti diversi conoscano e accolgano
anche soltanto alcuni aspetti della nonviolenza, ma questo non li autorizza
a dichiarare di praticare la nonviolenza).
Proviamo a indicare alcune delle dimensioni fondamentali della nonviolenza:
- la nonviolenza e' un insieme di ragionamenti e valori morali;
- la nonviolenza e' un insieme di tecniche comunicative, relazionali,
deliberative, organizzative e di azione;
- la nonviolenza e' un insieme di strategie di intervento sociale e di
gestione dei conflitti;
- la nonviolenza e' un progetto sociale di convivenza affermatrice della
dignita' di tutti gli esseri umani;
- la nonviolenza e' un insieme di analisi e proposte logiche, psicologiche,
sociologiche, economiche, politiche ed antropologiche.
Come si vede, lo studio della nonviolenza implica la coscienza della
pluridimensionalita' di essa, delle sue articolazioni, delle sue
implicazioni.
Ed anche del fatto che essa implica saldezza sui principi ed insieme un
atteggamento ricettivo, critico, sperimentale, aperto; che non ha soluzioni
preconfezionate ma richiede ogni volta nella situazione concreta un
riflettere e un agire contestuale, critico e creativo.

8. TESTIMONIANZE. ANGELO CAVAGNA: TESTIMONIANZA AL PROCESSO PER IL BLOCCO
NONVIOLENTO DEL TRENO DELLA MORTE
[Riportiamo il testo della testimonianza di padre Angelo Cavagna al processo
di primo grado tenutosi a Verona il 27 gennaio 1997 per il blocco
nonviolento del "treno della morte" che recava armi per le stragi nel Golfo
Persico nel 1991. La sentenza di assoluzione delle persone amiche della
nonviolenza che il blocco nonviolento effettuarono, emessa allora dal
tribunale di Verona, ha ricevuto conferma definitiva, passando cosi' in
giudicato, con la sentenza della corte d'appello di Venezia del 24 febbraio
2005. Padre Angelo Cavagna (per contatti: gavci at iperbole.bologna.it) e'
religioso dehoniano, prete operaio, presidente del Gavci (gruppo di
volontariato con obiettori di coscienza), obiettore alle spese militari,
infaticabile promotore di inizative di pace e per la nonviolenza. Opere di
Angelo Cavagna: Per una prassi di pace, Edb, Bologna 1985; (a cura di, con
G. Mattai), Il disarmo e la pace, Edb, Bologna 1982; (a cura di), I
cristiani e l'obiezione di coscienza al servizio militare, Edb, Bologna
1992; I malintesi della missione, Emi, Bologna; (a cura di), I cristiani e
la pace, Edb, Bologna 1996]

Abolire la guerra
Il problema di questo processo e' di sapere se si deve condannare la guerra
e chi lavora per la guerra o se si deve condannare la pace e chi lavora per
la pace.
Sempre vi sono state prese di posizione morali, laiche e religiose, di
persone consapevoli e convinte dell'assurda criminalita' della guerra, dal
profesa Isaia a Cristo, a san Francesco d'Assisi, a Erasmo da Rotterdam, a
Tolstoj, a Gandhi e a tanti altri.
La guerra e' una tale somma di sofferenze e atrocita', fisiche e morali, che
non vi e' alcun motivo, ne' razionale, ne' tantomeno religioso, che possa
giustificarla. Anzi, il sistema di guerra e' giunto a tale punto di
perfezione, cioe' di orrore, che soltanto il perdurare di una follia morale
collettiva puo' spiegarne la residua credibilita'.
Il fatto che la guerra sia sempre esistita non significa nulla. Anche i
sacrifici umani, i giochi gladiatori e soprattutto la schiavitu' hanno
goduto di accettazione e legalita' millenarie. Ma l'umanita' e' giunta a
capirne la intrinseca nequizia e a bandirli per sempre. Se la guerra e'
ancora in qualche modo legalizzata, cio' si deve alla sua disumanita' piu'
radicata ed estesa: ma anche la sua immoralita' diviene sempre piu' palese e
intollerabile.
Allego a questa mia testimonianza un piccolo testo che esce proprio oggi:
Obiettori-eserciti-chiese. Un grido di rettifica morale.
*
Immoralita' e illegalita' della guerra del Golfo
Nel caso della guerra del Golfo, cui si riferisce il fatto contestato,
l'immoralita' e perfino l'illegalita' sono ancora piu' evidenti.
Saddam Hussein da tempo sterminava i curdi: io stesso partecipai a una
manifestazione in Piazza Maggiore a Bologna, per denunciare tale crimine,
cinque anni prima della guerra del Golfo: ma al tempo egli godeva della
complicita' dei governi occidentali, che andavano a gara ad armarlo: non era
dunque la moralita' ma il petrolio e il predominio politico sull'area che
interessavano loro.
Inoltre, e' stata violata la Costituzione italiana (art. 11), che vieta di
risolvere con la guerra le controversie internazionali. Si disse che era
un'azione di polizia internazionale: ma, perche' sia tale, non basta
cambiare il nome all'esercito, occorre trasformarlo radicalmente, per
struttura e formazione, in corpo di polizia internazionale, come dice
esattamente il nuovo Catechismo degli adulti della Conferenza Episcopale
Italiana (La verita' vi fara' liberi), pubblicato nel maggio 1995, al
capitolo ventiseesimo.
L'immoralita' indubitabile della guerra del Golfo e' dimostrata da altri due
fattori: l'informazione limitata sul teatro di guerra e la presenza di
almeno mille bombe atomiche sulle navi americane pronte all'uso (si veda il
"Corriere della Sera" di quei giorni). Il che, dice il Concilio Vaticano II
nella Gaudium et Spes, e' "delitto contro Dio e contro la stessa umanita' e
con fermezza e senza esitazione deve essere condannato" (n. 80/1601).
Di fronte a tale immoralita', persone moralmente sveglie e lucide, non solo
possono, ma debbono opporsi con metodi ragionevoli e degni di una civilta',
come quelli nonviolenti.
Purtroppo, il sistema di guerra continua il suo progresso a rovescio.
Occorre, dal punto di vista umano e cristiano, una condanna chiara e
definitiva della guerra e del sistema di guerra, non di chi lavora e lotta
innocuamente per la pace.

9. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.

10. PER SAPERNE DI PIU'
* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per
contatti: azionenonviolenta at sis.it
* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia:
www.peacelink.it/users/mir; per contatti: mir at peacelink.it, sudest at iol.it,
paolocand at inwind.it
* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per
contatti: info at peacelink.it

LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 855 del primo marzo 2005

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