La nonviolenza e' in cammino. 801



LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 801 del 6 gennaio 2005

Sommario di questo numero:
1. Peppe Sini: Un appello
2. Riccardo Orioles: Senza alcun padrone
3. Marinella Correggia: Krishnammal che resiste sulla costa
4. Rocco Altieri: Un conflitto irrisolvibile? (parte seconda)
5. Riletture: Amos Oz, Contro il fanatismo
6. La "Carta" del Movimento Nonviolento
7. Per saperne di piu'

1. EDITORIALE. PEPPE SINI: UN APPELLO
Ancora un appello vogliamo rivolgere a tutte e tutti. Oltre a quelli gia'
proposti nei giorni scorsi per sostenere le vittime del maremoto. Oltre a
quelli per non dimenticare che a Falluja Hitler sta vincendo la guerra
mondiale, che solo il disarmo e la nonviolenza possono salvare l'umanita'.
E l'appello e' il seguente: ci e' giunta da Riccardo Orioles la lettera che
di seguito riproduciamo (con minime abbreviazioni e modifiche affinche' nei
dettagli non si perda di vista l'essenziale).
Ora, Riccardo Orioles e' non solo un maestro di giornalismo, che sarebbe
poca cosa, ma di rigore morale e intellettuale. E la sua attivita' e' la
prosecuzione della lotta di Pippo Fava, come seppe cogliere Franco Fortini
in una sua poesia che pubblicammo postuma su questo foglio. Nella lotta per
un'umanita' di libere e liberi (diverse e diversi, ed eguali in diritti) e'
uno dei migliori compagni che conosciamo (compagni nel senso dell'etimo:
coloro che condividono il pane con gli altri).
Il suo notiziario telematico "La Catena di San Libero" e' una delle migliori
cose che circolano nel web. Se mancasse, saremmo tutte e tutti piu' poveri,
e piu' oppressi.
Cosi' prendo la parola e chiedo a chi legge di sostenere il lavoro di
Riccardo Orioles, il suo notiziario, e cio' che Riccardo Orioles
rappresenta.
Nell'anniversario dell'uccisione di Pippo Fava.
*
Chi puo' contribuisca alle spese per la "Catena di San Libero":
- effettuando un bonifico su: Riccardo Orioles, conto BancoPosta 16348914
(abi 07601, cab 16500);
- o anche effettuando una ricarica telefonica (Tim) su 333.7295392.
Chi non potesse scriva almeno una lettera a Riccardo Orioles
(riccardoorioles at libero.it), per iscriversi alla sua newsletter, per dirgli
quanto importante il suo lavoro sia.

2. TESTIMONIANZE. RICCARDO ORIOLES: SENZA ALCUN PADRONE
[Dalla mailing list della "Catena di Sanlibero" (per contatti:
riccardoorioles at libero.it) riceviamo e diffondiamo. Riccardo Orioles e'
giornalista eccellente ed esempio pressoche' unico di rigore morale e
intellettuale (e quindi di limpido impegno civile); militante antimafia tra
i piu' lucidi e coraggiosi, ha preso parte con Pippo Fava all'esperienza de
"I Siciliani", poi e' stato tra i fondatori del settimanale "Avvenimenti",
cura attualmente in rete "Tanto per abbaiare - La Catena di San Libero", un
eccellente notiziario che puo' essere richiesto gratuitamente scrivendo al
suo indirizzo di posta elettronica; ha formato al giornalismo d'inchiesta e
d'impegno civile moltissimi giovani. Per gli utenti della rete telematica vi
e' anche la possibilita' di leggere una raccolta dei suoi scritti (curata
dallo stesso autore) nel libro elettronico Allonsanfan. Storie di un'altra
sinistra. Sempre in rete e' possibile leggere una sua raccolta di traduzioni
di lirici greci, ed altri suoi lavori di analisi (e lotta) politica e
culturale, giornalistici e letterari. Due ampi profili di Riccardo Orioles
sono in due libri di Nando Dalla Chiesa, Storie (Einaudi, Torino 1990), e
Storie eretiche di cittadini perbene (Einaudi, Torino 1999)]

Cari lettori, da ora la "Catena di San Libero" non uscira' piu' su uno dei
siti in cui appariva, i cui nuovi proprietari hanno deciso di farne un sito
di enterteinment e basta. Questo e' un problema per i nostri lettori di quel
sito (che pero' potranno ricevere la "Catena" direttamente sulla loro mail)
ed e' un problema per me, visto che quel sito pagava qualcosa per riprendere
la "Catena". Cessato questo non ho piu' entrate di alcun tipo, e questo
naturalmente crea dei problemi.
Percio' ora mi rivolgo a voi lettori per chiedervi di contribuire
finanziariamente per quanto potete. Questo non vuol dire che "San Libero"
diventa a pagamento: la "Catena" e' sempre gratuita, e' orgogliosa di
esserlo e non intende cambiare. Significa semplicemente che la situazione e'
questa, e mi e' sembrato giusto esporvela cosi' com'e'.
Da parte mia, continuero' a lavorare come al solito: la "Catena" e' uscita
sempre e comunque, anche nei momenti per me piu' difficili, e continuera' a
uscire finche' avro' fiato. E' una cosa che oramai fa parte del panorama
dell'informazione, l'abbiamo costruita insieme, non ha nessuno alle spalle e
non ha alcun padrone. Secondo me, probabilmente vale la pena di
sostenerla...
Buon anno (= utile, felice e allegro) a tutti, e buon lavoro.
*
Per collaborare alla "Catena di San Libero", o per criticarla o anche
semplicemente per liberarsene, basta scrivere a riccardoorioles at libero.it
La "Catena di San Libero" e' una e-zine gratuita, indipendente e senza fini
di lucro. Viene inviata gratuitamente a chi ne fa richiesta. Per riceverla,
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di pressione o altro. Esce dal 1999. L'autore e' un giornalista
professionista indipendente.
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3. ESPERIENZE. MARINELLA CORREGGIA: KRISHNAMMAL CHE RESISTE SULLA COSTA
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 31 dicembre 2004.
Marinella Correggia e' una giornalista particolarmente attenta ai temi
dell'ambiente, della pace, dei diritti umani, della solidarieta', della
nonviolenza. Tra le sue pubblicazioni: Manuale pratico di ecologia
quotidiana, Mondadori, Milano 2000, 2002.
Krishnammal Jagannathan (per contatti: Krishnammal Jagannathan, Lafti,
Vinoba Ashram, Kuthur - 611 105 Nagapattinam District, Tamilnadu, India),
segretaria generale del Lafti, e' insieme a suo marito Jagannathan una delle
piu' grandi figure della nonviolenza nel mondo; su Krishnammal e Jagannathan
cfr. il libro di Laura Coppo, Terra gamberi contadini ed eroi, Emi, Bologna
2002]

I disastri non sono uguali per tutti. Fanno differenze di censo e perfino di
casta. Oltre al fatto che infieriscono sulle stesse popolazioni,
periodicamente; come dire, piove sul bagnato.
"I dalit, gli intoccabili senzaterra vivono nelle aree piu' basse, a maggior
rischio di inondazione; e in fragili capanne ogni volta distrutte. Anche
stavolta le case sono andate distrutte e i raccolti persi. Decine di
migliaia di abitanti sono ricoverati in edifici pubblici, templi e scuole.
Abbiamo iniziato a distribuire riso, coperte, abiti usati".
Questa lettera dalla costa del Tamil Nadu, stato dell'India meridionale
vittima del maremoto, non e' arrivata nei giorni scorsi e non descrive la
devastazione del maremoto. E' invece arrivata due mesi fa per posta insieme
a un dossier completo di foto e ritagli stampa. Del resto, sono da sempre
soggetti ad allagamento i distretti costieri di Nagapattinam, Tanjavur,
Tiruvarur. Mittente del dossier in questione era Krishnammal, una
settantottenne gandhiana che con il marito Jagannathan, novantaduenne,
sposato (lei intoccabile, lui di alta casta: una sfida ancora oggi) nel 1950
poco dopo la cacciata degli inglesi, anima il movimento Sarvodaya ("per il
benessere di tutti") e il Lafti, cioe' "Terra per la liberazione dei
braccianti".
Lafti associa migliaia di contadini coltivatori di riso, ex senza terra, che
con molta fatica ottennero l'applicazione della riforma agraria nei loro
confronti, grazie all'autorevolezza dei due ora anziani "freedom fighters".
Cosi' sono definiti in India coloro che si impegnarono per l'indipendenza
del paese. Gli unici privilegi di questi combattenti sono il rispetto
sociale, una piccolissima pensione e il diritto a viaggiare gratis in
seconda classe sui treni indiani in lungo e in largo. Diritto che
Jagannathan e Krishnammal usano a piene mani: vanno spesso a New Delhi o a
Madras (capitale del Tamil Nadu) per perorare le cause dei braccianti e dei
contadini del Lafti.
*
I dossier periodici di Krishnammal e dei suoi collaboratori sono preziosi
per chi li riceve: servono non solo a dar conto dell'azione socio-politica
ed ecologista di Lafti (lotta contro gli allevamenti intensivi di gamberetti
distruttori delle mangrovie e delle attivita' agricole circostanti,
costruzione di case, campi di addestramento alla lotta nonviolenta, campagne
contro i privilegi di casta, contro i flagelli sociali dell'alcol e della
violenza sulle donne, collegi per bambine e bambini) ma anche a mostrare
all'esterno interessanti dinamiche locali di resistenza ai soprusi.
E perfino, a spiegare come e perche' avvengono la' le inondazioni. Gli
allagamenti, provocati dai cicloni e dalle piogge persistenti, laggiu' sono
abituali, ma solo negli ultimi anni si sono consolidati fenomeni
preoccupanti. In primo luogo, l'alternarsi di alluvioni e annate devastanti
di siccita'; e in cio' c'e' lo zampino dei cambiamenti climatici, certo non
provocati dai senzaterra (anzi, con poca terra). In secondo luogo, il
ristagno idrico che per lunghi periodi dopo le piogge sommerge le colture,
distruggendole. La colpa e' dell'incuria delle istituzioni locali - che non
compiono le necessarie opere di drenaggio dei canali, ne' assistono a
sufficienza i contadini danneggiati. Ma molti danni fa anche il business dei
gamberetti per l'esportazione (dopo il disastro di questi giorni ovviamente
gli allevamenti sono del tutto distrutti).
Il dossier di Krishnammal da' conto di alcune richieste fatte in novembre
dal Lafti, dal panchayat (consiglio popolare) del distretto di Tiruvarur e
dall'associazione contadini del Delta del Cauvery: "Chiudere gli allevamenti
intensivi di gamberetti sulla costa che, come denuncio' invano nel 1996 la
Corte Suprema indiana bandendoli, impediscono alle acque piovane di defluire
verso il mare e distruggono il sistema delle mangrovie che protegge dalla
furia dell'acqua. Il riso e i gamberetti non possono coesistere...".
Nei giorni scorsi, il nemico e' venuto dal mare. Non ha colpito i villaggi
del movimento Lafti ma ne ha distrutti altri i cui abitanti sostenevano le
lotte nonviolente contro i gamberetti.

4. RIFLESSIONE. ROCCO ALTIERI: UN CONFLITTO IRRISOLVIBILE? (PARTE SECONDA)
[Ringraziamo Rocco Altieri (per contatti: roccoaltieri at interfree.it) per
averci messo a disposizione questo suo saggio apparso nel vol. 5 del giugno
2004 dei "Quaderni Satyagraha" da lui diretti, volume monografico dedicato
al tema "Nonviolenza per Gerusalemme". Rocco Altieri e' nato a Monteleone di
Puglia, studi di sociologia, lettere moderne e scienze religiose presso
l'Universita' di Napoli, promotore degli studi sulla pace e la
trasformazione nonviolenta dei conflitti  presso l'Universita' di Pisa,
docente di Teoria e prassi della nonviolenza all'Universita' di Pisa, dirige
la rivista "Quaderni satyagraha". Tra le opere di Rocco Altieri segnaliamo
particolarmente La rivoluzione nonviolenta. Per una biografia intellettuale
di Aldo Capitini, Biblioteca Franco Serantini, Pisa 1998. Per abbonarsi ai
"Quaderni Satyagraha" (per contatti: tel. 050542573, e-mail:
roccoaltieri at interfree.it, sito: pdpace.interfree.it): abbonamento annuale
30 euro da versare sul ccp 19254531, intestato a Centro Gandhi, via S.
Cecilia 30, 56127 Pisa, specificando nella causale "Abbonamento Satyagraha".
Abbiamo omesso le note che accompagnavano il saggio, puntuali e preziose,
per le quali rinviamo tout court alla rivista. Come e' ovvio, su un tema
cosi' delicato vi sono interpretazioni e opinioni molto diverse e fin
contrapposte. Crediamo che ragionarne pacatamente, nel rispetto della
sensibilita' di ogni persona, sia un modo per sostenere quanti tra gli
israeliani e tra i palestinesi si stanno impegnando per il dialogo, la pace,
la giustizia, la verita', la solidarieta', la convivenza. La prima parte di
questo saggio e' stata pubblicata nel notiziario di ieri]

La coscienza tormentata di Israele
Yeshayahu Leibowitz giudicava uno Stato che si dice ebraico una
contraddizione in termini. Riteneva, infatti, che lo Stato e' sempre e solo
un mezzo, non puo' mai diventare hegelianamente un fine. In quanto creazione
umana, lo Stato non puo' avere in se' un valore etico assoluto, come invece
ritengono le ideologie totalitarie. La laicita' dello Stato, percio', deve
diventare sia un presupposto democratico imprescindibile, sia una esigenza
religiosa fondamentale. Pur riconoscendosi parte del movimento sionista,
Leibowitz era avverso a ogni forma di sacralizzazione del nazionalismo. Ha
scritto di lui Amos Luzzatto: "Alla domanda: 'Che cos'e' per te una
bandiera?', rispondeva sarcastico: 'Uno straccio colorato attaccato a un
bastone'. E se gli chiedevano con una punta di provocazione: 'Ma per te non
e' sacra la Terra di Israele? Non e' sacra la lingua ebraica? C'e' per te
qualcosa di sacro?', rispondeva secco: 'Solo Dio e' sacro'.
'Ebraico', secondo Leibowitz e' cio' che stabilisce una relazione
particolare con Dio, una relazione che induca a offrirsi al suo servizio con
dedizione, sulla base di una halakha' che e' autodisciplina seria e
controllata, che educa il credente a non lasciarsi soggiogare dai propri
impulsi fisiologici ma, al contrario, a organizzare la sua vita per
dominarli. L'ebreo non puo' sperare di imporre tutto questo a opera del
potere statale; puo' solo chiedere allo stato di creare per lui le
condizioni per poter vivere secondo questa sua ebraicita' senza incontrare
ostacoli".
Ha scritto Martin Buber, rispondendo alle osservazioni critiche sollevate da
Simone Weil nei confronti dell'ebraismo: "Precisamente nella religione di
Israele e' impossibile fare un idolo del popolo come un tutto, perche' la
tendenza religiosa alla comunita' e' precipuamente critica e opinabile.
Chiunque attribuisce alla nazione o alla comunita' gli attributi
dell'assoluto e dell'autosufficienza, tradisce la religione d'Israele.
Che cosa, comunque, significa, divenire un 'popolo di Dio'? Una fede comune
in Dio ed il servizio al suo nome non costituiscono un popolo di Dio.
Divenire un popolo di Dio significa piuttosto che gli attributi di Dio
rivelatigli, giustizia e amore, vengono resi effettivi nella sua stessa
vita, nelle vite dei suoi membri, l'uno con l'altro: una giustizia che si
materializza nelle mutue relazioni indirette di quegli individui; amore
nelle loro mutue relazioni dirette radicate nella loro personale esistenza.
Dei due, tuttavia, l'amore e' il piu' alto, il principio trascendente.
Questo diventa chiaro inequivocabilmente per il fatto che l'uomo non puo'
essere giusto verso Dio; egli puo', tuttavia, e dovrebbe, amare Dio. Ed e'
l'amore di Dio che si trasferisce all'uomo; 'Dio ama il forestiero - ci e'
stato detto- cosi' anche tu devi amarlo'".
La persecuzione degli ebrei, l'Olocausto, l'ascetico eroismo dell'impresa
sionista, la vittoria nelle guerra del 1948 e del 1967 di "pochi contro
molti" hanno costituito la legittimazione retorica dello Stato di Israele e
giustificato la violenza contro i "gentili".
Ma oggi Israele appare una societa' smarrita e infelice, attraversata da
spaccature e forti tensioni interne: laici contro religiosi, i nuovi
arrivati russi contro i mizrahim (gli ebrei sefarditi di provenienza
medio-orientale), russi contro arabi, e cosi' via.
Il messianismo degli ebrei ortodossi raccolti nel movimento di Gush Emunim
( Blocco della Fede) si scontra con una nuova generazione israeliana che e'
fortemente individualistica, edonistica, americanizzata.
L'indurimento del fondamentalismo religioso di Gush Emunim, che prese corpo
dopo la guerra del 1973, puo' essere interpretato come reazione a una
perdita di egemonia, di marginalizzazione delle istanze religiose
all'interno di una popolazione che si presenta in massima  parte
secolarizzata.
In questa situazione di frammentazione sociale l'ethos della guerra e'
diventato il fondamento ispiratore dello Stato e costituisce il collante che
unifica un sistema culturale altrimenti sottoposto a forti tensioni e
fratture. Il sentirsi permanentemente aggrediti e minacciati nella propria
possibilita' di esistenza vitale dal "grande mare" arabo che circonda la
"piccola isola" di Israele crea le condizioni culturali per cui i problemi
sociali vengono confusi, in un complesso indistinto, con quelli militari e,
in nome della difesa comune, si lasciano irrisolti i gravi problemi interni.
Lo Stato accresce continuamente le spese per gli armamenti (nel 2001 il
budget della difesa e' aumentato di 0,8 miliardi di dollari), mentre
trascura il forte aumento della poverta': alla fine del 2001 il numero degli
israeliani che vivevano sotto la soglia della poverta' ammontava a 1.169.000
persone, tra cui mezzo milione di bambini. La disoccupazione e' salita nel
2002 al 12%. Nel corso dei primi due anni dell'Intifada l'economia ha perso
circa sette miliardi di dollari. La crisi economica non fa che alimentare
l'odio verso "l'altro", i palestinesi, mentre appare evidente il rischio di
un possibile collasso delle finanze dello Stato, che brucia le sue risorse
umane e materiali in una guerra permanente che sta portando al punto
dell'auto-distruzione.
Dal punto di vista dei diritti umani e', poi, evidente la contraddizione tra
l'essere Israele uno Stato-nazione che pratica l'occupazione e il
colonialismo interno, e la pretesa di ispirarsi al modello liberale di
societa' aperta.
Il governo di Israele applica in modo spietato i regolamenti emergenziali
(Emergency Regulations) ereditati dal regime coloniale britannico che
permettono di arrestare senza limiti temporali e senza processo qualsiasi
sospetto di attivita' sovversive, di espropriarne le proprieta' e di
demolirne l'abitazione.
La tortura, le deportazioni di massa, le punizioni collettive, considerate
crimini di guerra secondo l'art. 49 della quarta Convenzione di Ginevra del
1949, in Israele sono praticate in modo quotidiano.
Anche nel passato biblico gli Stati, cioe' i Re, erano spesso violenti,
usurpatori che esercitavano il potere con arroganza e contro la legge
ebraica. Allora di fronte all'autorita' costituita e al popolo si ergeva il
profeta a parlare come colui che invoca la giustizia, denuncia l'idolatria,
scuote l'uomo dalla passivita' per spingerlo ad ascoltare la voce di Dio.
Anche contro re David si alzo' la voce del profeta a denunciarne
l'iniquita'. Re David si penti', confesso' la sua colpa e si corresse.
Riconoscere la propria colpa e' l'atto necessario per affermare la giustizia
e ottenere il perdono divino.
Da tempo immemorabile, attraverso i loro profeti, gli ebrei hanno proclamato
l'insegnamento della giustizia e della pace, insegnando e imparando che "la
pace e' il fine a cui tutto il mondo dovrebbe tendere e che la giustizia e'
il mezzo per ottenerla. Percio' - scrisse Buber a Gandhi- non possiamo
desiderare l'uso della forza. Chiunque si consideri nelle file di Israele
non puo' desiderare l'uso della forza".
"La letteratura ebraica, per molti versi, e' letteratura del martirio
(...)", contiene, infatti, il messaggio che bisogna, come scrisse Magnes a
Gandhi, "accettare il martirio piuttosto che cedere 'all'idolatria,
all'immoralita', agli spargimenti di sangue'. (...) Se mai ci fu un popolo
nonviolento nello svolgersi dei secoli, quello fu il popolo ebraico".
*
L'opzione nonviolenta nella lotta del popolo palestinese
Come ha ricordato Saad E. Ibrahim nessuna altra regione come il Medio
Oriente, teatro negli ultimi decenni di alcuni dei maggiori conflitti
armati, puo' insegnare al mondo che a fronte degli alti costi sofferti a
causa della guerra (piu' di tre milioni di vite perdute, milioni di
mutilati, di feriti e di profughi, una spesa annua per gli armamenti
superiore ai 100 miliardi di dollari, incalcolabili danni procurati alle
infrastrutture civili, alle abitazioni, agli ambienti naturali), in realta'
nessuna delle gravi questioni e' stata risolta.
Al contrario, al di la' degli stereotipi che si hanno sul mondo islamico, la
storia del XX secolo insegna che in diverse circostanze la lotta nonviolenta
ha portato nella regione a soluzioni positive. Basti ricordare, ad esempio,
l'Egitto che ottenne l'indipendenza non attraverso una guerra di
liberazione, ma lanciando nel 1919 contro l'occupazione britannica un grande
movimento di disobbedienza civile, che impressiono' profondamente lo stesso
Gandhi, al punto da offrirgli motivi di ispirazione nel definire la teoria e
la pratica del Satyagraha. In modo nonviolento raggiunsero l'indipendenza
anche la Tunisia, il Libano, il Sudan, l'Irak, la Giordania, gli Stati del
Golfo. Memorabile e' stata poi la lotta del popolo iraniano contro il regime
dello Scia' negli anni 1977-79. Il successivo avvento del regime degli
Ayatollah non deve far dimenticare come la deposizione di Reza Pahlevi,
scia' di Persia, sia avvenuta attraverso una straordinaria rivoluzione
popolare nonviolenta.
Abu-Nimer, nel suo saggio pubblicato in questo quaderno, illustra con
cognizione di causa come la prima Intifada del 1987, la cui immagine
prevalente trasmessa dai media fu quella dei ragazzi palestinesi che
lanciavano le pietre, fu in realta' un grande movimento di lotta
nonviolenta, che diede prova di una imprevedibile capacita' di
auto-organizzazione popolare.
Anche la seconda Intifada, quella iniziata il 29 settembre del 2000, come
reazione palestinese alla passeggiata provocatoria di Sharon sulla spianata
del Tempio di Gerusalemme, e che percio' viene chiamata Intifada di Al-Aqsa
dal nome della moschea che domina la citta' di Gerusalemme, e' ricca di
gruppi e azioni nonviolente, ben documentate nell'articolo di Abu-Nimer.
Purtroppo, nell'immaginario collettivo il simbolo della seconda Intifada
sono diventati i terroristi kamikaze, e l'orrore provocato dai loro
attentati ha oscurato davanti agli occhi dell'opinione pubblica mondiale la
presenza di una lotta nonviolenta.
L'escalation degli "attacchi suicidi" e' l'esito di un processo di
imbarbarimento della lotta, provocato dalla incapacita', da una parte e
dall'altra, di comprendere l'avversario. Di fronte a tanta violenza, il
primo compito da perseguire e' una umanizzazione del conflitto. Nessuna
causa puo' giustificare l'uccisione indiscriminata di innocenti. Gandhi
sospese piu' volte le azioni Satyagraha, quando esse stavano per trascendere
nella violenza.
Purtroppo ci sono organizzazioni palestinesi che predicano la violenza e
considerano eroi e martiri coloro che seminano morte tra la popolazione.
Esse si lasciano andare a manifestazioni di gioia ogni volta che un
attentato va a buon fine, mentre i funerali dei "martiri" diventano
occasione per manifestazioni che incitano all'odio e alla vendetta.
Nulla ha nuociuto di piu' alla causa palestinese di questi attentati
terroristici, e della retorica che li ha supportati, sia di fronte
all'opinione pubblica mondiale che ne e' rimasta profondamente scioccata,
sia nei confronti della societa' israeliana che nel rivivere la paura del
massacro e della persecuzione si e' compattata nel consenso alle azioni
repressive dell'esercito di occupazione. Inoltre, la debolezza e
l'incertezza dell'autorita' palestinese nel condannare e nel bloccare gli
atti di violenza hanno favorito il progetto dell'attuale governo israeliano
di "politicidio" della causa palestinese, perseguendo, cioe', l'obiettivo di
annullare completamente il popolo palestinese, non solo la sua dirigenza
politica, come interlocutore per la risoluzione del conflitto.
E' arrivato il momento di spostare il punto focale della lotta del popolo
palestinese dalla liberazione di uno spazio, all'obiettivo di smantellare un
regime, facendo leva soprattutto sulla coscienza dei cittadini di Israele
per cercare un comune "esodo" dalla violenza, attivando un processo di
verita' e di riconciliazione simile a quello realizzatosi in Sud-Africa.
In un conflitto asimmetrico, dove una parte esercita sull'altra una
schiacciante supremazia politica, economica e militare, al punto che la
parte debole sembrerebbe non avere altra scelta che subire la volonta' del
piu' forte, che sembra procedere, sordo ad ogni appello di moderazione, nel
perseguire i propri obiettivi di potenza secondo la "politica del fatto
compiuto", l'oppresso, la parte attaccata, ha, dalla sua, e potrebbe cio'
costituire il suo punto di forza, la facolta' di scegliere in quale modo
gestire il conflitto, su quale terreno realizzare la resistenza e con quali
metodi di lotta.
In un conflitto asimmetrico, la sproporzione dei mezzi in campo non
lascerebbe aperte, secondo i canoni comuni della strategia, che due
alternative: l'azione terroristica o l'azione nonviolenta.
Da tempo la sproporzione esistente nell'armamentario moderno tra i mezzi di
offesa (i bombardamenti, il possibile ricorso all'arma atomica) rispetto a
quelli della difesa militare tradizionale o della guerriglia, rende
impraticabile ogni possibile strategia di resistenza armata vittoriosa
contro le forze militari di occupazione. Sicuramente la violenza contro le
forze occupanti puo' durare a lungo e aumentare i costi dell'occupazione, ma
al prezzo altissimo dell'imbarbarimento della lotta e del totale genocidio
della popolazione civile, ostaggio e vittima del fuoco incrociato.
Il terrorismo, a differenza della guerriglia, non si prefigge di vincere
battaglie, di conquistare posizioni di controllo del territorio. In realta',
il terrorismo agisce nascosto e svolge una funzione pre-politica: terrorizza
la societa' civile e l'opinione pubblica al fine di influenzarne gli
orientamenti e le decisioni politiche per spingerle nel vortice
dell'escalation della guerra. La partita decisiva del terrorismo si gioca in
realta' attraverso il riverbero che le sue imprese possono avere
sull'opinione pubblica attraverso i mezzi di informazione, dove la "potenza
di fuoco" messa in campo dai mass-media in relazione al conflitto tra
l'oppressore e l'oppresso, non e' dissimile dai rapporti di forza da questi
posseduti sul piano militare. Gli indiscriminati attacchi kamikaze contro i
civili sono stati ampiamente utilizzati dai mass-media per legittimare
davanti all'opinione pubblica mondiale la costruzione del "muro" e le
pratiche repressive dell'esercito israeliano contro la popolazione civile
palestinese, assimilata senza distinzioni a una massa di fiancheggiatori dei
terroristi.
In una situazione in cui il terrorismo ha portato la questione palestinese
in un vicolo cieco, l'opzione nonviolenta puo' restituire dignita' e
speranza al popolo palestinese, promuovere una cooperazione liberante tra
ebrei e palestinesi, come gli articoli di Abu-Nimer e di A. Said qui
pubblicati ci illustrano.
Come i palestinesi oggi, anche gli ebrei sono stati vittime della guerra,
della politica e dell'odio. Anzi gli ebrei hanno vissuto nella paura per
migliaia di anni, esposti a molti massacri e persecuzioni.
Percio', il mondo arabo-palestinese deve essere capace di portare nel
processo di pace l'attenzione verso la storia del popolo ebraico, agendo
instancabilmente nel promuovere il perdono, la fiducia e il dialogo,
propositi che vengono invece vanificati ogni volta che si ripetono azioni
violente.
Ogni azione nonviolenta che dimostri la massima attenzione verso il bisogno
di sicurezza del mondo ebraico toglie punti di appoggio alle politiche di
guerra dei governi violenti.
Atti di dialogo e riconciliazione possono far leva sulla profonda coscienza
morale del popolo ebraico, determinando quello che Gregg chiama jiu-jitsu
morale, uno sbilanciamento o scuotimento delle coscienze che provochi il
rifiuto di proseguire nel sostegno alle politiche di guerra, cosi' come sta
avvenendo ai tanti militari israeliani, i refuzniks, che rifiutano di
servire nell'esercito di occupazione.
*
Il ruolo delle terze parti
In apertura di questo quaderno abbiamo voluto ripubblicare, nel centenario
della sua nascita, uno scritto di Giorgio La Pira che e' stato come sindaco
di Firenze il precursore della diplomazia dal basso dei cittadini a favore
della pace, quella che oggi viene conosciuta nella letteratura dei Peace
Studies come second track diplomacy. Lo scritto (il discorso tenuto da La
Pira a Cagliari nel 1973, in occasione di un convegno sui problemi del
Mediterraneo) e' un classico della letteratura nonviolenta e si inserisce in
modo appropriato nella scelta di questo volume di privilegiare i contributi
culturali capaci di ridisegnare le strutture profonde, cosmologiche del
conflitto. Rivisitando le "metafore" comuni alle tre religioni monoteistiche
appartenenti alla famiglia di Abramo, La Pira ripercorre il "sentiero di
Isaia" che annuncia ai popoli del Medio Oriente un regno messianico di
giustizia e di pace. La Pira fu attivo mediatore e facitore di dialogo nel
conflitto israelo-palestinese, e i suoi "colloqui del Mediterraneo", di cui
si parla ampiamente nel suo discorso qui riprodotto, funzionarono ante
litteram come un laboratorio di riconciliazione, un  autentico
problem-solving workshop, secondo una modalita che successivamente ha avuto
grande diffusione nel quadro delle relazioni internazionali.
Per Adam Curle, negoziatore quacchero, le terze parti non sono neutrali, ma
devono attivare  processi di solidarieta' e di presa di coscienza
dell'ingiustizia strutturale e degli squilibri di potere tra gli attori del
conflitto. Secondo questa prospettiva J. P. Lederach ha coniato il termine
di insider-partial, in quanto i mediatori svolgono il ruolo di empowerment
practitioner, ridando fiducia, speranza e consapevolezza ai soggetti del
conflitto, soprattutto a quelli che appaiono piu' deboli all'interno di un
conflitto asimmetrico. Percio', Lederach preferisce parlare piu' che di
mediazione, di "trasformazione" sociale e culturale dei conflitti,
denominando il suo metodo come elicitive approach, che per le sue profonde
assonanze colla prassi sociale ed educativa di Danilo Dolci, possiamo
tradurre in italiano come "metodo maieutico". Il metodo maieutico (elicitive
approach) non si impone alle parti in gioco, non ha propositi di
colonizzazione culturale o politica, ma consapevole che solo i diretti
interessati possono risolvere le questioni aperte e fare la pace, agisce
come la levatrice socratica nell'assistere al parto. L'obiettivo che si
propone e' l'attivazione del satyagraha, perche' solo una rivoluzione
strutturale nonviolenta, realizzata dai protagonisti del conflitto, puo'
conseguire quella che Galtung chiama la dimensione della "pace positiva", e
che nel saggio pubblicato in questo quaderno Lederach descrive e definisce
attraverso un suo specifico neologismo: justpeace (pacegiusta).
Un altro modo di intervenire nel conflitto come terze parti e' quello messo
in atto, in questi anni, da innumerevoli associazioni internazionali, di cui
parlano Abu-Nimer e Dogliotti Marasso nei rispettivi saggi pubblicati in
questo quaderno. Esse fanno azione di interposizione nei conflitti, allo
scopo di ridurre la paura e il senso di insicurezza della gente, facendo
opera di dissuasione con la propria presenza, perche' gli armati non
commettano violenza contro i civili. Spesso agiscono in modo diretto e
immediato, per ostacolare o impedire le funzioni repressive dell'esercito,
come fece Rachel Corrie  dell'International Solidarity Movement (Ism) che il
16 marzo 2003 fu uccisa a Rafah, all'eta' di 22 anni, mentre tentava di
opporsi alla demolizione di una abitazione di una famiglia palestinese da
parte di un bulldozer dell'esercito israeliano.
La campagna promossa dal movimento francese Alternative Non-violente, di cui
si pubblica il documento politico in questo quaderno, si inserisce appieno
in questa nuova visione dinamica della interposizione nonviolenta nei
conflitti, avendo per scopo la richiesta di istituzionalizzare la presenza
di un corpo di intervento civile internazionale non armato, da dislocarsi in
Medio Oriente per contenere la violenza.
Agendo, poi, nel mitigare i propositi violenti di chi ha le maggiori
responsabilita' di governo e di direzione politica degli avvenimenti, le
terze parti fanno appello alla solidarieta' internazionale in sostegno delle
parti deboli del conflitto, promovendo politiche di boicottaggio e di
non-collaborazione verso i governi iniqui e violenti.
L'importante, comunque, e' che le terze parti, nel realizzare cio', non
cessino mai di svolgere il loro ruolo vocazionale di canale di comunicazione
tra gli attori del conflitto, avendo premura che la propria condanna morale
della violenza e dell'ingiustizia non diventi attacco alle persone o ai
gruppi sociali. Si deve sempre distinguere "l'errore dall'errante" e
nell'obiettivo della riconciliazione bisogna offrire vicinanza a tutte le
parti, perche' davvero tutti sono vittime del ciclo della violenza.
L'Europa e l'Occidente ricco hanno la grave responsabilita' storica
dell'avere provocato la questione ebraica.
La totale responsabilita' delle discriminazioni, delle violenze e delle
persecuzioni nei confronti del popolo ebraico e' iscritta nella storia dei
paesi cristiani e non certo di quelli musulmani. Bisogna confessare questa
colpa e farsi carico di riparare a cio', approntando piani di accoglienza
all'immigrazione e all'integrazione degli ebrei. Non e' accettabile la
chiusura delle frontiere all'immigrazione ebraica, come quella sancita dagli
Usa dopo l'89 nei confronti degli ebrei russi, spinti dalla crisi economica
e politica dell'ex impero sovietico alla ricerca di un approdo
nell'occidente ricco. Durante la presidenza di George Bush fu, infatti,
approvato, il 21 novembre 1989, il Lautenberg Amendement che chiude le
frontiere all'immigrazione ebraica verso gli Stati Uniti, un atto grave che
ha spinto in pochi anni verso Israele ben 700.000 nuovi arrivi dalla Russia,
aggravando la pressione demografica, indirizzata dal governo verso la
colonizzazione dei territori occupati.
Uguale accoglienza e disponibilita' l'Occidente ricco dovrebbe dimostrare
nei confronti dei profughi palestinesi che dovessero fare richiesta di
immigrazione.
Infine, i consistenti finanziamenti elargiti da Usa e Ue ai paesi del Medio
Oriente devono essere indirizzati allo sviluppo umano delle popolazioni, che
soffrono condizioni estreme di indigenza, piuttosto che a finanziare la
corsa agli armamenti e la guerra.
La terra di Israele, che ha accolto i profughi ebrei scappati a causa delle
persecuzioni naziste, va considerata oggi a tutti gli effetti una costola
dell'Europa. Accettare, percio', la richiesta di Israele di entrare a far
parte dell'Unione Europea potrebbe essere il viatico utile a spingere lo
Stato di Israele al pieno rispetto dei diritti umani, cosi' come e' sancito
nel suo atto di fondazione del 1948, che impegna ad "assicurare completa
eguaglianza di diritti sociali e politici a tutti i suoi abitanti" o,
ancora, ad applicare nei fatti la sua Basic Law del 1992 che riguarda la
"Dignita' umana e la Liberta'".
L'Europa potrebbe far pesare la sua influenza per attivare politiche
inclusive nei confronti dei profughi palestinesi e della popolazione araba
di Israele e dei territori occupati. L'entrata nell'Europa Unita di una
federazione israelo-palestinese potrebbe segnare il punto di svolta decisivo
per costruire politiche di pace nel Mediterraneo, dove il sogno di Magnes e
degli altri "giusti" di Israele per una unita' ebraico-palestinese potrebbe
alfine avverarsi, facendo di uno Stato bi-nazionale il fulcro della
collaborazione dell'Europa con tutto il mondo arabo.
*
Un processo di verita' e riconciliazione
Il fallimento dei tentativi di pace, fin qui esperiti, dagli accordi di
Oslo, agli incontri di  Camp David promossi dal presidente Clinton, fino
alla Road Map disegnata da Bush-figlio trova forse una sua valida
spiegazione nella filosofia di fondo che li ispira: "la pace in cambio dei
territori", applicando il principio del baratto e della
spartizione-separazione, invece che quello della condivisione e della
cooperazione.
Le proposte di pace avanzate da Israele in questi anni appaiono sempre come
un'azione sussidiaria e complementare all'azione di  guerra. Gia' negli
accordi con l'Egitto, secondo il modello della "pace in cambio dei
territori", Israele manifesto' lo scopo di rafforzare il controllo sulla
Giudea e sulla Samaria, nella prospettiva di costruire Eretz Israel
(l'Israele secondo i confini biblici). E' per questo stesso obiettivo di
consolidamento dell'occupazione dei territori palestinesi che scateno' nel
1982 la guerra del Libano.
Nello stesso senso gli accordi di Oslo sono stati intesi da Israele come un
modo per affidare all'autorita' palestinese la responsabilita'
amministrativa delle aree piu' densamente popolate, costruendo un modello
simile a quello dell'apartheid dei bantustan sudafricani, dove una parte
possiede tutti i diritti e l'altra parte nulla.
Nel giustificare l'occupazione, le ragioni della sicurezza e quelle
religiose si confondono e si sovrappongono. In nome della sicurezza la
politica di Israele mira a chiudere i palestinesi in quattro, cinque enclave
attorno a Gaza, Jenin, Nablus, ed Hebron, senza continuita' territoriale, ma
collegate da gallerie e ponti che eviterebbero ai palestinesi il contatto
col territorio israeliano, mentre Israele si riserva di mantenere per se' il
controllo dei varchi di Gaza e del suo spazio aereo e marittimo. In
confronto, i vecchi bantustan sudafricani appaiono "oasi di liberta'".
Come ha osservato Kimmerling: "I processi di pace sono stati sempre guidati
dall'aspirazione xenofoba alla separazione o alla manipolazione strumentale
per accrescere il controllo sull'altra parte e preservare in definitiva la
propria potenza militare".
M. Gopin, un rabbino amico della nonviolenza, nell'articolo pubblicato in
questo quaderno sostiene che il fallimento del processo di pace fin qui
sperimentato impone di trascendere la visione tradizionale, realistica della
conflict resolution e ci indica un percorso alternativo, piu' profondo per
poter arrivare a una vera pace.
C'e' bisogno di qualcosa di diverso da un discorso fondato sulle relazioni
internazionali, sulle dinamiche del potere aventi per oggetto l'uso della
forza in relazione alla scarsita' delle risorse, valutando la pace con la
logica dei costi e dei benefici, facendo un discutibile ricorso alla teoria
dei giochi, nel definire le guerre per il controllo delle risorse come
"giochi a somma zero": quello che gli altri hanno, noi non possiamo averlo.
Ispirandosi alla scuola di Avruch e Lederach, piu' attenta agli aspetti
culturali, cognitivi e relazionali dei conflitti, Gopin ritiene di non dover
dare importanza solo agli interessi materiali, ed evidenzia il ruolo delle
percezioni, dei sentimenti e delle credenze per una trasformazione
nonviolenta dei conflitti.
Ci sono differenti razionalita' e differenti culture, e percio' la cultura,
che comprende non solo l'aspetto cognitivo-razionale, ma anche il modo in
cui si filtrano, si gestiscono e si controllano le emozioni e i sentimenti,
e' fondamentale per poter comprendere e orientare le dinamiche di un
conflitto.
I conflitti sono sempre complessi e spesso hanno un alone di ambiguita' non
risolvibile in modo netto secondo la logica binaria di vero e falso, giusto
o sbagliato. Piu' utile e' il ricorso a una ermeneutica che, con una
espressione ripresa dalle scienze informatiche, viene definita "fuzzy
logic", un approccio piu' "sfumato" che tiene insieme le dissonanze, i
paradossi, le complessita', i sentimenti, le ragioni di tutte le parti in
conflitto. Trascendere la logica binaria significa esaminare quel cono
d'ombra che comprende le emozioni, le percezioni, le cosmologie profonde che
condizionano lo svolgimento del conflitto, e che non sono riducibili alla
sola razionalita' economica e politica del dare e dell'avere.
Qui si innesta l'interesse per la metafora, che rientra in  una svolta
possibile delle scienze sociali, favorendo una fuoriuscita dal positivismo
(e per alcuni anche dalle spiegazioni causali deterministiche o funzionali)
per muoversi verso l'interpretazione modulata tra significato e
significante.
Bisogna osservare che qui la metafora non va intesa in senso aristotelico
come figura retorica dell'arte poetica, ma come qualcosa di centrale e
profondo, legato al processo cognitivo dell'uomo, che include la memoria e
la razionalita', la formazione stessa della cultura e la sua comunicazione.
La metafora con la sua carica simbolica permette  di mettere in contatto e
di far comunicare culture diverse o avverse. Come sostiene Marc Gopin nel
suo saggio il processo di pace puo' progredire solo costruendo metafore
ricche di significati di verita', di perdono, di riconciliazione.
La cultura della metafora e' l'aspetto della comunicazione tra i diversi che
l'astratta "teoria delle relazioni internazionali" comunemente ignora, non
riuscendo a capire cosa fare di fronte a situazioni di evidente "dialogo tra
sordi". E' da questo punto, da questa incomprensione-sordita' che si deve
partire per sviluppare nuove metafore che siano capaci di far comprendere
agli avversari l'uno i punti di vista dell'altro, l'uno i sentimenti
dell'altro, realizzando quel processo di "immedesimazione nell'altro" che G.
Mead e la scuola dell'interazionismo simbolico chiamano il Se'
generalizzato.
Come gli individui che sono stati vittime di traumi, cosi' anche i popoli e
le nazioni richiedono un complesso processo di guarigione che permetta di
rimarginare le sofferenze subite. Se le vittime non ricevono un
riconoscimento dei torti subiti, spesso prevale un senso opprimente di
ingiustizia esistenziale e la memoria dei fatti fa crescere la paura che
tutto possa ripetersi.
Percio' le metafore della verita', del pentimento e della riparazione sono i
percorsi obbligati di ogni autentico cammino di riconciliazione. Piu' che
l'appello alla ragione, un'autentica, genuina, espressione di pentimento,
accompagnata dai necessari atti riparativi, puo' aprire la strada alla
riconciliazione.
Riconciliazione e' un processo di cambiamento e di ridefinizione delle
relazioni che va ben oltre la risoluzione delle singole questioni. Coinvolge
in modo unitario sia la mente che il cuore, il modo di pensare e il modo di
sentire l'altro, umanizzando l'avversario, sentendo le sofferenze dell'altro
come le proprie sofferenze.
I rituali possono aiutare, per mezzo di linguaggi metaforici altamente
simbolici, a curare le ferite e a trasformare il modo di pensare le
questioni in gioco, dando agli uomini nuove lenti per vedere la realta'
degli interessi e dei valori.
E' in questa zona di confine (liminal space) che le trasformazioni si
realizzano.
Lisa Schirch ha osservato che: mentre la percezione di pace e giustizia puo'
essere contraddittoria quando viene espressa verbalmente, la comunicazione
rituale permette nuovi modi di pensare il conflitto e puo' aiutare a cercare
simboli comuni per una coesistenza pacifica. Il linguaggio rituale
certamente non risolve i problemi, ma crea nuovi simboli, piu' profondi ed
efficaci, per interpretarli e ridefinirli in una chiave di riconciliazione.
Spesso i funerali delle vittime rappresentano un'occasione per violente
manifestazioni politiche e rituali pieni di odio, mentre Gopin propone di
rielaborare il lutto in una prospettiva nonviolenta, facendo ricorso a
metafore di condivisione e di riconciliazione, cosi' come hanno realizzato i
gruppi di Parents' Circle, una associazione che unisce le famiglie colpite
dal dolore per la perdita di un familiare, che nella rielaborazione del
dolore subito superano la barriera del conflitto e prendono coscienza della
comune condizione di vittime della violenza, rafforzando cosi' la propria
volonta' di pace.
Il saggio di Abdul Aziz Said per la cultura islamica e quello di fratel
Ibrahim Faltas per la tradizione cristiana completano il discorso di
incontro, dialogo e riconciliazione che Marc Gopin ha sviluppato partendo
dalla propria cultura ebraica. E' stupefacente, man mano che si procede
nella lettura, sentire la profonda assonanza e convergenza di culture che lo
stereotipo dominante ritiene diverse e opposte.
La nonviolenza e' diventato il punto omega verso cui converge l'impegno
delle religioni mondiali. Cosi' i Luoghi Santi delle tre religioni
monoteistiche, per il cui controllo esclusivo tanto si e' esacerbato in
questi anni il conflitto arabo-israeliano, potranno finalmente diventare i
simboli condivisi del cammino ecumenico di riconciliazione dell'umanita'.
L'esempio di Etty Hillesum, il "cuore pensante" dell'ebraismo, riproposto
alla fine di questo quaderno dal bel saggio di Franz Amato, si offre, nel
rifiuto di ogni idolatria della forza, come modello di riconciliazione. Etty
si dona al mondo con la sua "debolezza" che non sa odiare, ma solo amare, di
quell'amore verso ogni persona che rende partecipi della segreta armonia del
mondo.
*
Gli accordi di Ginevra
Una parte significativa del volume, con gli articoli di Michal Reifen e di
Maria Chiara Tropea, e' dedicata all'analisi dell'iniziativa di Ginevra,
dove il primo dicembre 2003 e' stato presentato il progetto per un accordo
israelo-palestinese, mostrando al mondo che la pace e' possibile e che ci
sono i partner per farla.
L'iniziativa di Ginevra ha un valore straordinario, in un momento storico in
cui e' indispensabile offrire ai due popoli una via di uscita realistica
dall'attuale situazione di disperazione e di frustrazione. E' un esempio di
diplomazia parallela, non ufficiale, che fa capire come un processo di pace
possa avere come protagonisti non solo gli Stati, ma anche i cittadini, che
con la loro azione dal basso aprono ai governi la possibilita' di
comprendere esattamente quali concessioni, concordate dalle due parti,
possano porre fine al conflitto. Quello di Ginevra e' un modello di accordo
in cui tutti i particolari sono stati discussi senza lasciare nulla in
ombra, secondo la prospettiva della creazione di due Stati per due Popoli.
Infine, gli accordi di Ginevra sono importanti perche' riabilitano a livello
internazionale la parte debole palestinese  come interlocutrice del processo
di pace, in opposizione alla politica del "fatto compiuto" perseguita dai
violenti in armi.
Ha scritto Hannah Arendt, la coscienza inquieta dell'ebraismo contemporaneo:
"Comunque, in un mondo come il nostro, in cui la politica, in alcuni paesi,
ha da tempo superato la fase del delitto isolato ed e' entrata in quella
della criminalita', una moralita' senza compromessi... e' diventata l'unico
strumento mediante il quale possa essere percepita e pensata la vera
realta', contrapposta alle situazioni di fatto, distorte ed essenzialmente
effimere, create dai crimini".
Un vecchio racconto della tradizione ebraica ci tramanda l'esistenza di
trentasei giusti che vivono in ogni tempo, senza i quali il mondo sarebbe
andato in rovina. Etty Hillesum, Judat Magnes, Fawzi El-Hussein, Martin
Buber, Hannah Arendt, Giorgio La Pira, gli autori dei saggi che abbiamo
ospitato in questo volume: John Paul Lederach,  Marc Gopin, Abdul Aziz Said,
Fr. Ibrahim Faltas, Mohammed Abu-Nimer, i protagonisti degli accordi di
Ginevra sono alcuni di questi giusti, intelligenze che, spesso irrise e
inascoltate dai piu', si sono sollevate al di sopra della realta' quotidiana
e dei vincoli politici del momento, indicando un percorso possibile per
curare le ferite indotte dalla violenza e costruire un futuro di pace.
"Se noi amiamo veramente il mondo reale con tutti i suoi orrori, se osiamo
allacciarlo con le braccia del nostro spirito, le nostre mani incontreranno
le mani che reggono il mondo" (Martin Buber).
(Fine. La prima parte e' stata pubblicata nel precedente numero del
notiziario)

5. RILETTURE. AMOS OZ: CONTRO IL FANATISMO
Amos Oz, Contro il fanatismo, Feltrinelli, Milano 2004, pp. 80, euro 4,5.
Tre lezioni tenute a Tubinga del grande scrittore e costruttore di pace
israeliano. Un libro che vivamente raccomandiamo.

6. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.

7. PER SAPERNE DI PIU'
* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per
contatti: azionenonviolenta at sis.it
* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia:
www.peacelink.it/users/mir; per contatti: mir at peacelink.it, sudest at iol.it,
paolocand at inwind.it
* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per
contatti: info at peacelink.it

LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la
pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 801 del 6 gennaio 2005

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