“Vieni via con me”. E se un’altra televisione fosse possibile anche in Italia?




Saviano2I due monologhi di Roberto Saviano nella seconda puntata di “Vieni via con me”, il programma di Rai3 lungamente osteggiato dal governo e i suoi bravi, sono stati belli. Così belli da lasciare interdetti se fossero inadeguati al mezzo televisivo, troppo alti, troppo complessi, o se più semplicemente non si sia più abituati a che la televisione si esprima su temi elevati.

di Gennaro Carotenuto

Ad appena una settimana da toni un po’ troppo predicatori, qualche ingenuità sull’antimafia e sfortunate incursioni in territori che non gli sono propri, Roberto deve avere lavorato intensamente ed è cresciuto in maniera convincente mettendo a tacere quella rancorosa (e invidiosa) ondata antisaviano con troppi adepti, soprattutto tra i comunicatori che si dicono di sinistra.

Il monologo sulla ‘ndrangheta al Nord e, in maniera più toccante, il racconto della storia d’amore tra Mina e Piergiorgio Welby sono stati due spezzoni di Italia civile che aiutano a pensare e sperare. Con Mina Welby, Beppino Englaro ha continuato nell’ostinata battaglia, che in troppi vorrebbero tuttora zittire, del mostrare quanto complessa sia la nostra modernità e come sia una camicia di forza il volerla riassumere in un dogma.

L’intervista a Don Andrea Gallo ha restituito al grande pubblico un’altra complessità negata dai media: quella all’interno della chiesa cattolica che si ostinano a disegnare come monolitica. Quel prete genovese ha da dire esattamente le mille cose che il potere, politico, mediatico, ecclesiastico, non vuole sentir dire. Quel “se aiuti i poveri sei un santo, se ti domandi perché sono poveri ti crocifiggono” di Gallo, Ciotti, e di migliaia di preti e cristiani di base amputati dai media alla vista della società. I mille Don Gallo, o li conosci di persona o pensi che il wojtylismo li abbia estinti con bolla papale o, più semplicemente, non sai che esistono.

Per un paio d’ore solo la volgarità di Antonio Albanese e l’inutilità dei due monologhi di Pierluigi Bersani e Gianfranco Fini ci hanno ricordato di essere in Italia e con la melma fino al collo. Bersani e Fini hanno svolto i loro compitini, elencato altre camicie di forza, quelle dei programmi dei loro partiti, che solo vagamente riecheggiano la destra e la sinistra. Erano testi ben scritti ma nulla di più e i pochi primi piani con i quali la regia ha accompagnato i loro interventi testimoniavano la distanza tra la politica e la società. Poi i due politici si sono eclissati e tra breve in pochi ricorderanno la loro presenza, resuscitata solo dalle polemiche dei giornali dove, per il Tempo di Roma, tutta la puntata era costruita per tirare la volata a Fini, sic.

Tuttavia, proprio la presenza di Fini e Bersani, ha rappresentato la grande emergenza che vive un paese dove suona paradossale e quasi rivoluzionario che un politico affermi che chi nasce in Italia, chi vive e lavora in Italia “è” italiano. Se una cosa ovvia diventa eversiva dell’ordine padano esistente allora anche “Vieni via con me”, lungi dall’essere un programma memorabile (ma cosa è memorabile oggigiorno?), sta dimostrando che esistono modelli alternativi all’immaginario televisivo berlusconiano che, contro Rai3, schierava il simbolico pezzo da 90 del “Grande fratello”.

Per il padre di Ruby, la giovane (presunta) prostituta coinvolta nel penultimo scandalo a sfondo sessuale berlusconiano, la figlia era “malata di televisione”. Sono parole che devono farci riflettere. Malata di una televisione commerciale nata per corrispondere esattamente con l’immaginario del “vecchio porco” che doveva farsi collettivo, dagli spogliarelli nelle prime tivù private all’indugiare della telecamera sul corpo della sedicenne Ambra Angiolini, antesignana proprio di Noemi e Ruby. Tale immaginario è stato imposto quotidianamente per trent’anni nelle case di un intero paese e presentato sistematicamente come il migliore dei mondi possibili. Tale immaginario ha prostituito la mente e i cuori ben più dei corpi di centinaia di migliaia se non milioni di Ruby. Milioni di Ruby per i quali Don Gallo non è mai esistito, Rosi Bindi non ha diritto di parola perché non ha vent’anni e non può permettersi la minigonna e Mina Welby o Giorgio Englaro parlano in una lingua incomprensibile di temi che li trovano indifferenti.

In Italia, più che altrove, trent’anni di monoscopio berlusconiano hanno impedito finanche di pensare che “un’altra televisione è possibile”. E allora il programma di Fabio Fazio e Roberto Saviano, che ha la caratteristica di non essere un ridotto del giornalismo d’inchiesta come quelli di Riccardo Iacona o di Milena Gabanelli, e di non essere interno al piccolo mondo sinistrese delle Dandini e dei Guzzanti (Benigni per capirci è un patrimonio mondiale dell’umanità rispetto ad Albanese) denuda una ben più importante evidenza negata dal modello.

Il fatto che ieri sera, in milioni di case, la battaglia del telecomando fosse proprio tra complessità e semplificazione/svilimento dell’esistente rappresentata dal “Grande Fratello” denuda l’evidenza perduta che, per andare in televisione, bisogna aver qualcosa da dire o bisogna aver fatto qualcosa e non che l’andare in tivù sia propedeutico al dire e fare qualcosa nella vita che è l’unica scorciatoia che riescono a vedere oramai più generazioni come Ruby “malate di televisione”. Dimostra che si può intrattenere e riflettere allo stesso tempo e che sia indecoroso, criminale, sostenere che intrattenere debba voler dire innanzitutto puntare a staccar la spina del cervello degli spettatori. Dimostra che, in un contesto mediatico nel quale il monopolio berlusconiano venga messo in crisi, la battaglia non è perduta.

Gennaro Carotenuto su http://www.gennarocarotenuto.it 




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Gennaro Carotenuto per Giornalismo partecipativo
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