La nonviolenza e' in cammino. 815



LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 815 del 20 gennaio 2005

Sommario di questo numero:
1. La nonviolenza, un'idea nata in Africa
2. Dorothee Markert, Antje Schrupp: Con voce alta
3. Francesco Pistolato: La virtu' nascosta. Eroi sconosciuti e dittatura in
Austria 1938-1945
4. Bruno Segre: Per non dimenticare la Shoah (parte decima)
5. Enrico Peyretti: Lo stupro della casa
6. L'indice de "Il principio nonviolenza" di Jean-Marie Muller
7. Letture: AA. VV., Un'eredita' senza testamento
8. La "Carta" del Movimento Nonviolento
9. Per saperne di piu'

1. EDITORIALE. LA NONVIOLENZA, UN'IDEA NATA IN AFRICA
[Riproponiamo questo articolo gia' apparso (in una versione lievemente
abbreviata) sulla bellissima rivista "Adesso sulla strada", n. 33, autunno
2004, fascicolo monografico sull'Africa (per contatti e richieste: e-mail:
adesso at reteblu.org e anche sullastrada at iol.it, sito:
www.reteblu.org/adesso). Chi ha scritto questo articolo in anni ormai
lontani coordino' per l'Italia la campagna di solidarieta' con Nelson
Mandela, allora detenuto nelle prigioni del regime razzista sudafricano]

La nonviolenza e' nata in Sudafrica.
E' in Sudafrica che Mohandas Gandhi scopre la nonviolenza, le si accosta, la
elabora, la mette in atto: fa di essa la teoria e la prassi che possono
salvare l'umanita' intera dalla catastrofe.
Dal Sudafrica all'India Gandhi svolge e sperimenta e propone e lascia in
eredita' all'umanita' intera non solo una modalita' di lotta, non solo uno
strumento conoscitivo, non solo un acquisto ermeneutico ed assiologico, ma
una scelta di vita, e un progetto di solidarieta' e di liberazione, l'unico
che possa sconfiggere la violenza, l'unico che possa inverare l'umanita' di
tutti e di ciascuno, l'unico che adempia alla speranza di Leopardi:
un'umanita' unita contro il male e la morte; l'unico che realizzi quel
"sogno di una cosa" che fu di Diotima e di Gesu', e di infinite altre ed
altri.
Ahimsa: restituzione di umanita' nell'opposizione alla violenza; satyagraha:
attaccamento alla verita' come forza coesiva e salvifica, forza dell'amore.
Dal Sudafrica, all'India, al mondo intero.
*
Ed e' in Sudafrica che la nonviolenza ispira, guida e porta alla vittoria la
piu' grande lotta di liberazione contro la piu' infame e crudele delle
violenze, la violenza che nega la dignita' umana di ogni essere umano, il
razzismo eretto a regime.
Nel paese della piu' feroce oppressione razzista, proprio qui la nonviolenza
ha ottenuto la piu' luminosa vittoria della dignita' umana, sconfiggendo il
regime razzista dell'apartheid con la forza della verita', della
solidarieta' umana, del riconoscimento di umanita, con la coerenza tra mezzi
e fini, con la resistenza piu' intransigente che e' ad un tempo incessante
impegno di riconciliazione, con la lotta contro l'ingiustizia per la
liberazione, il riscatto, dell'umanita' intera.
E' la lotta dell'African National Congress guidato da figure come Albert
Luthuli, uno dei grandi maestri della nonviolenza, insignito del premio
Nobel per la pace nel 1960; e come Nelson Mandela,  insignito del premio
Nobel per la pace nel 1993, che per decenni resiste dal carcere per
affermare la dignita' dell'umanita' intera, fino ad abbattere il regime
della segregazione, fino a portare il Sudafrica alla democrazia, ottenendo
anche il miracolo politico che il dolore degli oppressi non degeneri in
collera e vendetta e nuova oppressione, ottenendo il miracolo politico di
realizzare quel programma di civile convivenza, di comune liberta', di
dignita' a tutti riconosciuta, che aveva enunciato nel suo storico discorso
al processo di Rivonia. Lo stesso Nelson Mandela che si battera'
vittoriosamente contro le multinazionali farmaceutiche per il diritto di
tutti gli esseri umani alla vita e alla salute.
E' la lotta di Desmond Tutu, il vescovo anglicano premio Nobel per la pace,
che forte del suo prestigio di intransigente lottatore nonviolento contro il
regime razzista, dopo la vittoria della democrazia presiedera' ed animera' e
sara' saldo garante di quella straordinaria esperienza di introduzione della
nonviolenza finanche nell'ambito della legislazione e della giurisdizione
penale che e' stata la Commissione per la verita' e la riconciliazione.
E' la lotta di Nadine Gordimer, scrittrice insigne, premio Nobel per la
letteratura, che contro il razzismo (e il maschilismo, e ogni forma di
discriminazione e sopraffazione e sfruttamento e violenza) ha lottato
anche - per usare una formula pasoliniana - "con le armi della poesia".
E' la lotta di Miriam Makeba, profonda e limpida voce dell'Africa e
dell'umanita', musicista che alla musica restituisce il suo fulgido e denso
significato etimologico.
E' la lotta di un popolo intero che con la forza della nonviolenza ha
sconfitto la vergogna dell'umanita'; la lotta di persone indimenticabili
come Steve Biko, Ruth First, Benny Nato, e di innumerevoli altre ed altri.
*
Ma non solo. In Sudafrica la nonviolenza non ha sconfitto solo il regime
razzista, ha anche saputo curare ferite, ha contrastato l'odio, ha costruito
riconciliazione, ha cambiato la stessa legislazione donando alla democrazia
una piu' ferma consapevolezza, un piu' acuto sguardo, un consistere piu'
autentico.
L'esperienza della Commissione per la verita' e la riconciliazione e' oggi
il punto piu' avanzato della riflessione giuridica in campo penale a livello
internazionale: ha dimostrato che la cruda logica del restituire male per
male puo' essere rovesciata, ha inverato quel principio giuridico che da
Beccaria in poi e' la gloria della civilta' del diritto, e uno dei vettori
del progredire delle istituzioni e dei costumi, del concreto inveramento
dell'umanita' nella storia.
*
La nonviolenza, nata in Sudafrica, in Sudafrica ha sperimentato e sta
sperimentando, nel vivo di contraddizioni e conflitti, le piu' avanzate
frontiere della convivenza, ed alla speranza apre vie nuove ed antiche,
antiche come le montagne.
Anche per questo l'Africa oggi testimonia non solo il nostro tragico
presente, ma il nostro unico possibile futuro.
Poiche' questo ormai sappiamo, e lo sappiamo una volta per sempre: la lotta
per la dignita' umana di tutti gli esseri umani, la lotta per la difesa
della biosfera, la lotta della vita contro la morte, o sara' nonviolenta o
non sara'.
*
Per saperne di piu'
Per un accostamento a Mohandas Gandhi il miglior libro disponibile in
italiano e' l'antologia a cura di Giuliano Pontara, Teoria e pratica della
nonviolenza, Einaudi, Torino 1973, 1996.
Sulla lotta antiapartheid si veda almeno il libro autobiografico di Nelson
Mandela, Lungo camino verso la liberta', Feltrinelli, Milano 1995.
Un breve profilo di Albert Luthuli è nel libro di Eugenio Melandri, I
protagonisti, Emi, Bologna 1984.
Di Desmond Tutu si veda almeno Anch'io ho il diritto di esistere,
Queriniana, Brescia 1985; il fondamentale Non c'e' futuro senza perdono,
Feltrinelli, Milano 2001; e il recentissimo Anche Dio ha un sogno, L'ancora
del Mediterraneo, Napoli 2004.
Per un avvio alla conoscenza di Nadine Gordimer, Vivere nell'interregno,
Feltrinelli, Milano 1990.
Sull'esperienza della Commissione per la verita' e la riconciliazione cfr.
almeno Marcello Flores (a cura di), Verita' senza vendetta, Manifestolibri,
Roma 1999; Antonello Nociti, Guarire dall'odio, Angeli, Milano 2000; Danilo
Franchi, Laura Miani (a cura di), La verita' non ha colore, Comedit 2000,
Milano 2002, 2003, e il libro di Desmond Tutu, Non c'e' futuro senza
perdono, citato sopra.

2. RIFLESSIONE. DOROTHEE MARKERT, ANTJE SCHRUPP: CON VOCE ALTA
[Da "Via Dogana" n. 70 del settembre 2004, fascicolo monografico sul tema
"Non c'e' archivio per quelle immagini" (e sono le immagini delle torture di
Abu Ghraib) riprendiamo questo articolo di Dorothee Markert e Antje Schrupp.
Nei prossimi giorni riproporremo altri materiali estratti da questo e dal
precedente fascicolo di "Via Dogana". Ringraziamo le amiche della Libreria
delle donne di Milano per averci messo a disposizione questi testi che
contengono riflessioni che sentiamo decisive. Per richiedere "Via Dogana"
(rivista la cui lettura vivamente raccomandiamo) e per contattare la
Libreria delle donne di Milano: e-mail: info at libreriadelledonne.it, sito:
www.libreriadelledonne.it.. Dorothee Markert vive e lavora a Friburgo in
Germania. Scrive come autrice free lance, traduce e fa consulenze
pedagogiche. Antje Schrupp, politologa e giornalista, vive a Francoforte sul
Meno. Tutte e due si occupano di filosofia e politica delle donne, e da
molti anni hanno un rapporto di scambio con la comunita' filosofica Diotima,
di cui hanno tradotto alcuni testi. Insieme ad altre hanno pubblicato nel
1999 il documento "Amore di liberta', fame di senso". Nel gruppo "Creare
cultura" attualmente riflettono su come portare il pensiero della differenza
nel lavoro, anche in dialogo con gli uomini]

Le immagini della soldatessa Lynndie England che tortura dei prigionieri
iracheni, in Germania non hanno suscitato dibattiti sull'essere donna, e
questo, secondo noi, e' dovuto al fatto che qui si continua a identificare
il movimento delle donne con il femminismo della parita', per cui le donne
avrebbero lo stesso diritto degli uomini di essere cattive. Quindi le
immagini delle torture sembravano semplicemente un'ulteriore conferma di
cio' che in Germania non e' solo l'opinione della popolazione ma anche
quella del governo (e di conseguenza dei massmedia mainstream): che la
guerra in Iraq era sbagliata.
Ma anche noi non eravamo rimaste particolarmente turbate da queste immagini.
Ci ricordavano le immagini ultraconosciute delle kapo' nei campi di
sterminio nazisti. Almeno dai tempi del nazismo si sa che i sistemi
totalitari, e ancora di piu' quelli militari, spingono persone normalissime
a fare cose orrende. Che novita' sarebbe allora se alcune donne che hanno il
potere su altri/e, li trattano in modo disumano e crudele? Persino qualche
madre e qualche insegnante lo fa, anche se Lynndie England e' ovviamente un
caso estremo.
*
Qualcosa di nuovo c'e', pero', l'abbiamo capito quando ci e' arrivato
l'invito a scrivere un testo per "Via Dogana". Dobbiamo chiederci, infatti,
se dopo trent'anni di movimento delle donne non abbiamo una responsabilita'
diversa per fatti di questo tipo; se non e' anche la conseguenza di un certo
femminismo se le donne fanno le soldatesse e partecipano attivamente alle
torture. Gia' negli anni '80, infatti, Alice Schwarzer, la femminista piu'
famosa in Germania, lancio' la parola d'ordine "donne alle armi", perche'
l'esercito offrirebbe tante buone occasioni di lavoro, e diffido' le donne
dall'essere troppo pacifiste. Basti pensare anche all'idealizzazione di
ragazze "irriverenti" e spesso cattive nella letteratura infantile
"emancipatoria" negli anni '70 e '80. Oppure a bestseller come Le brave
ragazze vanno in paradiso, le cattive dappertutto, che elogiavano
comportamenti criminali anche per donne adulte, per raggiungere la parita'
con gli uomini.
Certo, noi - cioe' femministe che praticano una politica di relazioni tra
donne - da molto tempo abbiamo preso le distanze da questo tipo di
femminismo. Ma capita raramente che apriamo questo conflitto a voce alta e
pubblicamente. Finora abbiamo giustificato questa reticenza dicendo che
volevamo valorizzare a priori qualsiasi impegno di donne per la liberta'
femminile, che non volevamo colpire alle spalle altre donne in pubblico.
Anche adesso non abbiamo fatto nessuna obiezione a voce alta quando Alice
Schwarzer sulla sua rivista "Emma" ha interpretato le soldatesse
torturatrici come oggetti di una messa in scena pornografica, come
sottomesse al dominio degli uomini del loro entourage. In questo modo viene
negata - come ai tempi del patriarcato - la loro capacita' di agire sotto la
propria responsabilita'.
Eppure noi avremmo sicuramente delle risposte da dare, non per ultimo grazie
a tanti spunti di riflessione da parte del femminismo italiano. Noi sappiamo
che l'essere donna non e' un contenuto, magari dovuto a fattori naturali o
biologici o educativi. Ma sappiamo anche che liberta' non significa affatto
autonomia, che la liberta' nasce dalle relazioni tra donne, che si tratta di
significare il proprio essere donna e di dargli un senso. E quindi la
questione non e' che cosa esprimono le soldatesse torturatrici sulla
femminilita' o su una immaginaria "identita'" femminile, bensi' se noi, che
siamo donne, riusciamo a trovare risposte migliori al caos dei nostri tempi
(si tratta, appunto, di una questione aperta).
*
Nel gruppo "Creare cultura" abbiamo elaborato, nel marzo scorso, l'idea che
l'agire delle donne in un mondo tradizionalmente strutturato e interpretato
al maschile puo' essere letto come un dialogo interculturale. La cultura
femminile ci e' data, ci troviamo dentro di essa al momento della nostra
nascita. E' un dato di fatto che ne facciamo parte, ed e' proprio per questo
motivo che la possiamo cambiare: solo chi e' certo della propria
appartenenza a una cultura puo' superarne i limiti. Una donna che agisce
diversamente da quello che la maggioranza delle donne ritiene giusto (come
fa per esempio Lynndie England) non mette quindi in questione la cultura
femminile in quanto tale oppure magari una "identita'" femminile
immaginaria, ma trasforma la cultura femminile - talvolta in meglio,
talvolta in peggio. Ora noi possiamo assumerci la responsabilita' di dare
forma alla cultura femminile oggi, decidere che cosa vogliamo conservare,
che cosa vogliamo cambiare - e a questo punto dobbiamo anche opporci con
decisione, appunto, a certi tentativi di trasformazione.
E questo avviene in altre condizioni rispetto a quelle delle nostre madri e
nonne. Viviamo in una societa' dalle molteplici culture. Le "sfere separate"
di una volta si sono dissolte quasi del tutto, anche per quanto riguarda i
due sessi: vediamo uomini che spingono la carrozzina ai giardinetti e donne
nell'esercito. Tutte le esperienze multiculturali hanno dimostrato pero' che
l'immagine del grande calderone dove tutto si mescola non funziona. Invece
il contatto ravvicinato tra culture diverse comporta facilmente un
atteggiamento di chiusura, un ritorno a quello che si crede "proprio" (e
questo spiega anche l'attuale rinascita del biologismo, idea che seduce
molte donne). Contrastare questo pericolo e' un compito importante del
movimento delle donne oggi. Invece di trincerarsi dietro il fantasma di una
propria identita' occorre confrontarsi con altre culture con apertura,
interesse e soprattutto rispetto - anche con la cultura degli uomini. Questo
non significa, pero', che le donne si misurino (come nel pensiero
dell'uguaglianza) con la misura degli uomini, bensi' che facciano uno sforzo
di mediazione, cioe' un lavoro di traduzione verso il proprio sentire che e'
segnato dalla propria "cultura", in modo da rendere intelligibile e quindi
giudicabile tutto cio' che vedono nell'altra cultura. Questo presuppone il
sapere che non tutto cio' che e' scontato nella mia cultura valga anche
nell'altra cultura e viceversa.
*
L'attenzione verso l'altro, la pratica delle relazioni, il valorizzare la
differenza, il sapere della natalita' e il riferimento consapevole
all'intreccio delle relazioni umane (Hannah Arendt) sono spunti che offrono
risposte per le questioni politiche attuali. Dovremmo fare piu' sforzi, in
futuro, per portare questo sapere nel mondo.
Questo significa, in termini concreti, che dobbiamo condurre in modo piu'
attivo rispetto a prima il "dialogo culturale" con gli uomini, e anche con
le donne che non si sentono o non vogliono (piu') sentirsi appartenenti alla
cultura femminile. E dobbiamo polemizzare a voce alta con le donne fautrici
di una cultura femminile che preferisce la partecipazione ai privilegi
maschili a un mondo buono per tutti gli esseri umani. Quindi dobbiamo
sciogliere le solidarieta' sbagliate e intrecciare nuove coalizioni.
Bastera' questo per tirare fuori il mondo dal caos attuale? Non lo sappiamo.
Ma se partiamo dall'idea che noi siamo corresponsabili per come si presenta
la nostra cultura femminile, come le donne si presentano nel mondo e come
altre donne ne parlano, allora tutto cio' che sembrava lontanissimo e che ci
faceva sentire impotenti, improvvisamente sembra di nuovo a portata di mano.
Solo se cominciamo un dialogo pubblico sulla responsabilita' di donne e
uomini per il mondo saremo mature/i politicamente e potremo lavorare per un
ordine nuovo postpatriarcale.

3. MOSTRE. FRANCESCO PISTOLATO: LA VIRTU' NASCOSTA. EROI SCONOSCIUTI E
DITTATURA IN AUSTRIA 1938-1945
[Ringraziamo Francesco Pistolato (per contatti: fpistolato at yahoo.it) per
questo intervento. Francesco Pistolato lavora all'Universita' di Udine, e'
tra gli animatore dell'Associazione Biblioteca Austriaca di Udine, e'
impegnato nella promozione della cultura della pace]

L'Austria e' uno di quei paesi - certo non l'unico - in cui i conti con il
passato non sono mai stati veramente fatti. Nel 1986, quando scoppio'
l'affare Waldheim - il presidente della Repubblica austriaca, gia'
segretario dell'Onu, che ritenne di poter negare contro ogni evidenza il suo
passato di ufficiale dell'esercito nazista - fu come estrarre gli scheletri
dall'armadio. Dalla fine della guerra infatti, l'Austria, con il consenso
degli Alleati, era stata considerata la prima vittima dell'aggressione
nazista. Ci si era dimenticati - volutamente, perche' per varie ragioni si
era trovato piu' conveniente fare cosi' - del ruolo cospicuo che gli
austriaci avevano svolto all'interno del partito e dell'esercito nazista
dopo l'annessione alla Germania, avvenuta nel marzo 1938. La questione e'
tornata d'attualita' nel 2000 con l'ingresso di Haider nel governo, che ha
scatenato le ben note reazioni internazionali, ma anche indotto ad una
approfondita riflessione politica all'interno del paese.
Accanto e direttamente in contrasto con queste pesanti ombre, vi sono e vi
sono state persone e istituzioni austriache di tutt'altra pasta. Si pensi a
Thomas Bernhard, autore tanto grande quanto odiato in patria - almeno in
vita - proprio perche' denunciava l'aspetto peggiore dell'animo austriaco, a
Simon Wiesenthal e al suo centro di documentazione viennese sui criminali
nazisti.
*
Meno noto, ma molto importante e' l'Archivio della Resistenza Austriaca, il
D÷W (Dokumentationsarchiv des oesterreichischen Widerstands), anch'esso di
Vienna. Dalla sua ricchissima raccolta di materiale fotografico,
l'Associazione Biblioteca Austriaca di Udine, che dal 1993 si occupa della
diffusione in Friuli-Venezia Giulia della cultura dell'Austria, ha
selezionato, con la consulenza del prof. Karl Stuhlpfarrer dell'Universita'
di Klagenfurt e della dott.ssa Ursula Schwarz del D÷W, 44 immagini, che
insieme a 10 pannelli (18 nel caso l'esposizione sia bilingue, in italiano e
in tedesco) compongono la mostra dal titolo "La virtu' nascosta. Eroi
sconosciuti e dittatura in Austria 1938-1945".
Nata nel 2002, l'esposizione e' stata finora esibita a Udine, Milano,
Gorizia, Trieste (Risiera di S. Sabba), Ferrara, Vicenza, Fagagna (Ud),
Treppo Carnico (Ud). Nell'autunno 2005 essa andra' a Berlino, presso la
Gedenkstaette des Deutschen Widerstands, il luogo ove venne organizzato
l'attentato a Hitler del luglio del 1944, che e' ora un archivio e un museo
della Resistenza al nazismo.
L'idea della mostra nasce dalla volonta' di ricordare i non moltissimi
austriaci che, nel periodo peggiore della storia recente, trovarono il
coraggio di opporsi alla barbarie. Sono loro che - al di la' di una retorica
di cui ci eravamo dimenticati, e tornata di recente prepotentemente in voga
a livello internazionale - piu' di tutti meritano di essere considerati
padri della patria e uomini di pace. La democrazia austriaca del dopoguerra,
e addirittura la recuperata autonomia dell'Austria - dopo essere stata
inghiottita dalla Germania nel 1938 - si devono in misura finora
misconosciuta a questi pochi coraggiosi. Chi si oppose al nazismo sostenne
nei fatti che la liberta', la democrazia e la pacifica convivenza sono
valori non sacrificabili al proprio comodo personale, e nemmeno alla propria
incolumita'. Quando, nella fase in cui l'esito della guerra appariva chiaro,
gli alleati cominciarono a pensare ad un nuovo assetto dell'Europa, non era
affatto scontato che all'Austria sarebbe stata restituita l'indipendenza, e
non invece inglobata in una nuova entita' politica. L'attivita' degli
esiliati, e in particolare delle loro organizzazioni, ebbe il grande merito
di mantenere aperta la "questione austriaca", l'idea cioe' che dopo il
nazismo dovesse tornare a esistere una nazione austriaca.
*
La mostra "La virtu' nascosta" e' suddivisa in sei sezioni, che, muovendo
dall'Anschluss, dall'annessione dell'Austria da parte della Germania
hitleriana del marzo 1938, avvenuta in un tripudio di folla, presentano i
principali gruppi di oppositori: civili di varia estrazione, sloveni
carinziani, militari, esiliati. Tra i "civili" e' stata inclusa anche una
terziaria francescana, suor M. Restituta (Helene Kafka), beatificata nel
1998, condannata a morte e giustiziata a Vienna per aver diffuso
nell'ospedale in cui lavorava una poesia pacifista e a favore
dell'indipendenza dell'Austria. La sua presenza e' tanto piu' significativa,
se si considera l'atteggiamento ufficiale della Chiesa cattolica austriaca,
tendente inizialmente alla ricerca di un modus vivendi con Hitler, e
successivamente responsabile di una politica di sostanziale pavido assenso -
con alcune riserve - del regime. Vi sono poi anche Katharina Golob,
diciottenne di Villacco unitasi ai partigiani e caduta nel 1945; Roman
Felleis, membro degli RS (Socialisti Rivoluzionari), che mori' nel campo di
concentramento di Buchenwald; Hermine Lohninger, maestra elementare e membro
dell'associazione degli insegnanti cattolici che, avendo espresso piu' volte
in pubblico i propri sentimenti antinazisti, fu condannata a morte per
"affermazioni distruttive per l'esercito"; Karl Biedermann, ufficiale di
stato maggiore, tra gli organizzatori della rivolta di Vienna dell'aprile
1945, impiccato a Florisdorf am Spitz (Vienna) ed esposto al pubblico
disprezzo, e vari altri, in rappresentanza di tutti coloro che sentirono
l'obbligo morale di tenere alta una bandiera che la maggioranza aveva
gettato alle ortiche.
La mostra si chiude con un passaggio tratto dall'ultima lettera alla
famiglia di un insegnante di Graz condannato a morte per "organizzazione di
alto tradimento", Richard Zach, le cui parole e il cui sacrificio
costituiscono un modello di spirito politico e religioso, ambedue vissuti
fino in fondo: "E' arrivato il momento, miei cari, di tacere. Ma non pensate
che questo silenzio sia di tomba, una quiete gelida e soffocante. No, nel
silenzio vi e' un suono profondo e saggio, veramente divino. Ascoltatelo,
non dissacratelo con il vostro pianto. Udite il divino come lo odo io,
mentre mi ritiro da voi. Aprite gli occhi completamente e osservatemi mentre
entro nel chiarore, osservate finche' i vostri occhi traboccheranno di
gioia, e io non saro' altro che luce per voi, un bagliore, simile ad una
scintilla che repentinamente doveva spegnersi, per divenire in eterno parte
della Luce".
La mostra e' visitabile virtualmente in:
www.abaudine.org/virtunascosta/virtu.htm

4. MEMORIA. BRUNO SEGRE: PER NON DIMENTICARE LA SHOAH (PARTE DECIMA)
[Ringraziamo di cuore Bruno Segre (per contatti: bsegre at yahoo.it) per averci
permesso di riprodurre sul nostro foglio ampi stralci dal suo utilissimo
libro Shoah, Il Saggiatore, Milano 2003, la cui lettura vivamente
raccomandiamo. Riportando alcuni passi di esso abbiamo omesso tutte le note,
ricchissime di informazioni e preziose di riflessioni, per le quali
ovviamente rinviamo chi legge al testo integrale edito a stampa. Bruno
Segre, storico e saggista, e' nato a Lucerna nel 1930, si e' occupato di
sociologia della cooperazione e di educazione degli adulti nell'ambito del
Movimento Comunita' fondato da Adriano Olivetti; ha fatto parte del
Consiglio del "Centro di documentazione ebraica contemporanea" di Milano;
dal 1991 presiede l'Associazione italiana "Amici di Neve' Shalom / Wahat
al-Salam"; dirige la prestigiosa rivista di vita e cultura ebraica "Keshet"
(e-mail: segreteria at keshet.it, sito: www.keshet.it). Tra le opere di Bruno
Segre: Gli Ebrei in Italia, Giuntina, Firenze 2001; Shoah, Il Saggiatore,
Milano 1998, 2003]

L'amnesia della Shoah
Nel periodo tra la presa del potere da parte di Hitler nel 1933 e la fine
del 1940, anno in cui unita' delle SS e della Wehrmacht iniziarono a
spostare masse di ebrei da varie regioni europee nei territori polacchi
recentemente occupati, gli ebrei assassinati dai nazisti furono poco meno di
centomila (secondo calcoli del politologo americano Raul Hilberg). Nel 1941,
a seguito della ghettizzazione, dei massacri periodici in Polonia e degli
assalti omicidi delle Einsatzgruppen e di altre unita' militari nei
territori occupati dell'Unione Sovietica, il numero delle vittime aumento'
vertiginosamente raggiungendo un milione e centomila morti. Ma l'anno in cui
la strage raggiunse il picco piu' elevato fu il 1942: circa due milioni e
settecentomila morti. Dopo la conferenza di Wannsee (gennaio 1942), venne
avviata in marzo la Aktion Reinhard, coordinata dal generale Odilo
Globocnik, comandante delle SS e della polizia del distretto di Lublino
(uomo mostruosamente crudele e venale, uno dei peggiori in assoluto fra i
criminali nazisti, morto suicida il 6 giugno 1945 al momento d'essere
arrestato da una pattuglia britannica in Carinzia), mentre nel corso
dell'estate cominciarono a viaggiare treni che da est e da ovest
trasportavano gli ebrei verso i campi di sterminio allestiti appositamente
in Polonia. Nel 1943 il numero delle vittime scese a cinquecentomila. Il
grande serbatoio polacco dell'ebraismo est-europeo era ormai praticamente
svuotato. Dopo d'allora, per procurarsi nuovi ebrei da deportare la
burocrazia nazista dovette estendere i suoi tentacoli altrove, nei paesi
dell'Europa centrale, meridionale e occidentale.
Allo sterminio degli ebrei d'Europa diedero un notevole contributo molti non
tedeschi: poliziotti e burocrati locali, persone disposte non solo a
manovrare i treni e a fare la guardia ai campi, ma anche a dare la caccia
agli ebrei privandoli dei loro beni e a sbrigare il notevole lavoro cartaceo
legato alle deportazioni. Nel novero dei collaborazionisti non mancarono i
"Hiwi", cioe' i membri di diverse formazioni di ausiliari dell'Europa
orientale che operavano a fianco dei nazisti e sotto la loro supervisione.
Fra questi ausiliari, si segnalarono per particolare efferatezza i
cosiddetti "trawniki", cioe' quei prigionieri di guerra ucraini che,
offertisi volontari al servizio delle SS e della polizia, furono inviati in
un campo di addestramento a Trawniki, nel distretto di Lublino. Qui,
acquisite le competenze necessarie per fungere da guardie dei ghetti e dei
campi di concentramento del "Governatorato generale", contribuirono alle
deportazioni e alle fucilazioni in massa e costituirono la componente
principale delle forze di sorveglianza nei campi di sterminio di Chelmno,
Treblinka, Belzec e Sobibor, dove (secondo le stime ufficiali polacche, che
probabilmente peccano per difetto) entro l'ottobre 1943 vennero eliminati
due milioni di ebrei e cinquantaduemila zingari. I nazisti trovarono
collaboratori zelanti anche in Lituania, in Lettonia, nelle diverse regioni
conquistate dell'Unione Sovietica, in altri paesi dell'Europa centrale e
orientale, e anche nell'Europa occidentale, segnatamente in Francia e in
Italia.
*
Nei vasti territori dell'Europa dell'est occupati dai nazisti, l'opinione
pubblica era pesantemente condizionata da tradizioni antiebraiche che
risalivano molto addietro nel tempo. Prima dell'inizio della seconda guerra
mondiale, gli ebrei che vivevano negli Stati indipendenti compresi tra la
Germania e l'Unione Sovietica erano circa quattro milioni e mezzo:
costituivano cioe' minoranze importanti. In Polonia, per esempio, erano il
10 per cento circa dell'intera popolazione. Attorno al 1939, secondo Ezra
Mendelsohn, autore del migliore studio sulla vita ebraica in queste regioni
tra le due guerre, gli ebrei erano minacciati da una grave crisi: la base
economica della loro esistenza, tradizionalmente legata a determinate
funzioni e attivita' professionali, appariva molto indebolita; i governi
andavano moltiplicando a loro carico le interdizioni; ampi settori del mondo
politico li incalzavano con attacchi aspri, tesi a ostacolare o a rallentare
la loro integrazione sociale. Naturalmente, tra Stato e Stato si
registravano differenze rilevanti: mentre in Jugoslavia e nei paesi baltici
l'antisemitismo era abbastanza blando, le grandi comunita' ebraiche
concentrate in Polonia, Romania e Ungheria vivevano in condizioni molto piu'
difficili.
Quando questi paesi caddero sotto il dominio nazista, le tensioni del
periodo prebellico si esacerbarono. I nazisti facevano di tutto per creare,
mediante i ghetti, barriere fisiche e morali che riducessero al minimo le
comunicazioni tra ebrei e non ebrei. Come reagirono allora le varie
popolazioni alla persecuzione e ai massacri messi in atto dai nazisti?
E', questo, un punto delicatissimo, sul quale s'e' sviluppato per decenni
fra gli storici un dibattito acceso, concentrato soprattutto sulla Polonia
dove viveva la comunita' ebraica piu' numerosa e dove i nazisti avevano
stabilito le sedi dello sterminio. Gli storici polacchi ebbero spesso a
negare che nella societa' del loro paese vi fosse, durante la Shoah, una
rilevante ostilita' popolare. Per contro gli studiosi di parte ebraica, pur
proponendo un ventaglio di valutazioni diverse, si sono generalmente trovati
d'accordo nel sostenere che gli ebrei, mai completamente accettati quale
parte integrante della nazione polacca, affrontarono lo sterminio nella
diffusa indifferenza della popolazione: intere comunita' ebraiche sradicate
e avviate al macello senza che la quiete dei villaggi polacchi fosse in
alcun modo turbata dalla tragedia. "Una indifferenza", osserva Francesco M.
Cataluccio, "che ha mille motivazioni, ma che rimane, tutto sommato, ancor
oggi inspiegabile. Non si tratta soltanto di antisemitismo, (...) ma di
qualcosa di molto piu' profondo e oscuro. Qualcosa che per molti anni e'
rimasto in ombra".
Questo "qualcosa che per molti anni e' rimasto in ombra", se per un verso
chiama direttamente in causa l'antico retaggio dell'antigiudaismo polacco di
matrice cattolica, per un altro fa riferimento anche al particolare
atteggiamento che i regimi comunisti subentrati dopo il 1945 nell'Europa
orientale assunsero verso gli ebrei e verso le memorie della Shoah: un
atteggiamento di profonda rimozione, come parte del tentativo di dissolvere
la questione ebraica nel mito della creazione dell'"uomo nuovo".
E' questo uno dei temi, fra gli altri, che Gabriele Eschenazi e Gabriele
Nissim hanno affrontato in Ebrei invisibili. I sopravvissuti dell'Europa
orientale dal comunismo a oggi: un testo che, ricostruendo per la prima
volta la trama delle vicende ebraiche nell'"altra Europa", ha il pregio di
analizzare la dinamica ebrei-comunismo senza mai perdere di vista il
retroterra dello sterminio nazista.
Per quanto concerne specificamente la Polonia, come s'e' gia' detto, prima
del 1939 un polacco su dieci era ebreo. Ancor oggi, nella memoria ebraica la
Polonia rievoca lo Yiddishland e tutto cio' che vi e' legato: lingua,
pratica religiosa, shtetl. Per molto tempo il mondo degli ebrei polacchi
costitui' un faro della cultura ebraica. Terra di accoglienza degli esiliati
sin dal IX secolo, il paese fu la culla di alcune delle grandi correnti
dell'ebraismo in Europa. Varia e intensa vi si presentava la vita degli
ebrei prima che Hitler facesse della Polonia il fulcro del genocidio. Fino
ad allora, il paese contava la  comunita' ebraica quantitativamente piu'
cospicua nel mondo, persino piu' numerosa di quella dell'Urss. Dei 3.250.000
ebrei polacchi del periodo precedente la guerra, nel 1945 ne erano
sopravvissuti solo 250.000, dei quali 150.000 rimpatriati dall'Urss nel
1946. Questo trauma orrendo, senza precedenti - riacutizzato da una serie di
pogrom di cui furono vittime i sopravvissuti, come quello abietto,
inammissibile di Kielce il 4 luglio 1946 - indusse molti ebrei, dopo la
guerra, a fuggire dal paese,  trasformato ormai in un gigantesco cimitero.
Sotto il regime comunista, diverse ondate di antisemitismo, in particolare
nel 1968-1969, finirono con l'annientare in Polonia ogni parvenza di vita
ebraica. (A seconda delle stime, si calcola che nel 1999 vivessero nel paese
tra i duemila e i quindicimila ebrei).
*
Piu' in generale, i regimi comunisti dei vari paesi est-europei non ebbero
mai, verso i pochi ebrei rimasti nei loro territori dopo la Shoah, un
atteggiamento univoco e costante bensi' passarono, piuttosto, da momenti di
"normalita'" ad altri in cui l'antisemitismo, dietro la maschera
dell'antisionismo, si dimostrava in perfetta sintonia con l'ideologia
comunista. Sul tema specifico del genocidio nazista, la censura impedi' per
anni la nascita di una pubblicistica che si discostasse dallo schema
propagandistico imposto dal potere. Innegabilmente, in Polonia la guerra di
Hitler aveva provocato tra i cittadini cattolici un numero di vittime pari a
quello registrato presso gli ebrei: tre milioni di morti per ciascuna delle
due comunita'. Memore dell'atteggiamento di sostanziale indifferenza e
passivita' manifestato dalla popolazione polacca di fronte al massacro degli
ebrei, il giornalista e scrittore Konstanty Gebert, autorevole dirigente
della piccola comunita' ebraica polacca, ebbe acutamente a osservare che
"non e' vero [che il martirio renda piu' nobili]. Il proprio martirio rende
indifferenti a quello degli altri. I polacchi ne sono stati un esempio
magistrale". Non solo per questo, ma anche per questo, in tutta l'Europa
egemonizzata dall'Unione Sovietica si e' potuta  per decenni privilegiare la
diffusione di una storiografia ufficiale, che negava ogni specificita'
ebraica della Shoah e parlava dell'antisemitismo come di un mezzo usato dai
nemici di classe per schiavizzare i lavoratori. Presentandosi quali antitesi
radicali al capitalismo, di cui il nazismo e l'antisemitismo sarebbero stati
soltanto delle varianti, i regimi comunisti finirono per deresponsabilizzare
gli individui, inibendo il formarsi di una memoria storica e di una
coscienza critica e autocritica della Shoah.
"Vivendo in una simile atmosfera", commentano Eschenazi e Nissim, "molti
ebrei non dovevano piu' porsi domande inquietanti, ne' chiedersi come mai i
loro amici li avevano abbandonati per saltare, come scrive Hannah Arendt,
sul 'treno della storia'. Potevano liberarsi dalla paura e pensare che chi
aveva loro fatto del male era stato condizionato dall''ambiente', ma in
fondo era innocente. Il dolore che avevano patito perdeva ogni legame con
chi lo aveva provocato; diventava una cosa 'astratta', senza nome".

5. RIFLESSIONE. ENRICO PEYRETTI: LO STUPRO DELLA CASA
[Ringraziamo Enrico Peyretti (per contatti: e.pey at libero.it) per questo
intervento. Enrico Peyretti e' uno dei principali collaboratori di questo
foglio, ed uno dei maestri piu' nitidi della cultura e dell'impegno di pace
e di nonviolenza. Tra le sue opere: (a cura di), Al di la' del "non
uccidere", Cens, Liscate 1989; Dall'albero dei giorni, Servitium, Sotto il
Monte 1998; La politica e' pace, Cittadella, Assisi 1998; Per perdere la
guerra, Beppe Grande, Torino 1999; e' disponibile nella rete telematica la
sua fondamentale ricerca bibliografica Difesa senza guerra. Bibliografia
storica delle lotte nonarmate e nonviolente, ricerca di cui una recente
edizione a stampa e' in appendice al libro di Jean-Marie Muller, Il
principio nonviolenza, Plus, Pisa 2004 (libro di cui Enrico Peyretti ha
curato la traduzione italiana), e una recentissima edizione aggiornata e'
nei nn. 791-792 di questo notiziario; vari suoi interventi sono anche nei
siti: www.cssr-pas.org, www.ilfoglio.org. Una piu' ampia bibliografia dei
principali scritti di Enrico Peyretti e' nel n. 731 del 15 novembre 2003 di
questo notiziario]

Da bambino ho vissuto l'occupazione militare tedesca, nel paese materno, in
Lunigiana. All'inizio avevo otto anni e alla fine quasi dieci. Ricordo bene.
I tedeschi occuparono due case nostre: quella antica, in paese, e quella del
nonno, fuori paese. La prima gia' nel settembre '43, nei giorni in cui
moriva lo zio Paolo, il piu' anziano di casa. Occuparono le camere del piano
di sopra, per degli ufficiali che venivano solo a dormire, attraversando
anche di notte la cucina, unico accesso. Un attendente scendeva a prendere
acqua e insegnava a noi bambini come si dice luna in tedesco. Noi dormivamo
tutti al piano di sotto, anche nella sala. Dalla casa fuori paese ci fecero
sgombrare nel luglio '44: eravamo a tavola, entrarono a torso nudo, tirando
i fili del telefono: vi insediavano un comando. Non fecero violenze maggiori
della violenza che e' l'occupazione. Lasciarono al nonno lo studio, ma gli
rubarono una bella edizione del De jure belli ac pacis, di Grozio.
L'occupazione fu piu' violenta dove ci furono scontri armati, dove fecero
stragi di civili per stanare i partigiani, e quando, anche da noi,
rastrellarono tutti gli uomini dai 14 ai 60 anni, compresi medici e preti,
battendo le campagne armati di lanciafiamme, facendo anche violenze
gratuite. Installarono nel paese un ospedale militare, che curava anche i
paesani. Un soldato prestigiatore diede uno spettacolo nella casa di fronte
a noi. L'occupazione e' anche una simbiosi forzata. Se qualcuno intendesse
che sto parlando di una "occupazione benevola" dimostrerebbe di voler capire
male. L'occupazione militare e' il rovescio dell'ospitalita', la
falsificazione di ogni rapporto.
*
Vedendo Private, il film di Saverio Costanzo - una casa palestinese occupata
dai soldati israeliani, la famiglia relegata al piano terra e chiusa di
notte in una sola stanza, allo scopo di esasperarli ed espellerli - mi sono
ricordato di quel tempo. So che l'occupazione israeliana della Palestina e'
anche molto piu' violenta di quanto il film mostra. Il regista ha fatto bene
a presentare un caso di violenza medio-bassa, perche' un caso piu' grave
avrebbe ridotto la credibilita' e l'emozione. Ma la storia del film e' gia'
piu' violenta di quella che vissi io. Anche comprendendo tutte le esigenze
di sicurezza degli israeliani, questa vicenda mostra a nudo gli effetti di
quella guerra dentro le persone: il tormento gratuito degli innocenti, la
forza della resistenza nonviolenta, l'attrattiva della violenza altrui a
farsi imitare, la paura in chi subisce ma anche in chi esercita violenza, il
terrore piu' acuto nei bambini, lo stupro della casa che e' il corpo comune
di una famiglia, ed e' oggetto abituale delle violenze belliche, dalla
minaccia all'occupazione al bombardamento. Protagonista del film e' quella
casa, spoglia di fuori, viva di dentro, nelle notti e nei giorni.
*
Dove passa la guerra, le case restano con occhi vuoti e bruciati, come un
teschio. La terra e' case e campi, strade e alberi, luoghi di lavoro.
Guardate tutte le guerre: chi vuole dominare persone e popoli, colpisce
spezza e sradica questi organi di una terra viva, non colpisce solo i corpi
umani, perche' sa che le nostre vite hanno radici vitali nella viva terra, e
sono offese e tagliate nelle offese inflitte alla terra abitata. Ama la
terra altrui come te stesso.

6. MATERIALI. L'INDICE DE "IL PRINCIPIO NONVIOLENZA" DI JEAN-MARIE MULLER
[Riproduciamo l'indice del fondamentale libro di Jean-Marie Muller, Il
principio nonviolenza. Una filosofia della pace, Edizioni Plus, Pisa 2004.
Jean-Marie Muller, filosofo francese, nato nel 1939 a Vesoul, docente,
ricercatore, e' tra i più importanti studiosi del pacifismo e delle
alternative nonviolente, oltre che attivo militante nonviolento. E'
direttore degli studi presso l'Institut de Recherche sur la Resolution
non-violente des Conflits (Irnc). In gioventu' ufficiale della riserva, fece
obiezione di coscienza dopo avere studiato Gandhi. Ha condotto azioni
nonviolente contro il commercio delle armi e gli esperimenti nucleari
francesi. Nel 1971 fondo' il Man (Mouvement pour une Alternative
Non-violente). Nel 1987 convinse i principali leader dell'opposizione
democratica polacca che un potere totalitario, perfettamente armato per
schiacciare ogni rivolta violenta, si trova largamente spiazzato nel far
fronte alla resistenza nonviolenta di tutto un popolo che si sia liberato
dalla paura. Tra le opere di Jean-Marie Muller: Strategia della nonviolenza,
Marsilio, Venezia 1975; Il vangelo della nonviolenza, Lanterna, Genova 1977;
Significato della nonviolenza, Movimento Nonviolento, Torino 1980; Momenti e
metodi dell'azione nonviolenta, Movimento Nonviolento, Perugia 1981; Lessico
della nonviolenza, Satyagraha, Torino 1992; Simone Weil. L'esigenza della
nonviolenza, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1994; Vincere la guerra, Edizioni
Gruppo Abele, Torino 1999; Il principio nonviolenza, Plus, Pisa 2004.
Per acquistare il libro di Jean-Marie Muller, Il principio nonviolenza. Una
filosofia della pace, Edizioni Plus - Pisa University Press, Pisa 2004
(edizione originale: Le principe de non-violence. Parcours philosophique,
Desclee de Brouwer, Paris 1995), pp. 336, euro 15, rivolgersi alla casa
editrice: tel. 0502212056, fax: 0502212945, e-mail:
info-plus at edizioniplus.it, sito: www.edizioniplus.it]

Prefazione: La nonviolenza, respiro e risveglio della vita umana, di Roberto
Mancini
Premessa
1. In un mondo di conflitti
Il conflitto
L'aggressivita'
La lotta
La forza
La costrizione
2. Ri-flessione sulla violenza
La "violenza strutturale"
Comprendere la violenza della rivolta
L'uomo violento di fronte alla morte
L'illusione di uccidere per vincere la morte
Le donne dietro la guerra
Colpevolezza e responsabilita'
La sottomissione all'autorita
3. La nonviolenza come esigenza filosofica
La nonviolenza, principio della filosofia
L'ahimsa
Elogio della bonta'
"Non uccidere"
Emmanuel Levinas: l'umanesimo dell'altro uomo
4. L'uomo nonviolento di fronte alla morte
La nonviolenza e' un atteggiamento corporeo
Le quattro virtu' cardinali
Il perdono
5. Principi dell'azione nonviolenta
La nonviolenza rompe l'equilibrio delle armi
"Chi vuole il fine, vuole i mezzi"
Il principio di non-cooperazione
La disobbedienza civile
Prendere la parola per dire la verita'
La sfida dei dissidenti
La forza dell'umorismo
"Mettere insieme la giustizia e la forza"
6. La violenza e la necessita'
Machiavelli e la crudelta' ben impiegata
Hegel e l'apologia della guerra
Max Weber e le due etiche
7. Lo Stato come violenza istituzionalizzata
La violenza del sistema penale
Mantenere la violenza "fuori legge"
8. La nonviolenza come esigenza politica
Il fondamento della citta' greca secondo Aristotele
La nonviolenza del potere: Hannah Arendt
Democrazia e cittadinanza
Il numero e il diritto
Le religioni sono scese a patti con l'impero della violenza
I partiti politici
Rifiutare il primato dell'economia sulla politica
L'esigenza ecologica
9. La risoluzione nonviolenta dei conflitti
Arrestare la rivalita' mimetica
Proprieta' e violenza
La mediazione
Karl Popper e l'"educazione alla nonviolenza"
Per una educazione nonviolenta
10. Alternative nonviolente alla guerra
Clausewitz e la riflessione sulla guerra
La difesa civile nonviolenta
11. Violenza e nonviolenza nella storia secondo Eric Weil
L'uomo tra ragione e violenza
L'opzione per la nonviolenza
Il confronto con gli altri
La necessita' della contro-violenza
Essere saggio nel mondo
La violenza come mezzo per realizzare la nonviolenza
Il fine giustifica i mezzi
Superare la necessita' della violenza
12. Dialogo con Eric Weil
Decidersi per la nonviolenza
Scegliere tra uccidere e morire
Il fine giustifica i mezzi?
La violenza puo' essere l'antidoto della violenza?
La violenza non riconosce alcun limite
Emmanuel Levinas: la critica etica dello Stato
Gandhi ignorato
Il campo inesplorato dei metodi nonviolenti
13. Gandhi, l'esigenza della nonviolenza
La ricerca della verita'
Il compimento del bene
La virtu' dell'intrepidezza
Il primato della ragione
La resistenza nonviolenta
Il potere della sofferenza
La strategia dell'azione nonviolenta
14. Gandhi, artigiano della nonviolenza
Il fine e i mezzi
Il principio di non-collaborazione
La costrizione dell'azione nonviolenta
La "marcia del sale"
Gandhi ribelle all'impero britannico
La violenza e' preferibile alla vilta'
La violenza puo' apparire necessaria
Liberare l'India da uno Stato indiano
Democrazia e nonviolenza
15. Le possibilia' di una cultura della nonviolenza
La necessita' di combattere la violenza irrazionale
La violenza legittimata dalla nonviolenza
La nonviolenza come obbligo verso gli altri
Rifiutare anzitutto la vilta'
La violenza e' sempre irragionevole
Il mezzo della violenza contraddice il fine della nonviolenza
La violenza e' un meccanismo cieco
La violenza strumentalizza l'uomo
La necessita' di costringere
Le "chances" dell'azione nonviolenta
La nonviolenza e' piu' realista della violenza
Conclusione
Appendice: Bibliografia storica delle lotte nonarmate e nonviolente (a cura
di Enrico Peyretti)

7. LETTURE. AA. VV.: UN'EREDITA' SENZA TESTAMENTO
AA. VV., Un'eredita' senza testamento. Inchiesta di "Fempress" sui
femminismi di fine secolo, Quaderni di Via Dogana - Libreria delle donne,
Milano 2001, pp. 152, euro 10,32. "Qual e' il senso del femminismo oggi?
Quale la sua eredita'? Attorno a queste domande si sviluppa l'inchiesta
condotta da 'Fempress' (sito: www.fempress.cl). Rispondono venti femministe
latinoamericane ed europee protagoniste di trent'anni di politica delle
donne". Introduzione di Daniela Padoan, interventi di Viviana Erazo
Torricelli, Francoise Collin, Diana Bellesi, Luisa Muraro, Celia Amoros, Ida
Dominijanni, Sonia Montecino, Haydee Birgin, Marta Lamas, Gina Vargas, Sonia
E. Alvarez, Alessandra Bocchetti, Lidia Falcon, Aida Facio, Virginia Guzman,
Judith Astelarra, Jacqueline Pitanguy, Kate Young, Line Bareiro, Marcela
Lagarde, Nea Filgueira. Una riflessione a piu' voci straordinariamente
appassionante. Per richieste: e-mail: info at libreriadelledonne.it, sito:
www.libreriadelledonne.it

8. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.

9. PER SAPERNE DI PIU'
* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per
contatti: azionenonviolenta at sis.it
* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia:
www.peacelink.it/users/mir; per contatti: mir at peacelink.it, sudest at iol.it,
paolocand at inwind.it
* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per
contatti: info at peacelink.it

LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 815 del 20 gennaio 2005

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