Paolo Maccioni: Buenos Aires troppo tardi



di Annalisa Melandri

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recensione  per Le Monde Diplomatique in vendita con  il manifesto per tutto il mese di dicembre 2010


«Qui l’incerto ieri e l’oggi diverso/mi hanno offerto i comuni casi/di ogni sorte umana; qui i miei passi/ordiscono il loro incalcolabile labirinto…» Cosí lo scrittore e poeta argentino Jorge Luis Borges racconta Buenos Aires. E in quell’ «incalcolabile labirinto»che è la città «eterna come l’acqua e come l’aria», si muove il protagonista di quest’ultimo romanzo dello scrittore cagliaritano Paolo Maccioni, e insieme a lui decine di fantasmi del passato e del presente, che intrecciano storie e follie, evocano fantasie e orrori e lo prendono per mano per mostrare, a lui che ne è completamente ignaro, la storia terribile e mai abbastanza raccontata dell’Argentina.

Eugenio Santucci, lo scrittore sardo protagonista del romanzo, viene inviato nella capitale argentina dalla casa editrice per la quale lavora per scrivere una sorta di guida interattiva culturale e letteraria. E cosí tra le vie evocate da Borges e nei cortili cari al poeta Evaristo Carriego, rivivono antiche suggestioni di una città che non esiste piú. Intanto Eugenio approfitta del suo incarico per rintracciare lontani parenti emigrati in Argentina anni prima e dei quali ha perso le tracce.

Nella mappatura letteraria della città che egli cerca di tracciare e nella ricerca dei parenti perduti, il lettore scopre poco a poco che un unico filo tesse la trama nascosta di quell’incalcolabile labirinto in cui sembrano trasformarsi le giornate di Eugenio. I volti dei parenti scomparsi affiorano pian piano accanto a quelli dei 30mila desaparecidos della dittatura militare, e reclamano un posto nella storia. Prendono forma le storie degli uomini che hanno lottato contro la dittatura e hanno pagato con la vita. Una letteratura parallela a quella per la quale era stato chiamato a lavorare reclama l’attenzione di Eugenio: vicende tragiche di giornalisti e militanti, prima completamente oscure al nostro protagonista; egli rappresenta qui l’uomo comune, colui che non sa o che finge di non sapere quanto accaduto tra il 1976 e il 1983 in Argentina, ma che improvvisamente ne prende coscienza, come accadde del resto allo stesso Borges. «Il letterato chiuso nella sua torre d’avorio cerebrale, che sapevamo indifferente agli orrori della guerra sucia, dunque non era rimasto insensibile alla sorte dei suoi concittadini» pensa Eugenio riferendosi al grande scrittore (che non vinse il Nobel per la sua vicinanza ambigua ad Augusto Pinochet). E tuttavia non basta, il pentimento e la posizione del grande scrittore passano al vaglio della conquistata e severa consapevolezza civile del protagonista. Bisognava denunciare per tempo, non essere ambigui. Il rimprovero che Eugenio fa a Borges sembra essere quello che fa a se stesso.

E così egli non riesce più a seguire le suggestioni puramente letterarie che il suo incarico richiede, le strade, i caffè e i palazzi non gli evocano più soltanto passi di romanzi o versi di poesie. Un fantasma che pian piano prende le sembianze di Rodolfo Walsh (lo scrittore e giornalista desaparecido dal 25 marzo 1977 dopo aver reso pubblica la sua Lettera aperta alla Giunta militare) traccerà i contorni di un paese che allora era diventato come «un’immensa trappola e [in cui] la popolazione sopravviveva oppressa dal terrore e dalla mancanza di informazione».

Il passato emerge, spinge Eugenio a cercare i segreti custoditi dal pudore e dal dolore. Le ferite di Buenos Aires e dell’Argentina non si sono mai rimarginate, troppo sangue è stato versato nel silenzio complice della comunità internazionale e della chiesa cattolica. Eugenio sente adesso sulle spalle il peso di una responsabilità collettiva enorme ma l’essere arrivato tardi non avviene invano: i labirinti borgesiani per una volta lasceranno il posto alle storie e ai romanzi di Rodolfo Walsh, a quelli di Haroldo Conti, alla storia terribile delle suore francesi Alice Domon e Léonie Duquet, e a quelle di tanti altri uomini e donne torturati, uccisi, fatti sparire con una ferocia inaudita.

Perché bisogna saperla conoscere e riconoscere la storia. Da qualche parte nel mondo, un altro generale Videla può ripetere quegli orrori. Paolo Maccioni raccoglie quindi il testimone che Rodolfo Walsh gli consegna idealmente alla fine del romanzo.

ANNALISA MELANDRI

BUENOS AIRES TROPPO TARDI

Paolo Maccioni

Arkadia, 2010 (www.arkadiaeditore.it)


Annalisa Melandri



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J.J. Rousseau

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