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La nonviolenza e' in cammino. 558



LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di
Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac@tin.it

Numero 558 del 6 aprile 2003

Sommario di questo numero:
1 Peppe Sini: due subalternita', anzi tre
2. Sylvie Germain: il viaggio e il fardello di Etty Hillesum
3. Antonio Moscato: una bibliografia ragionata sulla politica degli Stati
Uniti e la guerra, sull'Iraq e Saddam Hussein, sull'11 settembre e sulla
situazione attuale
4. Ida Dominijanni intervista Victoria de Grazia
5. Benito D'Ippolito: per Oscar Romero
6. Danilo Zolo: un crimine internazionale premeditato
7. Unione donne italiane: salviamo la vita di Amina Lawal
8. Letture: Naomi Klein, Recinti e finestre
9. Riletture: Fatema Mernissi, Islam e democrazia
10. La "Carta" del Movimento Nonviolento
11. Per saperne di piu'

1. EDITORIALE. PEPPE SINI: DUE SUBALTERNITA', ANZI TRE
La prima: la discussione ignobile e insensata, necrofila e narcotica, se sia
preferibile una guerra lunga o una guerra corta. Noi pensiamo che simili
esercizi da lugubri esteti rivelino un'insufficienza morale, una effettuale
complicita'. Alla guerra bisogna opporsi e basta.
*
La seconda: la discussione se nella guerra in corso bisogna aiutare
l'attivita' bellica di qualcuno. Noi pensiamo che alla guerra bisogna
opporsi e basta. Chi propone di arruolarci in un esercito non e' contro la
guerra, ne e' complice.
*
La terza: nella riflessione e nell'agire dei movimenti che si dicono
pacifisti vengono al pettine nodi decisivi, deflagrano antiche insostenibili
ambiguita'. Per uscirne e' necessario prendere una decisione: la scelta
della nonviolenza. Chi non fa la scelta della nonviolenza non solo non
contribuisce a costruire la pace, ma neppure si oppone effettualmente alla
guerra, bensi' ne e' complice.
*
La guerra e' commissione di omicidi; le armi servono a uccidere; scopo degli
 eserciti e' ammazzare esseri umani. Solo la nonviolenza si oppone alla
guerra, poiche' si oppone a tutti gli omicidi, e a tutte le armi e a tutti
gli eserciti.
Di tutte le dittature la guerra e' la piu' feroce, poiche' essa e' dittatura
onnicida e seminagione di nuovo odio, nuove violenze, nuova barbarie. Non e'
ammissibile avere atteggiamenti ambigui.
Di tutti i terrorismi la guerra e' il piu' grande, poiche' essa e' strage
che supera ogni altra strage e nuove stragi genera. Non e' lecito avere
atteggiamenti ambigui.
La guerra minaccia di distruzione l'umanita' intera: e' compito di tutti gli
esseri umani opporsi alla guerra. E solo la scelta della nonviolenza si
oppone alla guerra in modo nitido ed intransigente, nell'unico modo
possibile e adeguato. E' possibile avere atteggiamenti ambigui quando e' in
gioco l'esistenza dell'umanita' intera?
La scelta che oggi si impone e' tra la guerra e' l'umanita'. Tra essere
complici della guerra ed opporsi ad essa con la nonviolenza.
*
Nell'editoriale di ieri ci pare che Lidia Menapace abbia detto quello che
era ed e' necessario, urgente e decisivo dire.
Occorre la scelta della nonviolenza se il movimento per la pace vuole essere
persuaso e persuasivo, concreto ed efficace. Chi non passa per questo ponte,
resta non al di qua dell'abisso, ma nell'abisso precipita.
La nonviolenza e' la necessaria resistenza all'inumano: la nonviolenza e' la
Resistenza oggi necessaria. Solo la nonviolenza puo' fermare la guerra. Solo
la nonviolenza puo' salvare l'umanita'.

2. MAESTRE. SYLVIE GERMAIN: IL VIAGGIO E IL FARDELLO DI ETTY HILLESUM
[Da Sylvie Germain, Etty Hillesum. Una coscienza ispirata, Edizioni Lavoro -
Editrice Esperienze, Roma - Fossano 2000, p. 238. Sylvie Germain e' docente
di filosofia, scrittrice e saggista assai fine. Etty Hillesum e' nata nel
1914 e deceduta ad Auschwitz nel 1943, il suo diario e le sue lettere
costituiscono documenti di altissimo valore e in questi ultimi anni sempre
di piu' la sua figura e la sua meditazione diventano oggetto di studio e
punto di riferimento per la riflessione. Opere di Etty Hillesum: Diario
1941-1943, Adelphi, Milano 1985, 1996; Lettere 1942-1943, Adelphi, Milano
1990, 2001. Opere su Etty Hillesum: AA. VV., La resistenza esistenziale di
Etty Hillesum, fascicolo di "Alfazeta", n. 60, novembre-dicembre 1996,
Parma. Piu' recentemente: Nadia Neri, Un'estrema compassione, Bruno
Mondadori Editore, Milano 1999; Pascal Dreyer, Etty Hillesum. Una testimone
del Novecento, Edizioni Lavoro, Roma 2000; Sylvie Germain, Etty Hillesum.
Una coscienza ispirata, Edizioni Lavoro, Roma 2000]
Una donna pienamente, magnificamente umana - un'umile "samaritana" messasi
in viaggio nella vita, che lungo la strada ha incontrato feriti, disperati,
moribondi, in massa, e per ognuno ha provato compassione. Cosi'
profondamente commossa da scorgere in ognuno Dio in agonia. Se lo e'
caricato sulle spalle, gli ha dato rifugio nella sua anima "che ha mille
anni", e si e' presa cura di lui.

3. MATERIALI. ANTONIO MOSCATO: UNA BIBLIOGRAFIA RAGIONATA SULLA POLITICA
DEGLI STATI UNITI E LA GUERRA, SULL'IRAQ E SADDAM HUSSEIN, SULL'11 SETTEMBRE
E SULLA SITUAZIONE ATTUALE
[Dal notiziario telematico "Bandiera Rossa news" (per contatti:
ba.ro.news@inwind.it) riprendiamo questo articolo di Antonio Moscato,
docente all'Universita' di Lecce, prestigioso studioso e militante del
movimento operaio e dei movimenti di liberazione. Ci pare doveroso segnalare
che alcuni dei giudizi espressi in questa rassegna sono a nostro avviso
discutibili, e naturalmente non condividiamo affatto l'uso di certe
espressioni offensive - e gratuite - che non ci siamo permessi di cassare ma
dalle quali ovviamente ci dissociamo]
1. Sulla politica degli Stati Uniti e la guerra
- Per una panoramica d'insieme della politica statunitense, e' ancor valido
il libro (documentatissimo, di oltre 450 pagine) di Filippo Gaja, Il secolo
corto. La filosofia del bombardamento. La storia da riscrivere, Maquis
Editore, Milano 1994. Proprio perche' ha quasi dieci anni, anzi, puo' essere
utile per sfatare la leggenda, diffusa tra gli oppositori moderati
all'attuale guerra, che questa sarebbe dovuta solo al fanatismo
fondamentalista di George W. Bush e segnerebbe una svolta nella storia degli
Stati Uniti.
- Il recente libro di Milan Rai, Iraq. Dieci ragioni contro la guerra,
Einaudi, Torino 2003, smantella menzogne e contraddizioni nelle
dichiarazioni dei governanti nordamericani. Oltre all'introduzione di Noam
Chomsky, comincia con un capitolo interamente composto dalle dichiarazioni
dei familiari delle vittime dell'11 settembre che si sono costituiti in
associazione col nome di Peaceful Tomorrows. Particolarmente utili i
capitoli sui legami tra i governanti statunitensi e i talebani, e sugli
ostacoli frapposti (non da Saddam!) alle attivita' degli ispettori dell'Onu.
- Un grande successo editoriale ha avuto un agile volumetto di Antonio
Gambino (Perche' oggi non possiamo non dirci antiamericani, Colloquio con
Marco Galeazzi, Editori Riuniti, Roma 2003), che risente pero' molto di un
taglio giornalistico, e dedica attenzione solo all'ultima fase, con molte
considerazione in genere giuste, ma un'insufficiente documentazione,
soprattutto sul lungo periodo.
- Molto piu' efficace e convincente il libro di Howard Zinn, Non in nostro
nome. Gli Stati Uniti e la guerra, il Saggiatore, Milano 2003, che e'
introdotto dalla sorella di una vittima dell'11 settembre. Il pregio del
volume, pur composto di scritti pubblicati in varie occasioni, e' di dare un
quadro storico della politica statunitense con molta attenzione agli ultimi
cinquant'anni, ma partendo dalle stesse origini degli Stati Uniti.
- Sulla storia remota degli Stati Uniti (e anzi delle colonie da cui hanno
avuto origine) si sofferma maggiormente David E. Stannard, Olocausto
americano. La conquista del Nuovo Mondo, Bollati Boringhieri, Torino 2001.
Stannard, che e' cittadino statunitense e docente nell'Universita' delle
Haway, affronta l'insieme dei genocidi compiuti nell'arco di cinquecento
anni nelle Americhe e anche nelle isole in cui vive. Tuttavia mentre la
storia dei massacri compiuti dai conquistadores spagnoli e portoghesi e' ben
nota (anche se ridimensionata da chi la presenta come "leggenda nera"),
quelli compiuti dagli anglosassoni lo sono assai meno, pur essendo
ugualmente efferati.
- Un ex agente della Cia che ha collaborato con il piu' famoso Philip Agee
al progetto di smascherare le attivita' criminali e liberticide
dell'agenzia, ha pubblicato un ampio ma a volte ingarbugliato repertorio
delle azioni compiute per sovvertire governi, assassinare personalita'
politiche, ecc. Si tratta di William Blum, Con la scusa della liberta'. Si
puo' parlare di impero americano?, Marco Tropea, Milano 2002, che fornisce
spesso documenti ineccepibili, ma non sempre aiuta a comprendere la
complessita' delle vicende di cui parla, perche' sottovaluta in genere le
motivazioni delle forze locali attribuendo sempre la responsabilita'
principale di ogni golpe alle manovre della Cia.
- Un bellissimo e illuminante volume di Tariq Ali (un intellettuale di
origine pakistana, impegnato da oltre trenta anni come militante
rivoluzionario in Gran Bretagna), dedicato a Lo scontro dei fondamentalismi
(Rizzoli, Milano 2002), contiene anche un lungo capitolo con una "Breve
storia dell'imperialismo statunitense", in cui utilizza testimonianze
"dall'interno" come quella del generale dei marines Smedley Butler, che nel
1933 lascio' il servizio spiegando che la sua attivita' era paragonabile a
quella di un gangster, capo di un racket che, a differenza di quello di Al
Capone, non si estendeva su tre quartieri ma su tre continenti. Naturalmente
il pregio principale del libro e' la ricostruzione dei molti fondamentalismi
che si scontrano oggi nel mondo, con particolare attenzione a quelli,
dimenticati in genere in Italia, del subcontinente indiano.
- Deludente, anche se con qualche informazione utile, il libro di Bob
Woodward (il giornalista che smaschero' il Watergate e fece saltare il
presidente Nixon), La guerra di Bush, Sperling & Kupfer, Milano 2003.
Woodward e' impegnato contro la guerra, ma il libro ne ricostruisce
soprattutto cronachisticamente la preparazione all'interno
dell'amministrazione statunitense, senza fornire elementi per la
comprensione dei motivi piu' profondi.
- Stimolante come sempre il recentissimo libro di Sergio Romano, Il rischio
americano. L'America imperiale, l'Europa irrilevante, Longanesi, Milano
2003. La tesi di fondo e' appunto quella indicata nel sottotitolo, cioe' la
scarsa rilevanza dell'Europa sulla scena mondiale (ma lo stesso, ha
osservato lo storico e politologo statunitense Paul Kennedy, si puo' dire a
proposito del Giappone). La conclusione (che auspica una maggiore unita'
politica e militare dell'Europa come contraltare alla strapotenza
statunitense) non e' ovviamente condivisibile, dal momento che i principali
paesi europei non hanno le carte in regola per definire una politica
qualitativamente diversa da quella dell'imperialismo Usa. Tuttavia il libro
tratteggia senza reticenze la politica degli Stati Uniti, e in particolare
la loro espansione nel continente fin dalla prima meta' del XIX secolo,
cercandone le origini ideologiche nel fondamentalismo cristiano che li ha
ispirati fin da prima della fondazione del nuovo Stato, cioe' nella pretesa
di avere, sulle orme dei "Padri Pellegrini", Dio dalla loro parte. Nulla di
nuovo, ma fa piacere leggere queste cose in un libro di uno storico e
diplomatico indubbiamente conservatore, ma intelligente e rigoroso, tanto
piu' in un periodo in cui destra e gran parte della sinistra fanno a gara a
dire che e' "impossibile e inaccettabile essere antiamericani" e presentano
in chiave apologetica la leggenda della "grande democrazia profondamente
anticoloniale", ecc.
- Di qualche interesse il libro di Ahmed Rashid, Talebani. Islam, petrolio,
e il Grande Gioco in Asia centrale, Feltrinelli, Milano 2001, che ovviamente
non tratta direttamente la politica statunitense nel suo complesso, ma
fornisce dati utili sul corteggiamento dei talebani da parte di uomini
politici nordamericani per conto di compagnie petrolifere e di altre imprese
interessate alla costruzione di oleodotti in territorio afghano.
- Con un taglio prevalentemente giornalistico (il libro si basa su alcune
delle efficaci inchieste televisive fatte dall'autore in Indonesia, Iraq,
Afghanistan e altri paesi) John Pilger (I nuovi padroni del mondo, Fandango,
Roma 2002), presenta un quadro di insieme piuttosto efficace dell'arroganza
e della malafede dei dirigenti degli Stati Uniti, della Gran Bretagna e
dell'Australia, con un gran numero di testimonianze rese all'autore - che e'
un abile intervistatore a cui e' difficile sfuggire - da molti dei
protagonisti.
- Un libro stimolante (e provocatorio fin dal titolo), e' quello di Chalmers
Johnson, Gli ultimi giorni dell'impero americano, Garzanti, Milano 2001.
Chalmers Johnson e' uno specialista di Estremo Oriente, dove ha vissuto a
lungo, fin dalla guerra di Corea, prima come ufficiale statunitense, poi
come ricercatore e docente. La sua tesi, che si riallaccia a quella di Paul
Kennedy, e' che l'eccessiva sovraesposizione dell'impero americano,
nonostante la sua schiacciante superiorita' militare, lo ha profondamente
indebolito dal punto di vista della solidita' economica e dell'accumularsi
di fattori esplosivi in molti continenti (i possibili "ritorni di fiamma").
Johnson usa largamente la categoria di imperialismo, ma osserva
maliziosamente che Lenin si e' sbagliato definendola "fase suprema del
capitalismo": e' piuttosto una malattia. A questo proposito fa proprio
l'esempio della zona del Golfo Persico, dove per controllare la sicurezza
dell'afflusso di petrolio proveniente da quell'area (per un valore annuo di
11 miliardi di dollari), gli Stati Uniti spendono 50 (cinquanta!) miliardi
ogni anno. Johnson fornisce preziose informazioni sull'Estremo Oriente, ma
e' attento anche a quel che accade in altri continenti, e nel suo stesso
paese, dove gran parte dei cittadini sono privi di assistenza medica e di
istruzione pubblica gratuite, e le pensioni statali sono state sostituite da
fondi pensione privati (che hanno subito pesanti decurtazioni per i crolli
dei titoli in borsa). Tra l'altro il libro, dopo una breve presentazione
della sua personale storia di "patriota americano" convinto ed entusiasta
almeno fino alla meta' degli anni Sessanta, cioe' alla guerra del Vietnam,
esordisce presentando come esempio tipico di arroganza che genera odio
l'atteggiamento delle autorita' statunitensi per sottrarre a un giudizio in
Italia i piloti che nel 1998 avevano provocato la strage della funivia di
Cavalese.
- Tutto concentrato sui conflitti interni all'amministrazione Usa nell'arco
di due secoli, e meno attento ai loro effetti sul mondo e' invece il libro
di Walter Russel Mead, Il serpente e la colomba. Storia della politica
estera degli Stati Uniti d'America, Garzanti, Milano 2001. Ha comunque il
pregio di spazzare via le sciocchezze di chi, per rivendicare ancora il
proprio "americanismo", attribuisce al solo Bush l'attuale politica degli
Stati Uniti. Infatti il libro identifica alcune costanti, nella lunga
alternanza tra "il serpente e la colomba", cioe' tra le tendenze che Mead
chiama con i nomi di jeffersoniana, jacksoniana, hamiltoniana, e wilsoniana.
*
2. Sull'Iraq e Saddam Hussein
- Ovviamente accenno anche a un mio recentissimo libro (Antonio Moscato,
Tempeste sull'Iraq, Massari, Bolsena 2003), che presenta la storia dell'Iraq
nel lungo periodo, ricercando nel processo di formazione e nella dominazione
coloniale britannica le radici della sua debolezza attuale, che l'ha fatto
scegliere come bersaglio rispetto ad altri Stati magari piu' invisi ai
governanti statunitensi. Rinvio ad esso soprattutto perche' segnala molti
testi oggi introvabili e che quindi non riporto in questa bibliografia
ragionata.
- Sulla cruciale questione del possesso delle armi di distruzione di massa
da parte di Saddam Hussein sono efficacissimi due libri usciti prima
dell'attuale raffica di pubblicazioni spesso improvvisate (che pure segnala
l'esistenza di un "mercato" e quindi di un interesse superiore a quello
riscontrabile nel 1991): il primo e' quello di padre Jean-Marie Benjamin,
Obiettivo Iraq. Nel mirino di Washington, Editori Riuniti, Roma 2002, che
utilizza le dichiarazioni di vari ispettori dell'Onu per smantellare la
campagna di intossicazione mediatica che ha preparato la guerra; il secondo,
per certi aspetti ancora piu' incisivo, e' quello di William Rivers Pitt,
Guerra all'Iraq, Fazi, Roma 2002, che di fatto e' una lunga intervista a
Scott Ritter, vicecapo degli ispettori dell'Onu fino al 1998 (quando furono
ritirati per consentire la ripresa dei bombardamenti, e non "cacciati da
Saddam" come ripetono tanti commentatori in malafede).
- Una sintetica visione d'insieme si puo' trovare nell'agile libro di
Giancarlo Lannutti, Breve storia dell'Iraq, Datanews, Roma 2002. Lannutti ha
potuto far uscire tempestivamente il suo libro sia perche' come giornalista
aveva seguito da decenni il Vicino e Medio Oriente, e soprattutto perche'
aveva gia' pubblicato (presso lo stesso editore) una Guida storico-politica
di Iraq e Iran, mentre aveva trattato molte delle vicende irachene in una
utilissima Enciclopedia del Medio Oriente che aveva curato per l'editore
Teti nel 1979 (integrata poi da un volume di aggiornamento nel 1991). Molte
delle voci di questa enciclopedia erano state curate dallo stesso Lannutti,
ma anche da Guido Valabrega, Pier Giovanni Donini, Igor Man e altri buoni
conoscitori dell'area.
- Decisamente utile la nuova edizione aggiornata di un libro gia' apparso
nel 1991, G. Caretto, G. Corm, G. Crespi, J.-D. Forest, C. Forest, J. Ries,
Iraq. Dalle antiche civilta' alla barbarie del mercato petrolifero, Jaca
Book, Milano 2003. L'aggiornamento e' dovuto al solo Corm, che e' un ottimo
specialista franco-libanese di Medio Oriente. Il libro parte dalla storia
piu' lontana, che tuttavia in gran parte non ha molta incidenza sulle
vicende attuali. Ma il capitolo di Caretto sul declino dell'impero ottomano
tra il 1800 e il 1918, e quelli successivi di Corm (dal 1918 al 1991, e
dalla Guerra del Golfo a quella attuale) sono del tutto condivisibili anche
come metodologia.
- Finora ancora inedito, un esauriente e rigoroso saggio di Ilario Salucci,
Operai e contadini in Iraq: il percorso del movimento comunista (1924-2002),
tocca aspetti in genere trascurati dalla maggior parte degli autori. Per ora
e' disponibile comunque in internet sul sito della rivista telematica "Reds"
(http://www.ecn.org/reds), ma sembra imminente la pubblicazione in volume.
- Segnaliamo anche, per evitarli, due libri pessimi, ricchi di pettegolezzi
non verificabili sulla "psicologia del dittatore" con la stessa logica con
cui tanti complici della "resistibile ascesa" di Adolf Hitler si sono
dilettati poi in ricostruzioni della sua psiche a partire da presunte turbe
infantili: Carlo Panella, Saddam. Ascesa, intrighi e crimini del peggior
amico dell'Occidente, Piemme, Casale Monferrato 2003, e Magdi Allam, Saddam.
Storia segreta di un dittatore, Mondadori, Milano 2003, forse ancora piu'
scandaloso nel raccattare le briciole della propaganda della Cia, che ha
fatto ridicolmente "psicanalizzare a distanza" il mostro di turno. Nulla
sugli idilliaci rapporti dei vari Rumsfeld con Saddam. Se Panella e' un
dirigente Mediaset, Magdi Allam scrive abitualmente su "la Repubblica". Che
bella informazione ci propinano!
- Appena decente, per la relativa presa di distanza dalle peggiori
speculazioni sulla psicologia del dittatore, il libro di Marcella Emiliani,
Leggenda nera. Biografia non autorizzata di Saddam Hussein, Guerini e
associati, Milano 2003, molto al di sotto del livello abituale dell'autrice,
(tra l'altro non c'e' una nota per ricostruire le fonti, ma solo una
sommaria e insufficiente bibliografia). Analoghe caratteristiche, con buone
intenzioni, ma una maggiore superficialita', ha il libro di due giornalisti
di sinistra, Paolo Barbieri, Maurizio Musolino, Saddam Hussein. La vita del
rais di Baghdad, Datanews, Roma 2003. Il punto debole di questi due libri e'
gia' indicato nei titoli: hanno concentrato l'attenzione su Saddam piu' che
sull'Iraq.
*
3. Polemiche sull'11 settembre
- Di libri sull'attacco alle Due Torri e al Pentagono ne sono usciti fin
troppi, alcuni pessimi, molti mediocri, e pochi buoni. Rinviamo per i
principali di essi all'ampia rassegna apparsa sul n. 2 della rivista "Erre"
(marzo/aprile 2003), limitandoci qui a un'elencazione con un sommario
giudizio di merito. Uno dei migliori, pur nei limiti di un appassionato
pamphlet, e' quello che raccoglie diversi scritti dello scrittore Gore
Vidal, Le menzogne dell'impero e altre tristi verita'. Perche' la junta
petroliera Cheney-Bush vuole la guerra con l'Iraq, Fazi, Roma 2002.
- Sulla stessa linea interpretativa ma con una documentazione ben piu' ampia
e rigorosa e' il libro di uno studioso britannico di origine mediorientale,
Nafeez Mosaddeq Ahmed, Guerra alla liberta'. Il ruolo dell'amministrazione
Bush nell'attacco dell'11 settembre, Fazi, Roma 2002, che esamina
puntualmente le versioni ufficiali fornite sull'attacco alle Due Torri e al
Pentagono, utilizzando un gran numero di testimonianze che le smentiscono.
- Sul piu' noto libro di Thierry Meyssan, L'incredibile menzogna. Nessun
aereo e' caduto sul pentagono (Fandango, Roma 2002) si e' scatenata una vera
canea di denigratori, che taceva sulla documentazione ineccepibile e si
concentrava su una singola tesi non dimostrabile. Per confutare Meyssan e'
uscito un pessimo libro (Guillaume Dasquie', Jean Guisnel, Il complotto.
Verita' e menzogne sugli attentati dell'11 settembre, Guerini e Associati,
Milano 2003), con una vergognosa prefazione commissionata a Lucia
Annunziata, che evidentemente senza aver letto il libro gli attribuisce
affermazioni antisemite con cui invece Meyssan polemizza esplicitamente. Ai
suoi numerosi denigratori Thierry Meyssan ha risposto in un nuovo libro (Il
Pentagate. Altri documenti sull'11 settembre, Fandango, Roma 2003), che
pubblica un'inquietante documentazione fotografica a sostegno della sua
tesi.
- E' poi uscita recentemente la terza edizione aggiornata di un libro del
giudice e senatore Carlo Palermo apparso per la prima volta nel 1996, (Il
quarto livello. 11 settembre 2001 ultimo atto? Dalla rete nera del crimine
alla guerra santa di Bin Laden, Editori Riuniti, Roma 2002). L'autore ha il
merito di segnalare molti dati importanti delle connessioni tra
narcotraffico e potere politico ed economico, presentando - un po' come il
gia' ricordato William Blum - una lunga lista di crimini attribuibili ai
servizi segreti statunitensi (e non solo). Tuttavia una comprensibile
"deformazione professionale" lo porta a inseguire troppe piste, in
particolare quella della massoneria e delle sette islamiche, viste come
associate tra loro. Ad esse iscrive Gheddafi, Komeini, Bin Laden e perfino
Hitler, raccogliendo un pettegolezzo su una presunta conversione all'Islam
che sarebbe stata promessa al Gran Mufti' di Gerusalemme! Con la classica
tecnica dell'amalgama tra fattori diversissimi e non comparabili, che ha
portato a tanti "teoremi" da parte di magistrati che indagavano su fenomeni
che conoscevano solo superficialmente (si pensi al processo "7 aprile"!),
Carlo Palermo ad esempio vede incredibilmente nell'ideologia nazista una
manifestazione del sufismo, che sarebbe arrivato ad Hitler attraverso
l'Ordine dei cavalieri teutonici, eredi dei templari! Cosi' i molti dati
forniti sono inutilizzabili perche' immessi in un contesto di
interpretazioni arbitrarie ispirate a una logica piu' poliziesca che
giudiziaria.
- Ancor peggiore, ma per scelta deliberata e non per incapacita' di
padroneggiare la materia, e' il libro di Simon Reeve. I nuovi sciacalli.
Osama Bin Laden e le strategie del terrorismo, Tascabili Bompiani, Milano
2003. Pubblicato inizialmente nel 1999 e poi aggiornato e presentato come
"libro-inchiesta", ci racconta con uno stile da spy story tutti i movimenti
di coloro che vengono additati da Bush come membri di una presunta
"internazionale terroristica" (dando ad esempio per scontato, contro ogni
verosimiglianza, che Bin Laden e Saddam Hussein collaborino stabilmente) ma
ignora tutto dei legami economici e politici di Bin Laden con gli Stati
Uniti. Un libro vergognoso, che scredita la stessa casa editrice (che lo ha
anche rilanciato in edizione economica).
- Piu' corretto, ma scritto prima che uscissero molte delle inchieste piu'
sconcertanti sui retroscena dell'11 settembre, e quindi meno utile nella
prima parte che ricostruisce gli attacchi, il libro di Ricardo E. Rodriguez,
La sfida di Bin Laden, Massari, Bolsena 2003, ha il merito di tracciare
sobriamente la biografia di Bin Laden, compresi i molti rapporti della sua
famiglia con quella di Bush.
- Va segnalato inoltre un libro di Giulietto Chiesa, giornalista
appassionato e documentatissimo, scritto in una fase in cui l'attacco
all'Iraq non era ancora all'ordine del giorno. Il libro (La guerra infinita,
Feltrinelli, Milano 2002, poi piu' volte ristampato) affronta tra l'altro il
problema della fragilita' degli indizi che portavano a Bin Laden, e che
comunque casomai avrebbero dovuto spingere a indagare nei paesi (Arabia
Saudita, Emirati ed Egitto) da cui provenivano i presunti dirottatori (o
almeno i loro passaporti), invece di bombardare ferocemente l'infelice
Afghanistan, la cui vicenda Giulietto Chiesa conosce bene direttamente e su
cui ha scritto vari libri. "La verita', se mai verra', non la si trovera'
prima dei prossimi cento anni", scrive. Probabilmente mai, credo, ma
possiamo ricostruire le menzogne usate per nascondere i veri responsabili, e
Chiesa lo fa ottimamente, utilizzando soprattutto materiali statunitensi.
Meno convincenti la sua interpretazione della "nascita dell'Impero",
soprattutto perche' concentrata sul breve periodo, successivo al
disfacimento dell'Urss, e la sua tesi dell'avvento di una super-societa'
globale. In ogni caso Chiesa coglie molto bene che la molla fondamentale che
spinge a questa "guerra infinita" e' la prospettiva di prepararsi a
fronteggiare in un domani non lontano la Russia e soprattutto la Cina, anche
se e' un po' ottimista sulla "irriducibile diversita'" di quest'ultima,
dovuta probabilmente a una sottovalutazione della portata delle
trasformazioni gia' avviate e del significato dell'entrata nel Wto. Ma,
anche se e' piu' una concorrente economica che un'antagonista erede delle
idee del cosiddetto "Impero del Male", non c'e' dubbio che la Cina sia una
delle preoccupazioni maggiori del gruppo dirigente statunitense, e che la
guerra in Afghanistan abbia avuto tra i suoi obiettivi non secondari quella
di installare basi militari in paesi vicini ai suoi confini occidentali.
*
4. Qualche aggiornamento sui libri piu' recenti
- Su quest'ultimo aspetto affrontato da Rodriguez e' uscito ora un libro del
giornalista francese Eric Laurent, La guerra di Bush, Fandango, Roma 2003.
Eric Laurent nel 1991 aveva pubblicato insieme a Pierre Salinger (gia'
consigliere di Kennedy) un'impressionante documentazione sulle 207 imprese
occidentali (86 tedesche, 18 statunitensi, altrettante britanniche, 16
francesi e 12 italiane), che fino a pochi giorni della guerra avevano
continuato a rifornire Saddam di armi di ogni genere, comprese quelle
chimiche e batteriologiche. Oggi Eric Laurent ricostruisce in primo luogo, e
perfino con un eccesso di particolari, i retroscena dei vari cambiamenti
della politica statunitense e dei rapporti tra i diversi esponenti del
governo, tra essi e i principi sauditi, ecc. Laurent descrive
l'impressionante "conflitto di interessi" rappresentato dall'intreccio tra
le industrie belliche (ad esempio la Carlyle tra i cui dirigenti c'e' George
Bush senior, e tra i principali azionisti la famiglia Bin Laden, con cui non
sarebbe affatto stato reciso il rapporto neppure dopo l'11 settembre) e
l'amministrazione statunitense, a cui "patriotticamente" forniscono a caro
prezzo armi terribili. Ma nel complesso il libro, pur sostenendo tesi
condivisibili (ad esempio ridimensiona l'obiettivo della conquista del
petrolio iracheno escludendo che sia la causa prevalente o esclusiva di
questa guerra), e' di gradevole lettura ma poco utilizzabile perche' non
indica le fonti, se non in una sommaria bibliografia al termine di ciascun
capitolo.
- Documentatissimo invece e' il libro di Sergio Finardi e Carlo Tombola, Le
strade delle armi, Jaca Book, Milano 2002, anche se ha poche notizie
riguardanti direttamente l'Iraq perche' per ovvie ragioni i fornitori dopo
il 1991 cercano di occultare i loro traffici. Ma pur essendo molto
"tecnico", questo denso saggio fornisce preziose indicazioni sulla "guerra
come affare" e sulla militarizzazione del sistema dei trasporti. Varra' la
pena di riparlarne piu' ampiamente.
- Un nuovo libro dello studioso britannico Nafeez Mosaddeq Ahmed, Dominio.
La guerra americana all'Iraq e il genocidio umanitario, Fazi, Roma 2003, e'
invece da segnalare per l'abbondanza di informazioni ben documentate e la
capacita' di ricercare nella storia recente le cause profonde di questa
guerra, non riducibili ai moventi immediatamente economici. Il giovane
studioso (e' nato nel 1978) coglie bene la dialettica tra i diversi moventi
che confluiscono nel progetto di ricostruzione di un meccanismo di controllo
imperialista piu' sofisticato di quello coloniale, basato sul progetto di
utilizzare l'alleanza angloamericana per costruire in Iraq un potere locale,
una specie di "imperialismo vicario" capace di ristrutturare l'intero Medio
Oriente. Come aveva gia' dimostrato nel libro sugli attentati dell'11
settembre, Nafeez Mosaddeq Ahmed e' abilissimo nello smontare le
mistificazioni della propaganda di guerra contro Saddam, ed e' per questo
forse il piu' utile dei libri apparsi in questo drammatico momento.
- Un libro prezioso per il rigore metodologico e l'organicita' e' quello di
Pierre-Jean Luizard, La questione irachena, Feltrinelli, Milano 2003.
Luizard conosce a fondo l'Iraq, dove si e' recato per la prima volta nel
1973, quando era gia' cominciata l'ascesa di Saddam Hussein, di cui non
nasconde nulla, ma sa bene che "non e' il demonio, e nemmeno un
extraterrestre" bensi', come e' ovvio ma spesso dimenticato, "e' il prodotto
di una societa' e di una storia". L'Iraq, aggiunge "per sua sventura ha
l'insigne privilegio di concentrare in se' tutte le contraddizioni del
mondo". Forse non tutte, possiamo aggiungere, ma molte. E Luizard, che in
Iraq era arrivato con i pregiudizi e gli schemi ideologici di un giovane
comunista francese, oggi dedica grande attenzione ai fattori religiosi che
allora aveva sottovalutato se non liquidato, prevedendo che sarebbero presto
"scomparsi tra i rifiuti della storia". La sua ricostruzione giustamente
parte dal trapasso dal regime ottomano alla dominazione britannica, seguendo
quel processo in tutti i suoi aspetti, dalle contraddizioni
interimperialiste (compresi gli effetti della mitizzazione dei 14 punti di
Wilson) agli scontri tra le diverse correnti dell'amministrazione coloniale
britannica. Un capitolo molto interessante ricostruisce nell'arco di un
secolo l'atteggiamento dell'Iran verso l'Iraq (che Teheran riconobbe solo
nel 1929), mentre quello dedicato alla politica statunitense - pur senza
rivelazioni particolari - analizza bene le oscillazioni periodiche e la
prolungata indulgenza verso i crimini di Saddam, corteggiato per staccarlo
dall'Urss prima, per scagliarlo contro l'Iran khomeinista poi, e sempre
considerato un ottimo cliente e quindi elogiato come "elemento di
stabilita'" fino a pochi giorni prima dell'invasione del Kuwait, a cui viene
praticamente incoraggiato fino all'ultimo dalle dichiarazioni di
"disinteresse per i conflitti interarabi" fatte dall'ambasciatrice
statunitense April Glaspie. Insomma un libro che si stacca nettamente dalla
maggior parte di quelli improvvisati su commissione negli ultimi mesi.
- Tra i quali invece si colloca il contraddittorio Dies Iraq. Dal regime di
emergenza al dopo Saddam Hussein, scritto da Calogero Carlo Lo Re per
l'editore Castelvecchi, che ha scritto anche la prefazione. Il libro e'
presentato come se fosse stato scritto in collaborazione con
"Internazionale" solo perche' riporta nella parte conclusiva tre articoli
diversissimi tra loro tratti da quella rivista. Il difetto principale e' la
mancanza di indicazione delle fonti, tranne che nella prima parte ("Quale
futuro per l'Iraq?") che e' ricca di citazioni, ma quasi tutte tratte da
"Repubblica" o da altri quotidiani, o magari dalle esternazioni del generale
Jean su "Limes", mentre la parte storica - piena di buone intenzioni - non
ha una nota, e presenta evidenti dislivelli tra le singole parti (che una
minuscola nota editoriale riconduce a diversi autori), con banalita' come la
comparazione tra Saddam e Nabucodonosor. Insomma un libro che ci si puo'
anche risparmiare, come abbiamo fatto per molti altri, dopo averli scorsi
sui banchi delle librerie, una volta verificato che si copiavano tra loro.
Un'autodifesa necessaria dall'alluvione editoriale.

4. RIFLESSIONE. IDA DOMINIJANNI INTERVISTA VICTORIA DE GRAZIA
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 5 aprile 2003. Ida Dominijanni e' una
prestigiosa giornalista e saggista impegnata per la pace e i diritti. Su
Victoria de Grazia lo stesso quotidiano allega la seguente breve scheda:
"Victoria de Grazia insegna storia contemporanea dell'Europa occidentale
alla Columbia University di New York e si occupa in particolare di cultura e
consumi nelle societa' di massa, gender history, politiche della famiglia.
Fra i suoi libri, The Culture of Consent: Mass Organization of Leisure in
Fascist Italy (1981, trad. it. Consenso e cultura di massa nell'Italia
fascista: l'organizzazione del dopolavoro, Laterza 1981, di prossima
ripubblicazione per Einaudi); How Fascism Ruled Women: Italy, 1922-1945
(1992, trad. it. Le donne nel regime fascista, Marsilio 1993); e, con Sergio
Luzzato, il recente Dizionario del fascismo, Einaudi, di cui sta per uscire
il secondo volume. In cantiere, anticipato da alcuni saggi, un nuovo libro
sull'americanizzazione della societa' dei consumi europea novecentesca"]
C'e' nelle universita' americane, dai tempi d'oro del movimento degli anni
Sessanta, la consuetudine di organizzare dei grandi incontri a piu' voci per
ragionare informalmente sugli eventi del presente con la competenza e le
capacita' analitiche che la polemica politica brucia. Si chiamano teach-in,
tutti - docenti, studenti, testimoni, esperti - portano il loro contributo
alla discussione. Alla Columbia University di New York, racconta Victoria De
Grazia che la' insegna storia europea contemporanea, se ne e' tenuto uno
sulla guerra in Iraq pochi giorni fa, nella Low Library, la sala piu'
solenne del campus, la stessa che ospitava i sit-in contro la guerra in
Vietnam. E invece che il solito centinaio di persone, ne sono arrivate
tremila, tutte li' ad ascoltare con grande tensione trenta interventi per
quasi sei ore. Tutto bene, finche' uno dei docenti - non di ruolo, mentre
era previsto che parlassero solo quelli di ruolo, che se si espongono troppo
sono piu' garantiti - ha concluso il suo intervento invocando "cento, un
milione di Mogadiscio". A quel punto, racconta De Grazia, apriti cielo:
articoli sui giornali su Columbia antipatriottica, pioggia di e-mail di
protesta, donatori che rifiutano di dare ancora finanziamenti al campus se
il docente incriminato non verra' licenziato. "E' un piccolo sintomo del
clima con cui hanno a che fare la protesta no-war e il tentativo di
squarciare il reportage ufficiale della guerra con degli argomenti
pertinenti".
- Ida Dominijanni: Vuoi dire che la retorica ufficiale oltre a essere di
parte e' anche inconsistente?
- Victoria de Grazia: Completamente. L'amministrazione Bush sta facendo la
guerra in un'area geopolitica e culturale di cui ignora tutto. E ha mandato
sul campo corrispondenti poco dotati di spirito indipendente, giornalisti
"embedded" nelle truppe che a loro stesso dire non possono far altro che
identificarsi con obiettivi, linguaggio, metodi dei militari. Il discorso
ufficiale sulla guerra si nutre di queste fonti.
- I. D.: Ma e' l'unico discorso visibile, dicono i no-war. Che lamentano di
essere stati totalmente oscurati dai media americani. E tuttavia, mi pare,
si sono impossessati della Rete, che non e' un medium da poco...
- V. d. G.: Si', l'opposizione alla guerra, che e' assai vasta vasta
checche' ne dicano i sondaggi, e' pressoche' assente nei reportage dei
grandi network televisivi, ma e' ben organizzata in Rete. Ti segnalo uno
spostamento significativo in atto nel campo no-war, che ruota su
un'inversione di significato del patriottismo. Ci si sta rendendo conto che
la destra ha potuto giocare troppo a lungo indisturbata sul monopolio del
patriottismo, facendone un sinonimo dello scontro di civilta'. E invece
nella storia americana c'e' sempre stato un patriottismo critico, l'idea che
e' davvero fedele ai valori costituzionali solo chi sa anche criticare il
potere impugnando la liberta' di parola. E' di questa tradizione che vuole
impossessarsi adesso il movimento contro la guerra, per conquistare nuove
fette di opinione pubblica. E a me pare uno spostamento significativo. Che
illumina anche sulla diversita' fra i no-war di oggi e quelli del Vietnam:
allora c'era la guerra fredda, l'opposizione si pensava contro il sistema,
non si metteva a decostruirne le parole d'ordine.
- I. D.: Capisco l'importanza di affermare che patriottica e' la fedelta' ai
valori costituzionali, compresa la liberta' di parola, e non la guerra
preventiva. Ma questo "patriottismo critico" non rischia di perimetrare
dentro i confini nazionali l'opposizione americana alla guerra? Mentre mi
pare che la cifra piu' importante del nuovo pacifismo sia la sua dimensione
globale...
- V. d. G.: Certo, non e' facile tenere assieme questa posizione no-war
"patriottica" e quella internazionalista. Ma e' anche vero che negli Stati
Uniti l'opposizione potenziale alla guerra e' fatta di molti strati. C'e' il
movimento dei movimenti, che mantiene la sua cifra globale. Ma c'e'
un'opinione pubblica piu' vasta, che comincia a realizzare che la politica
di Bush e' lesiva degli interessi nazionali e internazionali, e che la pace,
oltre che giusta, e' necessaria per andare avanti. E' su questo strato che
puo' incidere il ribaltamento di segno del patriottismo.
- I. D.: Quanto e' solido secondo te il consenso alla guerra? I sondaggi
sparano cifre alte, sono cifre realistiche?
- V. d. G.: Coi sondaggi c'e' sempre il solito problema: i risultati
dipendono da come e a chi vengono poste le domande. Chiediamoci piuttosto:
di che tipo di consenso avrebbe avuto bisogno Bush per fare questa guerra?
Bush e' un presidente senza mandato presidenziale, visto il modo in cui e'
stato eletto. E non ha neanche un vero mandato per la guerra: il 60% di
consensi di cui dispone non si puo' considerare tale, perche' non e' chiaro
"che cosa" appoggi questo 60%, che e' stato condizionato da aspettative non
mantenute: la guerra doveva essere veloce e invece ristagna, senza morti o
almeno senza morti in tv e invece i morti ci sono e si vedono, con gli
iracheni che accoglievano festanti i liberatori e di iracheni festanti se ne
trovano pochi. Dunque, quel mandato e' labile. E poi c'e' il problema del
consenso interno all'amministrazione e ai grandi poteri, a sua volta
tutt'altro che saldo: stanno venendo fuori controversie interne
all'esercito, perplessita' fra i repubblicani, contrasti nel mondo
dell'economia e della finanza: a essere convinto della guerra e' solo un
settore molto ristretto del capitalismo americano, le ditte a cui Cheney
distribuisce appalti per la ricostruzione irachena, ma intanto l'economia di
New York e' molto depressa, la disoccupazione dilaga, il saliscendi del
prezzo del petrolio fa felici gli speculatori ma non gli industriali, la
disgregazione sociale e' sempre piu' spaventosa e non puo' reggere a lungo i
tagli alle tasse e ai servizi e le spese militari che servono a Bush. Per
non parlare dei malumori all'interno delle Chiese, quella cattolica in
particolare, fin qui tenuti sotto silenzio. Le fessure del consenso dunque
sono tante. E si riflettono anche nella confusione del discorso dei media.
Se stai davanti alla tv per tre o quattr'ore ne senti di tutti i colori: il
ritornello patriottico "we, we, we" e' sempre lo stesso, ma per il resto i
messaggi sono molto contraddittori. E sugli errori dei militari, tipo
l'uccisione "preventiva" di civili ai check-point, anche i grandi media
cominciano a sollevare un putiferio.
- I. D.: Guardando all'America di Bush - e del resto, anche all'Italia di
Berlusconi - mi capita di chiedermi: com'e' potuto accadere, che cosa ha
preparato questo esito, senza che ce ne accorgessimo, qui da noi e la' da
voi? Adesso e' chiaro che tutto, dall'attacco all'Iraq alla National
Security Strategy, era in incubazione da piu' di un decennio, nel gruppo dei
neoconservatori che con Bush sono andati al potere. Che cosa non abbiamo
visto, dell'America degli anni Novanta?
- V. d. G.: Tutto comincia negli anni Ottanta, in realta'. Gia' prima del
crollo dell'Unione Sovietica si era aperto un dibattito aspro sulla crisi
dell'egemonia americana, attorno a un libro di Paul Kennedy, The Rise and
Fall of Great Powers. Poi l'Ottantanove e i vantaggi economici di una
globalizzazione rapidissima hanno inabissato la questione, che pure
riaffiorava periodicamente: penso alle tesi di Joseph Nye su un rilancio di
egemonia basata su un soft power, ad esempio. Ma il tema riemerge davvero
con la faccia dura dello "scontro di civilta'" teorizzato da Samuel
Huntington: e' li' che si delinea l'idea di un potere nuovo, forte,
identitario, incardinato sulla contrapposizione Noi-Loro, Bene-Male. Ed e'
li' che comincia, promosso non dal mondo islamico ma dalla cultura
americana, il conflitto fra fondamentalismi.
- I. D.: Una riedificazione molto rapida del Nemico: il primo articolo di
Hungtington e' del '93, sono bastati quattro anni per sostituire lo scontro
capitalismo-comunismo con quello Occidente-Islam...E' cosi' importante, la
figura del Nemico, per l'identita' americana?
- V. d. G.: E' costitutiva della destra americana. E la nuova destra era
cresciuta molto, negli anni Ottanta di Reagan.
- I. D.: Ma se gia' negli anni Novanta la posta in gioco era il ruolo di
potenza degli Stati Uniti, e se gia' allora la destra neoconservatrice stava
delineando l'esito che vediamo oggi, non dobbiamo retrospettivamente
rivedere anche il giudizio su Clinton? Forse, almeno in Europa, abbiamo
sottovalutato che cosa stesse arginando.
- V. d. G.: Il problema e' che lo stesso Clinton non sembrava aver capito
che la posta in gioco era questa. Ha puntato molto di piu' sulla politica
interna, parando i colpi continui che gli arrivavano dalla destra sulla
riforma sanitaria, sul sexgate e su tutto il resto. Ma non ha saputo
impostare una politica estera all'altezza del momento: non si e' reso conto
che la caduta dell'Urss e la globalizzazione rendevano urgente una grande
ristrutturazione del potere internazionale, politico - a cominciare dalla
costruzione e dal ruolo dell'Europa - ed economico - a cominciare dalla
riforma delle istituzioni ormai decrepite ereditate da Bretton Woods. E'
vero tuttavia che al momento dello scontro elettorale del 2000 fra Bush e
Gore non era chiaro, neanche per noi americani, quali diverse concezioni
della potenza statunitense si stessero confrontando. Anzi, pareva piu'
pericoloso l'interventismo dei diritti umani di Clinton, che aveva
legittimato la guerra in Kosovo, che l'isolazionismo di Bush, il quale
oltretutto ostentava posizioni critiche verso alcune scelte militari del
padre. Non era scontato ne' prevedibile, lo spostamento di Bush
dall'isolazionismo alla protervia militare dell'unilateralismo. E piu' che
alla sua persona va ricondotto a una tendenza di lungo periodo: a una destra
che dopo la fine della guerra fredda cerca un nuovo modo di stare al mondo,
e vuole a tutti i costi contrastare il multilateralismo che puo' emergere
dalle ceneri del bipolarismo. Del resto, questa destra non ha mai
riconosciuto il ruolo delle Nazioni Unite...
- I. D.: Questa destra non tollera neanche l'Europa, o meglio il progetto di
costruzione dell'Europa. L'amministrazione Bush l'ha contrastato fin da
subito in tutti i modi che erano in suo potere. Adesso si parla molto di un
antieuropeismo americano: quanto diffuso, secondo te?
- V. d. G.: Sull'Europa non c'e' sempre la conoscenza che sarebbe necessaria
nei confronti di un alleato. L'amministrazione si rende conto di avere di
fronte una nuova regione forte, un'entita' economica e potenzialmente
politica da contrastare. E certo c'e' un attacco, gia' cominciato con
Reagan, al modello europeo di stato sociale, e al modello giuridico,
insidiato dalla produzione normativa delle multinazionali americane.
- I. D.: Parliamo della memoria e dell'uso della memoria. La retorica
pro-war e' infarcita di paragoni con la seconda guerra mondiale: Saddam come
Hitler, gli americani liberatori dell'Iraq oggi come dell'Europa nel '45
eccetera. Piu' d'uno storico americano ha protestato contro questi
riferimenti disinvolti.
- V. d. G.: Il paragone con la seconda guerra mondiale e' una grande trovata
di quelli come Bush che non hanno fatto la guerra del Vietnam e
dall'esperienza del Vietnam non hanno imparato nulla. Orecchiano la storia
dei loro padri, che la generazione del Vietnam aveva contestato, e la
riciclano a proprio uso e consumo. Non conoscono Spielberg ma solo John
Wayne. Pensano all'accoglienza degli americani sugli Champs Elysees e non si
ricordano Paisa'. Comunque il rimosso del Vietnam torna a galla: i problemi
militari della guerra in Iraq presentano forti somiglianze con alcuni
aspetti della guerra in Vietnam, a cominciare dal problema di come si
distinguono i civili dai terroristi.
- I. D.: Ancora sulla memoria, ma dell'11 settembre, "il" movente della
guerra secondo la vulgata corrente. Dopo piu' di un anno e mezzo, ci sono
tracce di una elaborazione del trauma dell'11 settembre diversa da quella
ufficiale?
- V. d. G.: E come potrebbero farsi strada? La ferita dell'11 settembre e'
stata immediatamente espropriata e saturata dalla lotta al terrorismo e
dalle dichiarazioni di guerra. E in un paese come gli Stati Uniti, che gia'
di per se' si presta alle reazioni paranoiche: dal panico degli anni
Cinquanta per l'arrivo dei marziani in poi, siamo sempre pieni di vigilantes
contro gli spettri... E' un altro tratto del fondamentalismo, questo panico
diffuso, che il governo ha buon gioco ad alimentare. Certo, c'e' anche
un'altra faccia della societa' americana, la comunita' che reagisce alla
catastrofe mettendosi al lavoro e facendo quello che c'e' da fare: la faccia
di Giuliani a Ground Zero, il medico a bordo che contiene l'ansia... Ma la
rappresentazione largamente prevalente dell'11 settembre e' stata quella di
un'opera del demonio, della catastrofe imminente propria di una certa
religiosita' cristiana superstiziosa e autopersecutoria.
- I. D.: Come se anche attorno a Ground Zero si confrontassero due Americhe,
con Bush che incarna il cuore nero dell'America profonda?
- V. d. G.: Si', e puntando a quel cuore nero ci ha messo due giorni per
ristrutturare in un certo modo la memoria dell'11 settembre.
- I. D.: Un'ultima questione, tornando ancora agli ultimi decenni con lo
sguardo di oggi. Ripensando ai lunghi dibattiti sulla societa' giusta, sui
diritti e sul multiculturalismo che hanno occupato la scena intellettuale
democratica americana fra anni Ottanta e anni Novanta, viene da dire che non
hanno retto alla prova dei fatti, se nell'urto reale con la globalizzazione
passa la soluzione dello scontro di civilta'. C'erano dei limiti, e secondo
te quali, in quell'approccio?
- V. d. G.: Io ne vedo tre. Primo, si e' preso molto sul serio il
multiculturalismo pensando che il modello multiculturale del patto sociale
americano potesse funzionare in tutto il mondo, mentre nella realta' la
globalizzazione sollevava una morfologia del conflitto piu' complessa,
mostrando quanto le politiche occidentali possano sconvolgere gli equilibri
di altre societa'. Secondo, nel passaggio da una visione dell'egemonia
americana fondata sugli standard di vita economici - gli interventi tipo
Piano Marshall, per capirci - a una visione fondata sui diritti civili non
si e' voluto vedere che i diritti civili sono fragili senza cittadinanza
sociale. Terzo, l'intellettualita' radical, con la sua formazione
prevalentemente umanistica, si e' concentrata molto sui temi della cultura,
dell'immaginario e dell'immateriale e troppo poco sull'analisi dei poteri,
degli armamenti e dell'economia dopo la guerra fredda. Che intanto si
ristrutturavano, e adesso si vede.

5. MEMORIA. BENITO D'IPPOLITO: PER OSCAR ROMERO
[Ricorrendo gioni fa l'anniversario dell'uccisione di monsignor Oscar
Romero, l'arcivescovo di San Salvador assassinato il 24 marzo 1980 mentre
celebrava la messa, il nostro collaboratore Benito D'Ippolito ha scritto e
ci ha inviato in guisa di piccola commemorazione le righe seguenti. Oscar
Arnulfo Romero, nato nel 1917, arcivescovo di San Salvador, voce del popolo
salvadoregno vittima dell'oligarchia, della dittatura, degli squadroni della
morte. Muore assassinato mentre celebra la messa il 24 marzo 1980. Opere di
Oscar Romero: Diario, La Meridiana, Molfetta 1991; Dio ha la sua ora, Borla,
Roma 1994 Opere su Oscar Romero: AA. VV., Il vescovo Romero, martire della
sua fede, per il suo popolo, Emi-Asal, Bologna 1980; AA. VV., Romero... y lo
mataron, Ave, Roma 1980; James R. Brockman, Oscar Romero: fedele alla
parola, Cittadella, Assisi 1984; Placido Erdozain, Monsignor Romero, martire
della Chiesa, Emi, Bologna 1981; Abramo Levi, Un vescovo fatto popolo,
Morcelliana, Brescia 1981; Jose' Maria Lopez Vigil, Oscar Romero. Un mosaico
di luci, Emi, Bologna 1997; Ettore Masina, Oscar Romero, Edizioni Cultura
della Pace, S. Domenico di Fiesole 1993 (poi riedito, rivisto e ampliato,
col titolo L'arcivescovo deve morire, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1995);
Jon Sobrino, Monsenor Romero, Uca, San Salvador 1989]

Prima di essere Romero Romero
non era ancora Romero. Tutti
dobbiamo divenire cio' che siamo
e che non siamo finche' non ci troviamo
a quell'antico bivio della scelta.

Era Romero uomo di fede
ma la sua fede non era ancora
la fede di Romero, prima occorse
che quella fede nella fede lo trovasse
gliela recasse un popolo piagato.

Cosi' dall'astratto al concreto
dicono certi antichi dottori
muovesi il mondo, il mondo vecchio e stanco
cosi' si mosse anche Oscar Romero
muovendo incontro a verita' e martirio.

Dicono: cosa si puo' fare? Nulla.
E dicono anche: cosa
si puo' fare? Tutto.
E non e' vero. Ma quel che e' da fare
tu fallo, e cosi' sia.

Sotto lo sguardo degli assassinati
Oscar Romero incontro' se stesso
sotto lo sguardo degli assassini
incontro' se stesso Oscar Romero.

Viene sempre quell'ora inesorabile
in cui devi levare la tua voce.
Tu non vorresti, vorresti restare
nel silenzio che sa molte lusinghe
molti segreti, e molti pregi reca.
Ma viene sempre l'ora della voce.

Venne quell'ora per Oscar Romero
a rivelargli il volto e il nome suo
venne quell'ora recata dal silenzio
degli assassinati e recata dal silenzio
degli assassini, e giungi al paragone.

Prese ad un tempo la parola e la croce
e messosi alla scuola degli scalzi
ne fu piu' che avvocato, compagno.
Sapeva anche lui dove quella portava
strada, sapeva anche lui quale suono
avrebbe spento un giorno la sua voce.

Come chiodi che secco un martello
nel legno batte e conficca, il colpo
della pallottola irruppe nel suo corpo
fatto legno, fatto vino, fatto croce
fatto pane, fatto luce, per sempre
raggiunse Romero Romero, ormai voce
per sempre dell'intera umanita'.

6. RIFLESSIONE. DANILO ZOLO: UN CRIMINE INTERNAZIONALE PREMEDITATO
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 3 aprile 2003. Danilo Zolo, illustre
giurista, e' nato a Fiume (Rijeka) nel 1936, docente di filosofia e
sociologia del diritto all'Universita' di Firenze; tra le sue opere
segnaliamo almeno: Stato socialista e liberta' borghesi, Laterza, Bari 1976;
Il principato democratico, Feltrinelli, Milano 1992; (a cura di), La
cittadinanza, Laterza, Roma-Bari 1994; Cosmopolis, Feltrinelli, Milano 1995;
Chi dice umanita', Einaudi, Torino 2000]
Bagdad e Bassora sono sotto le bombe da oltre dieci giorni. Bassora e' anche
assediata. Centinaia di miglia di persone sono allo stremo, senza viveri,
senz'acqua, senza elettricita', senza medicine. La Croce Rossa
internazionale ha segnalato che la vita di almeno centomila bambini e' in
grave pericolo. Si stanno diffondendo i primi casi di colera. Citta'
strategiche come Najaf e Nasiriyah, sulla strada per Bagdad, sono state
colpite anche con le devastanti cluster bombs e con l'uso di proiettili
all'uranio impoverito. Si prevede che ordigni micidiali come gli air fuel
explosives, gia' largamente sperimentati nel 1991, come la nuovissima
superbomba Moab e come le prime armi nucleari tattiche prodotte
dall'industria bellica americana verranno usate per la "soluzione finale".
L'Iraq Body Count (www.iraqbodycount.org), una organizzazione indipendente
che seleziona, controlla e aggiorna in tempo reale i dati relativi alle
vittime civili della guerra, calcola che sinora il loro numero si aggira fra
le 565 e le 724 unita'. I morti fra i combattenti iracheni sono migliaia.
Soltanto nella battaglia attorno a Najaf sono stati sterminati oltre mille
soldati del battaglione Medina della Guardia Repubblicana. Il loro attacco
e' stato sprezzantemente giudicato "futile and fanatical" dai commentatori
americani.
Nel frattempo l'ora decisiva per la conquista di Bagdad si sta avvicinando.
Altre migliaia - probabilmente decine di migliaia - di vittime civili e
militari verranno immolate per la "liberazione" di quello che restera' del
popolo iracheno, delle sue citta', dei suoi monumenti, della sua antica
civilta' mesopotamica.
L'American Enterprise Institute, che raccoglie l'avanguardia intellettuale
dell'amministrazione Bush, sostiene che e' ormai necessario l'allargamento
del conflitto all'Iran. Lo riferisce William Pfaff, uno dei piu' autorevoli
commentatori dello "International Herald Tribune". Michael Ledeen, esponente
di spicco dell'Enterprise Institute, ha dichiarato che la guerra contro
l'Iraq e' una "guerra epocale", perche' e' stata studiata per "cambiare
completamente il mondo" (a war to remake the world). Il primo ministro
israeliano, Ariel Sharon, in visita al Congresso americano, aveva gia'
sostenuto che era necessario allargare subito il conflitto anche alla Siria
e alla Libia, per confiscarne gli armamenti nucleari. E il sottosegretario
di Stato John Bolton gli aveva fatto eco annunciando che il primo colpo,
dopo la liberazione dell'Iraq, sarebbe stato inferto alla Corea del Nord.
Questo e' lo scenario apocalittico nel quale gli Stati Uniti e i loro
alleati anglofoni e israeliani stanno inabissando l'umanita' intera, mentre
il mondo assiste impotente nonostante la vittoria morale del pacifismo. Le
Nazioni Unite sono in frantumi. Il diritto internazionale e' nelle mani di
diplomatici e di giuristi complici o impotenti. Discutono se lo sterminio
della popolazione irachena da parte degli aggressori possa essere
considerato un crimine di guerra, visto che non e' facile provare che
l'uccisione dei civili e' intenzionale. La nuova Corte penale internazionale
(Icc), per bocca del suo vicepresidente Elizabeth Odio, si augura
candidamente che sia il Consiglio di Sicurezza a denunciare al tribunale i
responsabili statunitensi di crimini di guerra. Giuristi e giudici
internazionali ricordano sempre piu' quegli intellettuali di cui Bertold
Brecht diceva che dipingono nature morte sulle pareti di una nave che
affonda.
E gia' si profila anche in Iraq il cono d'ombra della vendetta terroristica.
Il terrorismo suicida, con la sua sfida mortale, sembra ormai la sola
replica possibile al terrorismo dei mezzi di distruzione di massa. Esprime
l'odio per il mondo e per la vita da parte di coloro cui e' stato tolto
tutto. Non solo il Medio oriente, ma il mondo intero rischia di diventare
un'unica Palestina. Forse non a torto Jean Baudrillard ha sostenuto che il
kamikaze palestinese, vittima di una umiliazione insostenibile, e' il
prodotto specifico della globalizzazione egemonica. E forse e' anche il
simbolo della fine della civilta' occidentale e dei suoi valori.

7. APPELLI: UNIONE DONNE ITALIANE: SALVIAMO LA VITA DI AMINA LAWAL
[Ringraziamo Rosangela Pesenti (rosangela_pesenti@libero.it) per averci
inviato questo comunicato dell'Unione Donne Italiane (Udi) del 28 marzo 2003
che chiama alla mobilitazione per la salvezza di Amina Lawal, la donna
nigeriana condannata a morte per lapidazione per aver generato una creatura
fuori dal matrimonio]
Difendiamo il diritto di Amina alla vita e alla dignita' che spetta ad ogni
essere umano.
Ci uniamo a chi si sta battendo per la sua salvezza e per la cancellazione
di un codice persecutorio nei confronti delle donne.
Le donne sono discriminate due volte come cittadine e come genere e quindi
subiscono doppia violenza: la mancanza dei diritti e la sopraffazione del
corpo. L'essere madri in molti casi  diventa non solo irrilevante ma
un'aggravante.
La pressione per la salvezza di Amina oggi, deve diventare il segno visibile
di un nostro impegno perche' i diritti delle donne siano considerati diritti
umani ovunque secondo la piattaforma di Pechino del 1995.

8. LETTURE. NAOMI KLEIN: RECINTI E FIRENZE
Naomi Klein, Recinti e finestre, Baldini & Castoldi, Milano 2003, pp. 254,
euro 15,80. Una raccolta di interventi scritti tra il 1999 e il 2002
dall'autrice di No logo (un libro giornalistico-saggistico che ha avuto una
circolazione e un'influenza assai ampia), appassionata militante, testimone
e studiosa del "movimento dei movimenti" che si batte contro guerra e
ingiustizie globali.

9. RILETTURE. FATEMA MERNISSI: ISLAM E DEMOCRAZIA
Fatema Mernissi, Islam e democrazia, Giunti, Firenze 2002, pp. 222, euro 12.
Segnaliamo ancora una volta questo libro di grande utilita', ne
raccomandiamo vivamente la lettura. L'autrice, Fatema (ma il nome puo'
essere traslitterato anche in Fatima) Mernissi, e' nata a Fez, in Marocco,
nel 1940, docente di sociologia, studiosa del Corano, narratrice; tra i suoi
libri disponibili in italiano: Le donne del Profeta, Ecig, 1992; Le sultane
dimenticate, Marietti, 1992; Chahrazad non e' marocchina, Sonda, 1993; La
terrazza proibita, Giunti, 1996; L'harem e l'Occidente, Giunti, 2000; Islam
e democrazia, Giunti, 2002.

10. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.

11. PER SAPERNE DI PIU'
* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per
contatti, la e-mail e': azionenonviolenta@sis.it
* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia:
www.peacelink.it/users/mir; per contatti: lucben@libero.it;
angelaebeppe@libero.it; mir@peacelink.it, sudest@iol.it
* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it. Per
contatti: info@peacelink.it

LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di
Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac@tin.it

Per non ricevere piu' questo notiziario e' sufficiente inviare un messaggio
con richiesta di rimozione a: nbawac@tin.it

Numero 558 del 6 aprile 2003