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un racconto di Dino Frisullo



Un racconto di Dino Frisullo

Abbiamo ricevuto l'invito a ricordare su "Migra" Dino Frisullo attraverso
questo suo racconto-testimonianza. Al di là dell'omaggio, ci sembra che sia
il modo giusto per far conoscere le idee di una persona coraggiosa.

Quando i venti uomini, attraversato un immenso capannone ingombro di merci,
entrarono nella sala mortuaria e si disposero in silenzio intorno alla
bara, il tempo si fermò per un lunghissimo momento. Con loro, ai quattro
angoli dello squallido sgabuzzino senza finestre, quattro agenti della
Polaria e il direttore dello scalo merci di Fiumicino.

Il sonoro ronzio di un moscone attrasse alcuni sguardi. Veniva da fuori,
dal sole caldo dell'ottobre romano. Dalla vita. Percorse la stanza, poi
volò subito via, vergognoso o impaurito. Quaranta occhi tornarono a fissare
il telo grezzo bianco malamente appuntato sotto un mazzo di fiori mezzo
stecchiti, sopra una cassa di legno innaturalmente grande per il corpo di
una giovane donna. Nessuno fiatava.

Qualche mano si mosse esitante a sfiorare il legno, i chiodi, la tela.

Alcuni occhi si chiusero forse sotto le fronti aggrottate, come per
scacciare un pensiero, un'immagine. L'immagine di quel corpo che era stato
bello e fresco, e che il giorno prima non era potuto partire perché troppo
gonfio e guasto.

Due giorni nella stiva di quella nave, e poi dieci giorni in chissà quale
magazzino a Crotone. Il giorno prima il comandante aveva rifiutato di
caricare la bara: troppo forte l'odore della morte. Forse avevano dovuto
cambiarla con una più grande e più ermetica, che potesse contenere ciò che
era diventato il corpo di Malli Gullu.

Il moscone rientrò nella stanza con un ronzio leggero e si posò piano sulla
bara. Si guardò intorno disorientato, fece un mezzo giro su se stesso, poi
volò dritto verso la porta e si scagliò verso il cielo, tendendo le ali
brillanti come un aereo in fase di decollo.

L'aereo lacerò la ragnatela delle nuvole e protese le ali brillanti in
alto, verso il sole.

"Riprénditela, ma falle cambiare vita. E cambia strada pure tu, finché sei
in tempo. Lo sappiamo che sei un terrorista, tu e tutti i tuoi parenti
laggiù a Sirnak. Ce l'hai portata tu nella sede dell'Hadep, tua moglie, e
tu sei responsabile dei suoi guai. La prossima volta non la rivedrai tanto
facilmente!". L'uomo sentì i muscoli del viso e delle braccia tendersi
dolorosamente nello sforzo di non rispondere, di non colpire. Si chinò e
sollevò quasi di peso il corpo sottile di Malli afflosciato su una sedia.
Sentì all'orecchio il suo respiro pesante, quasi un rantolo. I lunghi
capelli erano rappresi dallo stesso sangue che macchiava il vestito, il
viso era annerito dai lividi.

Lentamente, un gradino dopo l'altro, riuscì a portarla giù per le scale
della caserma di Gebze. Ogni movimento le strappava un gemito. Il gendarme
di guardia al portone li guardò entrambi con odio prima di premere il
pulsante.

Fuori accorsero le donne, la sollevarono delicatamente sulle braccia
robuste intrecciate a barella, volarono verso la macchina in attesa. I veli
bianchi fluttuavano intorno a lei come un vestito da sposa.

"Mi hanno torturata".

Il medico finse di non sentire, si cacciò le mani nelle tasche del camice e
si volse bruscamente all'uomo in attesa. "Portala via, ha solo contusioni,
guarirà presto". Guardò gli occhi imperiosi dell'ufficiale in piedi in
fondo alla stanza, poi distolse lo sguardo dalla domanda muta nello sguardo
dell'uomo.

"Lo so che vorresti una certificazione, ma non ce n'è bisogno. Tua moglie
non ha versamenti interni o fratture, i lividi passano presto. Se dovessimo
metterci a scrivere per ogni sciocchezza…".

Quando le tavole di lamiera si chiusero con colpi secchi di chiavarde sopra
le loro teste, Malli barcollò e sarebbe caduta se non avesse trovato, nel
buio, il braccio di suo marito. Gli si strinse, e le due bambine si
strinsero a entrambi. L'aria era rappresa di calore e fetore, irrespirabile.

"Come in quella cella" mormorò. "Manca l'aria e la luce, come là dentro.
Ricordi? Mi sento male come allora. Ma almeno qui non verrà nessuno a
picchiarmi, ci siete voi".

Scandiva le parole con difficoltà, ansimando. Lui le accarezzò con dolcezza
i capelli e la fronte, come faceva sempre per calmarla quando le tornavano
quei ricordi. "Calma, Malli. Siamo come in prigione, è vero, ma ti
attendeva una prigione molto peggiore. Invece stiamo andando verso la
libertà. Fatti forza, è l'ultima fatica".

Qualcuno nel buio gli toccò il braccio, poi una voce in kurdo con l'accento
del sud: "Hevàl, avete cibo e acqua con voi? Siamo chiusi qua dentro in
quattrocento da tre giorni, fermi ad aspettare voialtri dalla Turchia.
Abbiamo messo in comune tutto, e dovreste farlo anche voi. Abbiamo sete, ci
è rimasta solo una tinozza d'acqua sporca e dei pani ammuffiti che non vi
consiglio, hanno fatto apposta a lasciarceli vicino alla latrina. Hai acqua
e pane per i miei bambini, hevàl?"

Lui si svincolò lentamente dall'abbraccio di Malli, si chinò a rovistare
nel grande zaino militare e ne trasse una bottiglia e due pani rotondi
odorosi di sesamo. L'altro quasi glieli strappò di mano mormorando un
"grazie, hevàl". Con gli occhi ormai abituati all'oscurità, lo videro farsi
largo nel groviglio di corpi fino a un gruppo di donne e bambini addossati
alla parete, accasciati sul terriccio misto a letame che copriva il fondo
della stiva. I pani e l'acqua finirono in un attimo.

Questa volta tutti, anche i poliziotti, si volsero a seguire affascinati il
volo del moscone. Poi tornarono a guardare alternativamente la bara e i
propri piedi, incerti. Avevano lasciato il centro d'accoglienza così in
fretta da dimenticare sul tavolo il grande mazzo di fiori gialli e rossi un
po' appassiti, comprati per poche lire da un fioraio amico, che il giorno
prima si erano dovuti riportare indietro. Che si può fare davanti a una
bara, senza neanche un fiore? L'italiano che li accompagnava ripensò con
rabbia alla burocrazia aeroportuale che aveva escluso categoricamente la
possibilità di esporre la bara nella chiesetta accanto all'aeroporto, dove
i fiori non sarebbero mancati e avrebbero potuto circondarla di pensieri e
parole, con quella serenità che danno le chiese di campagna anche a chi non
crede, o a chi crede in un altro Iddio. "Non si può, ha i fogli per
l'espatrio, dunque è come se fosse già all'estero e la chiesa è territorio
nazionale, non può rientrare in Italia neanche per pochi metri, le norme
son chiare".

Così dovevano salutarla fra quelle mura scrostate chiuse da una
saracinesca, unico arredo un lavandino nella parete di fronte. L'italiano
strinse i pugni e ricacciò indietro un fiotto di rabbia impotente.

Il piccolo Mahsun fu il primo a sollevare lo sguardo. Si schiarì la gola e
cominciò a parlare in turco in tono sommesso, poi via via più alto. Tutti
pendevano dalle sue labbra.

"Questo corpo, compagni, è di una donna dell'Hadep. Ha conosciuto la
prigione e la tortura per lo sciopero della fame che le donne intrapresero
in tutte le città tre anni fa, quando sequestrarono il nostro presidente.
E' fuggita dalla Turchia con il marito e le figlie perché per quello
sciopero della fame l'attendeva una condanna a lunghi anni di carcere. E'
morta soffocata nella stiva di una nave".

Il mare. Quelle navi di legno fradicio e di ferro arrugginito. Quelli che
venivano dai villaggi il mare non l'avevano mai conosciuto, e ne avevano
paura. Negli incubi di ciascuno di loro, anche dei bambini, soprattutto dei
bambini, ritornava il mare e quelle stive fetide, e le armi spianate dei
poliziotti che li scortavano nella notte fino al porto e poi quelle degli
equipaggi mafiosi, le banconote che passano di mano in mano a pacchetti
sempre più grossi, le onde sempre più alte nella notte nera, i colpi delle
onde che sembrano spaccare il fasciame della nave, gli ordini secchi, il
pianto dei bambini, il puzzo pungente di orina, l'imbarazzo delle donne per
la promiscuità, il rombo dei motori e delle eliche, e poi il silenzio,
lunghe attese sballottati in mezzo al mare, e nuovi carichi umani e la nave
che riparte, i vestiti si fanno ruvidi d'untuosa polvere salmastra, le
barbe lunghe e la fame, e le canzoni, le storie e gli scherzi in dieci
lingue per far passare la fame e la paura.

Venti pensieri corsero al mare e alle navi che ciascuno aveva conosciuto.
Uno dopo l'altro, tutti si sorpresero a tirare un respiro profondo.
L'atmosfera s'era fatta d'improvviso ancora più soffocante, come in quelle
stive o nei cassoni di quei Tir allineati nel ventre dei traghetti. Il
terzo giorno Malli svenne. Quando si riprese fra le braccia del marito,
sentì che qualcosa le si era spezzato dentro. Rantolava. Ogni respiro era
come una coltellata sempre più profonda. Intorno a loro tutti dormivano
addossati gli uni agli altri. Respiravano forte o russavano, e quel rumore
ritmato di quattrocentocinquanta respiri all'unisono s'impastava con il
pulsare dei motori. Malli si portò le mani alle orecchie che fischiavano,
si sentì svenire un'altra volta.

Si fece forza. "Forse sto per morire" disse piano all'orecchio dell'uomo,
che protestò debolmente. Bisbigliò ancora alcune parole e l'uomo scosse la
testa con forza, poi la sua bocca si stirò in un sorriso incerto. "Se non è
che questo. Non morirai, sta' tranquilla, era solo un malore. Comunque, se
proprio vuoi. Ma come facciamo, in mezzo a tutta questa gente?".

Alla fine cedette, frugò nello zaino e ne tirò fuori un vestito. Era il più
bello, quello rosso e verde rilucente dell'oro delle monete e dei monili,
quello delle danze e delle feste più importanti. Le stese intorno una
coperta e distolse lo sguardo, ma con la coda dell'occhio la guardò mentre
a fatica, gemendo, lei si sfilava il vestito scuro e si fasciava di lucida
seta. Si sentì soffocare dalla tenerezza. La sua compagna (così la
chiamava, non moglie, malgrado le proteste dei suoceri) non era mai stata
così bella.

Quando gli occhi di Malli divennero vitrei, la sua bocca sorrideva ancora.
Lui capì subito e cominciò a urlare. Tutti si svegliarono, e il suo grido
divenne l'urlo disumano di quattrocento gole. Continuò per due giorni e due
notti quell'urlo, perdendosi nel vento e nel mare.

"Sono impazziti là sotto. Se gli apriamo ci saltano addosso, non se ne
parla nemmeno. Buttategli qualche bottiglia d'acqua, qualche scatola di
antibiotico. Che ci siano morti come gridano, non ci credo, hanno la pelle
dura quei cani, sentite? ululano proprio come cani".

Quando al largo di Crotone la issarono sopra coperta, il suo corpo snello
s'era gonfiato al punto che tutti pensarono che fosse stata incinta. Ma
sembrava ugualmente una regina. Sulla seta lucente il vento agitava i suoi
lunghi capelli neri e faceva tintinnare le monete d'oro.

Svegliato di soprassalto dal suo stesso urlo l'uomo si drizzò nel lettino,
madido di sudore. Si portò le mani alla gola. Lentamente tornò a respirare.

Per fortuna le bambine non s'erano svegliate. Le guardò dormire abbracciate
e si chiese con angoscia se avrebbero mai avuto una vita normale, se
avrebbero mai messo da parte il ricordo dei giorni e delle notti in quella
stiva, accanto al cadavere della madre.

Tornò a stendersi senza chiudere gli occhi. Quel pomeriggio il corpo di
Malli era volato via verso Roma e poi verso Istanbul. Ne aveva avuto la
certezza dall'interprete, ma non aveva potuto nemmeno rivedere la bara.
Voleva accompagnarla fino a Roma nell'ultimo viaggio. La burocrazia l'aveva
bloccato là nel campo di Crotone: niente da fare, non aveva ancora il
permesso di soggiorno.

Quella sera, per la prima volta in dieci giorni, era riuscito a piangere.
"Vorrei tornare anch'io con lei". Dalle roulotte rugginose allineate sulla
pista dell'ex aeroporto erano usciti in tanti, gli si erano stretti intorno
senza parlare. Il suo dolore era anche il loro.

"Vorrei tornare". Indicava in direzione del mare, oltre il mare e le
montagne di Grecia e d'Anatolia. Tendeva le mani verso un villaggio del
Botan, le ombre dolci delle montagne e il verde della valle del Tigri, il
profumo del fieno, i canti e le risate nel tramonto, i vecchi accoccolati
davanti alle case, le donne alla fontana, l'odore del pane appena cotto.

Lo sentirono tutti all'improvviso, l'odore del fieno e del pane. Fu quando
un anziano gli prese le mani e disse con voce forte, a lui e a tutti: "Non
piangere più. Tua moglie ha finito di soffrire. E' tornata nel vostro
villaggio, e lì ti aspetta. Un giorno prenderai per mano le tue figlie e
tornerai laggiù con loro. Con tutti noi. Torneremo laggiù un giorno, nel
nostro paese, ricostruiremo i villaggi distrutti e canteremo nella nostra
lingua, e taglieremo il fieno e spezzeremo il pane".

"Possiamo scrivere due parole di saluto sulla stoffa della bara? Nella
fretta abbiamo dimenticato anche i fiori".

Il sottufficiale si strinse nelle spalle e fece segno di sì. Un agente

sorrise e trasse di tasca un pennarello nero. Scrissero lentamente sulla
tela, in stampatello, due frasi di commiato. "Noi, popolo kurdo in Italia e
amici italiani". In lingua turca: in kurdo, lo sapevano, quelle parole
sarebbero state cancellate all'arrivo a Istanbul.

Come in un rito sfilarono davanti alla bara passandosi il pennarello e
firmarono. Alcuni con uno sgorbio, per non far riconoscere il proprio nome;
altri per esteso, come per sfida.

Si guardarono incerti. Mahsun alzò le braccia. Era finita. Il direttore
dello scalo merci annuì: l'aereo attendeva in pista. I kurdi si posero le
mani giunte sul viso in un gesto di raccoglimento, quasi di preghiera, poi
le appoggiarono sulla bara. Gli italiani li imitarono. Il funzionario
tossicchiò, imbarazzato e impaziente.

Uno dopo l'altro staccarono le mani dalla bara. Uno degli italiani disse in
turco, a voce alta: "Un giorno le tue figlie torneranno nel tuo paese
libero, te lo giuriamo".

In fila indiana, con un ultimo sguardo alla bara, si avviarono verso
l'uscita. Il moscone saettò verso l'alto, libero. I venti uomini si
scossero, come folgorati dalla stessa idea. Si mossero all'unisono. Le loro
braccia sollevarono la bara con facilità. Si mossero lentamente verso
l'uscita, verso la pista dove scaldava i motori l'aereo per Istanbul. Gli
agenti, sorpresi, li lasciarono passare. Quegli occhi incutevano rispetto.
Il piccolo corteo si mosse, raggiunse l'aereo in attesa.

A un chilometro da lì, i passeggeri normali si stavano stipando in un bus
navetta. Ma era troppo tardi per loro. La bara fu caricata nella stiva
dell'aereo, poi i venti uomini salirono lentamente la scaletta. Nessuno
mosse un dito contro di loro, neppure quando ordinarono all'equipaggio di
chiudere i portelloni e decollare. Non avevano armi, e non ce n'era
bisogno. Bastavano gli sguardi.

Quando l'aereo atterrò sulla vecchia pista dell'ex aeroporto di Crotone,
l'uomo già sentiva che sarebbero arrivati. Prese per mano le sue bambine e
seguì l'anziano. In cento uscirono dalle roulotte e salirono a bordo.
Nessuno osò fermarli. Pochi minuti dopo l'aereo lacerò la ragnatela delle
nuvole e protese verso il cielo le ali brillanti.

All'arrivo a Istanbul, una grande folla era lì ad attenderlo. Travolsero i
cordoni di polizia, guidati e trascinati dalle donne di Gebze. Uscirono
dall'aeroporto, la bara di Malli Gullu in testa, ed erano già mille. Quando
attraversarono i quartieri di Istanbul e furono centomila, si capì che
neanche i blindati li avrebbero fermati. La notizia volò. A milioni si
misero in cammino dall'Europa e da tutta la Turchia verso oriente. Verso il
Kurdistan, verso il sole, il fieno e il pane.

Dino Frisullo. 27 ottobre 2001

<i>(E' tutto vero, tutto... tranne il finale: facciamo che un giorno sia
vero anche quello...).</i>