L'HONDURAS ALLA BATTAGLIA FINALE PER L'AMERICA LATINA tra fascisti e Resistenza, tra imperialismo e popoli di Fulvio Grimaldi



Tegucigalpa. Honduras, ottobre.
Il Premio Nobel per la Pace, elogiato da Fidel, lancia l'Operazione Condor 2
L'HONDURAS ALLA BATTAGLIA FINALE PER L'AMERICA LATINA
tra fascisti e Resistenza, tra imperialismo e popoli












































































Nos tienen miedo por que no tenemos miedo - Hanno paura perché noi non abbiamo paura.
(Slogan del Frente de la Resistencia contra el golpe de Estado)

Tegucigalpa, ottobre. Oggi la Resistenza si è concentrata alla UNAH, Università Nazionale Autonoma dell’Honduras, cuore della lotta studentesca. Stradone di entrata e uscita dalla capitale bloccata dai copertoni incendiati. I poliziotti robocop e i militari bardati come per un assalto a Gaza (sono ottimamente istruiti dai paramilitari colombiani e dai soliti specialisti israeliani, a disposizione di ogni efferatezza fascista in America Latina) stanno alla larga. Le migliaia accorse all’appello degli studenti dai barrios e dalle colonias (favelas) di questa città dalla cupola di merda e di dollari e dalla base di rabbia e fame, sono troppe da bastonare, gassare, sparare, intossicare con la chimica rossa al peperoncino. Ci sono stati altri due morti ammazzati, in aggiunta alla ventina documentata (poi ci sono i desaparecidos nelle carceri della tortura; anche qui, esperti israeliani): Jairo Sanchez, sindacalista che una pallottola in faccia ha ucciso dopo 21 giorni di agonia, ed Eliseo Hernandez, professore, direttore della scuola El Mateo a Santa Barbara. Il conto per oggi, ultracentesimo giorno del popolo in piazza contro il colpo di Stato, parrebbe chiuso. Quei posapiano dell’Organizzazione degli Stati Americani (OSA), terminale latinoamericano del travestimento democratico Usa, potrebbero vedersi costretti ad arricciare il naso sugli eccessi della dittatura del lumpendittatore Micheletti. Già hanno dovuto dar retta a Lula, che gli ha intimato di porre un freno all’assedio della sua ambasciata con dentro, dal 21 settembre, Mel Zelaya, presidente deposto, impegnato in un dialogo che con la teppa fascista golpista mai si sarebbe dovuto neanche concepire.

“Dialogo” tra assassini e assassinati
Il rinnegato di classe Mel Zelaya deve essere ammorbidirlo ulteriormente, visto che, accettati tutti i punti dell’accordo-truffa di San José (assemblea costituente alle calende greche, elezioni-farsa sotto controllo militare il 29 novembre, cancellazione dei provvedimenti sociali) suggerito da Washington al suo fantoccio costaricano Oscar Arias, Premio Nobel per meriti Usa, insiste sull’ultimo punto: il reinsediamento di Manuel Zelaya nella carica di presidente dell’Honduras dalla quale la notte del 28 giugno fu strappato in pigiama, con le pistole dei gorilla puntate alla testa, e sbattuto in Nicaragua. Così, dopo i gas tossici sparati nelle tubature dell’ambasciata, dopo l’ordigno dai suoni laceranti, entrambi fiori tecnologici all’occhiello dei torturatori israeliani, ora si tratta di praticare su presidente, famigliari, seguaci, personale brasiliano, il tuttora irrinunciabile metodo Guantanamo: la privazione del sonno attraverso fotoelettriche accecanti sparate nelle stanze dell’ambasciata, fragorose esercitazioni da caserma notturne sotto le finestre, strepitii di trombe, tuoni di tamburi e soprattutto l’amplificazione micidiale di quella musica rock che ha fuso il cervello dei detenuti nella base strappata a Cuba. E’ in queste condizioni e in quelle quotidiane di irriducibili masse di donne, bambini, uomini massacrati dalla repressione, che si “dialoga” tra un presidente e la banda di delinquenti venduti al colonialismo gringo che lo tiene rinchiuso nel proprio paese in un’ambasciata straniera. Del resto, non aveva il rappresentante nell’OSA dell’ultrà Hillary Clinton definito Zelaya un “imprudente idiota”? Così il rappresentante del Frente, Juan Barahona, visto che lì, all’Hotel Clarion, sede del negoziato propiziato dagli sciacquapanni dell’OSA, chi ciurlava nel manico, chi faceva il pesce in barile, chi si calava i pantaloni (anche se solo fino al ginocchio), ha sbattuto la porta ed è tornato in piazza. Dove ormai, nella battaglia finale lanciata dagli Usa di Obama contro l’America Latina in progress, a partire dall’anello ritenuto più debole, tutto si decide.

Studenti
Parte la marcia verso il centro. Sono migliaia, le eterne donne dagli assalti verbali furibondi contro la teppa golpista, i quadri nati nel fuoco dello scontro da cento e cento associazioni sindacali, socialiste, dei diritti umani, di categoria, insegnanti in testa, i meticci e gli indios (sono il 90% dei 7 milioni di honduregni e riempiono per intero l’80% della povertà di questo paese che è al penultimo posto nella graduatoria continentale, prima di Haiti), qualche rinnegato della classe creola (i discendenti dei coloni spagnoli), gli studenti davanti a tutti, i meno rassegnati al pacifismo integrale del Frente. Tutti con la richiesta prioritaria su tutte: Zelaya al suo posto, e con quella strategica, imprescindibile: assemblea nazionale costituente per passare dalla Repubblica del Pentagono, di Chiquita, degli avvoltoi minerari e del disboscamento, a una società come quella di Cuba, o di Chavez, terrore dell’Impero. E’ stato tolto lo stato d’assedio che la banda dei mercenari di Obama aveva proclamato a fine settembre, che aveva provocato morti, feriti, arresti, torture, desaparecidos, ma che non c’è stato giorno che la Resistenza non l’abbia sfidato. Sono stati liberati due dei tanti media d’opposizione devastati e chiusi: Radio Globo e Canale 36 (ma altri i gorilla delle dieci famiglie, in gran parte ebree, che depredano paese e popolo, i Facussé, capocomici di questo colpo di Stato, per primi, li tengono chiusi). E la marcia va a festeggiare i compagni di Radio Globo che, alla faccia delle attrezzature rubate e dei locali distrutti, hanno continuato a diffondere la parola della Resistenza attraverso internet, sfuggendo alla caccia degli sbirri, spostandosi di casa in casa, di giardino in giardino, di anfratto in anfratto, come il nostro amico Pavel, strepitoso protagonista di questa contesa tra guardie di menzogne e ladri di verità.

Nonviolenza?
A un certo punto ecco i cobras, neanche un centinaio, con quelle mazze di legno spaccaossa, i mitra, i lanciagranate CS, quelle facce che abbiamo visto a Genova, brutizzate dall’addestramento alla protervia, alla ferocia. Davanti a quest’ ola di entusiasmo e determinazione, i mercenari delle Dieci Famiglie, gli ascari della Scuola delle Americhe, i pretoriani della gerarchia cattolica ed evangelica, disorientati, sbigottiti, arretrano, si limitano a seguire da lontano. Non è il momento di sparare, siamo troppi e non conviene macchiare di sangue gli sparati di chi al Clarion finge di negoziare pacificazioni. E’ bastato che un centinaio di studenti, giorni prima, davanti al Clarion, per una volta reagissero al fugone disordinato della folla aggredita, ponendosi in mezzo, a copertura di donne, vecchi, deboli, ragazzini, perché la truculenza impunita dello sbirrame della dittatura vacillasse. Nos tienen miedo por que no tenemos miedo. Non è questione, ancora, di resistenza armata, come, chiamandola “insurrezione” e “terrorismo”, la cricca dei golpisti la denuncia, “scoprendo” ordigni esplosivi nei centri commerciali, o puntando il dito su campi di addestramento in Nicaragua, allo scopo di liberarsi le mani a una resa dei conti militarizzata, che sia giustificabile davanti alla già collusa “comunità internazionale”. C’è qualcuno che dal grasso Nord del mondo ha qui importato la burlesca fissa della “nonviolenza” da agnelli sacrificali. E così ogni lotta, ogni manifestazione ha subito lo stesso destino: botte da orbi, un omicido o due, gas venefici, panico, dispersione disordinata, traumi e senso di sconfitta. Forse da questi studenti, dai più consapevoli dei militanti sta uscendo l’intuizione che nonviolenza è soprattutto la difesa dalla violenza dei gorilla di Goriletti (detto anche Pinochetti). Che i deboli, gli indifesi di un corteo vanno protetti con servizi d’ordine che sappiano, anche a fuochi, pietrate e barricate, frenare gli attacchi della repressione, organizzare e garantire via di fuga e di riordinamento, costituire un contropotere di massa, evitare che si arrivi al punto di non poterne più di prenderle, sempre prenderle e si finisca col restare a casa. Lo hanno insegnato i boliviani, gli ecuadoriani, quando hanno cacciato i loro di Micheletti. Forse sapranno rispondere al piano repressivo che la dittatura, mostratasi irriducibile e magari domani nascosta dietro elezioni “democratiche” alla Bush, già previste sotto controllo delle Forze Armate, figurarsi, costruendo una rete clandestina di resistenza. Rete che salvaguardi la direzione e il tessuto del Fronte della Resistenza, condizione imprescindibile per quella vittoria, domani, che la maturità politica espressa da questo popolo saprà garantire a sé, facendone anche scudo ai fratelli sotto tiro Cia in tutto il continente latinoamericano, da Cuba alla Bolivia, dal Venezuela all’Ecuador, al Nicaragua, al Salvador, al Paraguay, all’Uruguay, ai rivoluzionari e ai progressisti.

Oggi, intanto, è festa e affermazione su una cricca di macellai fascisti che, abolito formalmente lo stato d’assedio e la legge marziale, sconfitti dalla disobbedienza di massa, vogliono perpetuarli nella sostanza approfittando del sonnecchiare complice dei democratici e delle sinistre di quasi tutto il mondo. Resta infatti praticata la sospensione delle libertà e dei diritti all’inviolabilità del domicilio, a manifestare, riunirsi, associarsi, comunicare in termini non di regime Qui è successo e continua a succedere un Cile 1973, quello per cui da noi i sindacati scioperavano, boicottavano, i manifestanti assediavano le ambasciate, la stampa “perbene” strepitava indignazione, Lotta Continua organizzava “Armi al MIR” (l’organizzazione del martire Miguel Enriquez che, diversamente dal PCC, non si rassegnò). Oggi silenzi e occultamenti, sparuti segnali dei pochi cui è rimasto la consapevolezza che la battaglia internazionalista contro fascismo e imperialismo è la chiave anche per affrontare la propria macelleria sociale, la chiave di un futuro o da fine del mondo, o di liberazione per tutti. Si attraversano i quartieri delle casupole e delle baracche, con i cartelli delle parole d’ordine tracciati da donne proletarie e sottoproletarie, incredibilmente consapevoli, accolti dalle donne delle baraccopoli che dall’inedia del dollaro al giorno riescono a estrarre pasti per chi resiste nelle piazze. Veniamo infoltiti dalle vittime della sopravvivenza senza lavoro, senza scuola, senza sanità, che da quattro mesi sfidano lesioni, arresti, abusi e morte per arrivare a dire finalmente la loro sul destino di questo paese. Ogni incontro, pure rinnovatosi tutti i giorni, è avvolto in un’affettività che sprigiona calore da unità d’intenti, un rete d’amore contrapposta alla gelida complicità di quei quattro becchini della giustizia e della vita nascosti dietro ai loro pretoriani. E gli studenti coronano la giornata accendendo nel buio mille fiaccole, dando ulteriore nerbo alla resistenza con quell’enorme falò che incenerisce il Micheletti-fantoccio vestito di bandiera Usa. Sacrosanto falò di sostanze tossiche, di quelli che tanto scandalizzano i tutori della “società civile” quando s’inceneriscono stelle di Davide, pupazzi di mercenari o vessilli a stelle e strisce.































Genova 2001 ?
Con Marco, amico e collega telecineoperatore, abbiamo vissuto per due settimane in un paese sotto stato d’assedio. Quel figlio della Grande Meretrice nel Nord, Micheletti, dopo qualche giorno di sopracciglia inarcate dei soci della “comunità internazionale”, aveva dichiarato revocato il provvedimento e la legge marziale. Ma non aveva pubblicato la revoca sulla Gazzetta Ufficiale, in modo da poter surrettiziamente continuare a infierire sugli inermi: manifestanti, comunicatori, associazioni. E così che ci trovammo coinvolti nel quotidiano assalto a manifestanti che, correttamente, avevano individuato nell’Ambasciata Usa, al di là delle fanfaluche sull' Obama buono messo alle strette dai tagliagole del Pentagono e dalla virago Clinton, l’obiettivo cardine della resistenza al golpe. Erano qualche centinaio a cantare – questa è una lotta che canta, come tutte quelle che hanno un’anima rivoluzionaria – ballare e lanciare slogan contro i gringos e i loro fantocci e per l’assemblea costituente. Lo schieramento di robot armati a difesa della sede dei neoconquistadores intima di togliersi dai piedi. La folla rifiuta come un sol uomo, pur avendo fatto quotidiana esperienza del modello Genova che ne sarebbe seguito. Alle 12.15 scatta la carica. Prima una grandinata di mazzate sulle prime file, spappolamenti, lacerazioni, sangue. Poi sulla moltitudine in fuggi fuggi una scarica di gas tossici e acque chimicizzate. Robaccia da accecare, rendere incapaci, lesionare e danneggiare nel tempo. Marco, dalle lunghe gambe e da esperto professionista, dietro a un albero si cura di mettere al riparo lo strumento di lavoro e di verità, la telecamera, il Kalachnikov dell’informatore onesto. Io, abbioccato dal gas, indugio tra marea in fuga e squadroni di Mazinga all’inseguimento. Piovono granate come castagne d’autunno. In quei momenti, accecato o non accecato, asfissiato o respirante, al cronista viene l’urgenza di raccontare subito, senza la mediazione del ricordo. Voglio dire qualcosa al microfono di Marco per comunicare autenticità e immediatezza. Ma il discorso “in camera”, quello che noi della tv chiamiamo stand up, resta strozzato in gola da un attacco di tosse convulsa che mi piega in due. Tutt’intorno altri polmoni si accartocciano, si rivedono le scene dei gas sparati dagli iraniani sui curdi. E l’idea che questi allievi di Negroponte e Netaniahu, specialisti di squadroni della morte su entrambe i lati dell’oceano, possano sorvolare su chi si proclama “prensa” o “press” e ha in mano gli attrezzi del mestiere, svapora quando il fotografo restato indietro con me viene colpito in piena schiena e abbattuto da una granata di quella roba tossica. Conviene unirsi ai fuggiaschi. Si serpeggia tra mazze che ruotano sulle teste e si dribblano granate saettanti tra i piedi. Ancora una volta va deprecata l’assenza di qualsiasi ombra di servizio d’ordine che faccia barriera tra robocop scatenati e inermi allo sbaraglio, che convogli verso ripari e santuari, riorganizzi un minimo di risposta. Succedeva, ci raccontano le immagini, nei primi tempi della rivolta contro i masnadieri fascisti, ma poi prevalse la parola d’ordine della nonviolenza sublimata in martirio. Guai se quelli lì trovano pretesti per darti del violento, del teppista, del terrorista! Come se di pretesti avessero bisogno! Canali televisivi e giornali non chiusi, tutti in mano alla mafia oligarchica, ti davano comunque dell’insorto contro le leggi dello Stato, del devastatore, del criminale, anche se ti presentavi snocciolando rosari. Il confronto è tra il Cile, consegnato dal pacifismo mitizzato a un ventennio di terrore e depredazione, e la Bolivia, l’Ecuador, il Venezuela, dove masse insorte, nonviolente ma non indifese, hanno invece saputo infliggere alla belva fascista danni insostenibili. Anche perché se giorno dopo giorno protesti e poi lasci la piazza, la città in mano ai “tutori dell’ordine”, non ti si fila nessuno. S’è visto nell’abissale silenzio, nella cinica e complice indifferenza con cui tutti i media del mondo, sinistre comprese (faccio un’isolata eccezione per Geraldina Colotti, correttissima sul “manifesto”), hanno accompagnato e affossato lo scontro tra l’80% di un popolo e i matamoros rapinatori di libertà e di vite. Sarebbe stato lo stesso se ragazzi avessero difeso pezzi della loro città con le barricate incendiate, la paralisi del traffico e dei trasporti, larghe zone di inagibilità dello Stato?

Diritti umani sotto dittatura
In coda a uno spezzone della manifestazione, tra pestati, sanguinanti e incazzati, arriviamo nel cuore della città, alla sede del COFADEH (Comitato dei famigliari dei detenuti e desaparecidos in Honduras). Una palazzina a due piani dove da decenni si lavora, e mai come in questi mesi, alla ricerca, difesa, liberazione delle vittime della repressione, all’inseguimento giuridico dei responsabili, degli aggressori, degli assassini. Il comitato è presieduto da Bertha Oliva: nel 1982, nel paese dell’eterna repressione oligarchico-coloniale, a Bertha è stato fatto sparire suo marito. La sua silhouette tracciata sulla porta della direzione ce lo presenta giovane, con panni e faccia da ’68. Dal suo personale desaparecido questa donna ha tratto la forza per costruire uno scudo a tutti i vessati, abusati, carcerati, perseguitati del suo paese. Subito all’ingresso una bambina di 14 anni, con la madre. Sulla nuca una larga fascia a copertura della ferita procuratasi quando, accecata dai gas, è precipitata da un muretto. Più o meno negli stessi giorni, la furia mirata degli sbirri aveva spaccato il braccio a Carlos Reyes, segretario del più grande sindacato honduregno e fino a poco fa credibilissimo candidato indipendente alla presidenza della repubblica. Ci aveva detto, Reyes, che la sua candidatura avrebbe retto solo nel caso del ritorno alla presidenza di Manuela Zelaya e, quindi, di elezioni libere, trasparenti, non manipolate dalla cricca di golpisti alla moda afghana. Quell’ipotesi sembra caduta con la rottura del “negoziato” tra criminali e vittime, sigillata dal rifiuto di tornare alla situazione istituzionale di prima del 28 giugno. E pensare che nei sondaggi Reyes figurava in testa a tutti. Con competitori come gli squallidoni Elvin e Pepe dei soliti Partito Liberale e Partito Nazionale, che si alternano al potere dall’eternità a difesa delle medesime rapine e obbedienze yankee come se fossero dei PD e PDL qualsiasi, la partita non era difficile. Anche per questo il golpe. Più avanti, nell’androne del Cofadeh, su un divano, giace rannicchiato immobile un pallidissimo ragazzino sui 12 anni. Incapace di arrestare le lacrime, ormai più dolore che rabbia, sua mamma racconta a Marco quello che gli hanno fatto: polmoni bruciati, costole spaccate, terrore inseminato per chissà quanto.
Carlos Reyes

Nel vociare degli scampati alla caccia all’uomo che fanno registrare ai volontari di Bertha gli abusi subiti o testimoniati, la presidente di questo organismo eroico, minacciato, perseguitato e diffamato più di coloro che difende, ci mostra la bozza del Segundo informe sobre violaciones a derechos humanos en el marco del golpe de estato en Honduras: Cifras Y Rostros de la Represion (Dati e volti della repressione). Entriamo in uno scenario cileno di cui, per ragioni di spazio, riferiamo solo le cifre essenziali. La musica dell’orrore ve la dovete immaginare. Diritto alla vita: 21 assassinati accertati al 20 ottobre (e ci si riferisce solo alle città, le campagne devono essere indagate), 3 tentati omicidi, 108 minacce di morte; diritto all’integrità personale: 133 persone colpite da trattamento crudele, disumano e degradante, 21 da lesioni gravi, 453 feriti da mazzate e granate, 211 colpiti da armi non convenzionali; diritto alla libertà: 3.033 detenzioni illegali, 2 tentativi di sequestro, 114 arresti politici; libertà d’espressione: 27 mezzi di comunicazione occupati, devastati e chiusi, 26 aggressioni a giornalisti; 3 organizzazioni sociali vietate; libertà di movimento: 52 fermi di polizia e militari senza imputazioni. Seguono le violazioni di domicilio, del diritto di difendere i diritti umani, cioè i provvedimenti contro dirigenti sociali e dei diritti umani… Spicca tra la profusione di foto su tutte le pareti quella di una giovane di gentile e volitivo aspetto: era Wendy Elizabeth Avila, 24 anni, uccisa dai gas del despota scaturito dalla base Usa di Palmerola, mentre, militante della Resistenza dal giorno del golpe, il 22 settembre in mezzo a una folla immensa festeggiava davanti all’ambasciata brasiliana il rocambolesco ritorno di Zelaya. Sono gas forniti da Israele, come gli istruttori delle squadre degli assassini mirati, fin dai tempi della caccia Contras al sandinista.

Operazione Condor 2
Del resto, come mosche sul miele o, meglio, come rapaci lanciati da falconieri, si sono avventati sull’Honduras da eviscerare gli stessi cavalieri dell’apocalisse che avevano stritolato il paese e i suoi vicini negli anni ’80, al tempo delle mattanze di Reagan e Bush padre contro le forze di liberazione di Salvador, Guatemala, Nicaragua. Centinaia di migliaia di morti ammazzati. Era la coda dell’Operazione Condor, dittature militari, terrore e stragi in tutto il “cortile di casa” Usa dai ’70 agli '80.Siamo all’Operazione Condor Due. Governava la prima edizione Otto Reich, imprestato al Dipartimento di Stato dalla mafia cubana di Miami, protettore dell’iperterrorista Posada Carriles. Oggi, da sottosegretario della Clinton, torna a governare la versione obamiana dell’uccisione di repubbliche che “delle banane” devono restare. Era ambasciatore allora John Negroponte, padrino di tutti gli squadroni della morte che hanno funestato l’Honduras, l’America Centrale, successivamente l’Iraq. Negroponte, recuperato per tali meriti dalla segretaria di Stato di Obama, è tornato a occuparsi di Honduras e di squadroni della morte. Billy Joya di questi è il campione, quello che ci tiene a sporcarsi direttamente le mani. Specialista degli assassinii mirati e di torture ai prigionieri durante gli anni del mattatoio reaganiano, uccideva personalmente i prigionieri. E’ tornato pure lui e stavolta a incarico di altissimo livello, ufficiale, visibile a tutti, così che tutti imparino: consigliere per la sicurezza del lumpendiktator. Nientemeno. Il che ci fa capire cosa s’intende oggi quando, anche da noi, ci si parla di “sicurezza”. In Honduras lo chiamano el matarife, il macellaio. Lo abbiamo colto al volo, col telefonino, all’aeroporto di Tegucigalpa, andava a casa a farsi commissionare nuovi crimini. Se ci avesse visto filmarlo avremmo tardato molto a rientrare. Scusate se l’immagine, rubata, non è perfetta. Basta per ricordare una faccia.

Billy Joya

I predatori e il loro golpe
Se del paese da un secolo fanno man bassa la United Fruits, ora Chiquita, e la Dole, già dei fratelli Vaccaro, dietro le quinte di ogni spettacolo granguignolesco allestito in Centroamerica, non sono da meno, tutti del Nord del mondo, i disboscatori e quelli delle miniere. L’Honduras è tutto un saliscendi dal livello del mare ai quasi 2000 di La Esperanza, cuore della maggioranza india Lenca, figli degli amerindi peregrinati qui da Colombia e Venezuela e discepoli degli aztechi. Poverissimi tra i poveri, resistenti tra i resistenti. Paesaggi come montagne russe, un tempo fittamente rivestite da superfetazioni tropicali in basso e sterminate foreste di pini in alto. In mezzo il prezioso mogano, ambìto nelle magioni dei fissati di status ed esibizione. Siguatepeque è una cittadina nel cuore del paese. Intorno ha ancora le antiche foreste, rifugio di Lempira, grande capo indiano che ripetutamente sconfisse i predecessori spagnoli dei genocidi yankee e, consegnatosi dopo tre mesi di assedio, fu ovviamente trucidato dal Billy Joya dell’epoca. Per arrivarci con la corriera tocca scivolare con lo sguardo su una serie ininterrotta di montarozzi calvi, spennati senza pietà. E’ la deforestazione, una distruzione dell’ambiente corroborata dalla corruzione della classe dirigente, inflitta dal commercio, fuorilegge ma multinazionale, del legname. Già nel 2004 (altre cifre non ci sono) il paese perdeva 1000 kmq di foresta all’anno, un 2% della superficie boschiva nazionale. Disboscamento significa erosione del suolo, impermeabilità del terreno, incendi, inondazioni, valanghe di fango che, estremizzate anche dall’uragano Mitch, hanno ucciso migliaia di persone. I pini forniscono il 96% del legname del paese, metà abbattuto illegalmente. Del mogano fino all’80% viene prodotto illegalmente: tre milioni di tasse evase, svalutazione del valore sul mercato internazionale, incalcolabili danni all’ambiente naturale. Ogni anno l’Honduras perde così un miliardo e mezzo di dollari, la Terra un pezzo dei suoi polmoni. Gli Usa acquistano il 38% di questo legname. I suoi burattini despoti locali chiudono gli occhi e intascano la provvigione.

Capisaldi della Resistenza
Lungo i tornanti della strada che si avvinghia alla montagna in crescita, il loquacissimo per esuberanza rivoluzionaria compagno del Frente, Ostilio (produce magliette della Resistenza di ottima qualità diffuse tra la gente come margheritine sui prati primaverili), ci ferma dove sorgono una serie di negozietti che nascondono un villaggio di recente creazione, bello, lindo, ordinato e con tanto di bel campo sportivo. E, insieme all’aumento del 60% del salario minimo, alle leggi per la scolarizzazione, al sostegno alimentare ai più poveri, al controllo sugli sciacalli delle industrie farmaceutiche e ad altri provvedimenti che hanno permesso l’inserimento dell’Honduras nell’ALBA (Alleanza Bolivariana dell’America Latina), una delle iniziative di Zelaya che hanno mandato in bestia i padroni interni ed esterni del paese. Gente che se ne stava rannicchiata in tuguri nascosti tra gli alberi ai lati della strada e scendeva ai bordi per offrire agli automobilisti quanto sottraevano alla propria bocca, frutti, pannocchie, sciroppi, ha ottenuto l’incentivo finanziario e la formazione professionale per trasformare la mendicità in attività produttiva e commerciale e l’indigenza in modesto benessere. Coloratissime e sorridenti signore indigene, con addosso il solito grappolo di frugolini, presidiano una sfilata di botteghe artigianali con il frutto della loro evoluzione: oggetti in ceramica, maschere, utensili domestici in versione artistica, stoffe, oltre alla solita radiosa frutta. Un pezzo di vita honduregna cambiata, un’esclusione senza dignità sostituita dal ruolo sociale e, a giudicare dai manifesti della Resistenza, dalla coscienza politica. I golpisti e i loro burattinai a Washington potranno pure impedire il ritorno del presidente defenestrato, allungare il brodo rancido del “dialogo” fino alle elezioni di fine novembre, manipolare quelle per rimettere in capo al paese il solito bulimico verminaio, predisporre questa base d’assalto dell’imperialismo in Centroamerica al roll back latinoamericano di Obama-Clinton-Pentagono-multinazionali-FMI, al recupero dei popoli e delle risorse perse, alla liquidazione dei Chavez, Correa, Morales, Ortega e, se non s’accucciano, anche di Brasile, Argentina, Salvador, Guatemala, Paraguay, Uruguay e, naturalmente, Cuba. Ma quanto è nato, cresciuto, maturato in questa gente nel corso di quattro incredibili mesi di insanguinata ma irriducibile lotta a chi vorrebbe riportare l’orologio ai tempi di Videla, Pinochet, Batista, Somoza, a me pare una garanzia di vittoria. Non nell’immediato, forse, quell’occasione sembra sfumata, ma a largo plazo, nel lungo termine di sicuro. Proseguiamo scorrendo lungo il lunghissimo muro di cinta e di filo spinato che occulta “Palmerola”, la più grande base militare Usa in Centroamerica. Quella che ha alimentato nei decenni l’oceano di sangue e di miseria che ha sommerso i paesi dell’Istmo e i Caraibi. Da qui tutte le amministrazioni Usa dell’ultimo mezzo secolo hanno fatto partire le loro spedizioni punitive contro Guatemala, Salvador, Nicaragua, Cuba, Haiti, Panama, Grenada… Da qui sono stati rigurgitati il boia Micheletti e i gorilla in uniforme, marchiati sul mazzo da stelle e strisce e stelle di Davide, come vitelli. Capito cosa devono ai resistenti honduregni i popoli della regione?

Per la festa, non c’è tornado che tenga
A Siguatepeque la Scuola di Trinidad Sanchez, 40 anni, un entusiasmo che gli vibra negli occhi, dirigente del Frente de Resistencia, è ancora immersa nei pini. L’Istituto per la Commercializzazione Comunitaria Alternativa è una delle centinaia di tessere che compongono il Fronte della Resistenza al Colpo di Stato, assieme a partiti di sinistra, organizzazioni sociali, organizzazioni indigene, associazioni per la difesa dei diritti umani, Via Campesina, sindacati, comitati di quartiere e di villaggio, insomma tutto quello che di sano e di contrasto si muove in una società che ha iniziato a rifiutare esclusione e discriminazione. Mentre le mamme, volontarie, preparano la cena, i ragazzi dell’Istituto, perlopiù campesinos provenienti da tutta l’area e in parte qui alloggiati, mettono in scena uno spettacolino che racconta in termini satirici la vicenda golpista e si conclude, ovviamente, con la fortissima invocazione dell’Assemblea Nazionale Costituente. Trinidad ci spiega che la scuola fa parte della Red Comal, rete di strutture che propongono e attuano un programma di produzione-commercializzazione, sempre nel quadro di un rigoroso biologismo, che prescinda dai momenti di speculazione e estrazione di plusvalore e colleghi direttamente il produttore organizzato con il consumatore organizzato. Un modello già realizzato in Venezuela con le cooperative agricole e i celebrati Mercal, un’altra spina nel fianco della élite compradora e del capitalismo selvaggio inflitto dalle multinazionali e dagli organismi finanziari a questo paese. Ma c’è di più, nel compound della scuola di Trinidad. In una casetta defilata, oltre il limitare del bosco stanno nascosti e protetti Melissa, giovane fuggiasca, e i suoi tre piccoli figli. Sono latitanti da S. Pedro Sula, l’altra grande città in rivolta, lei violentata dagli sbirri, il marito ucciso. Ne sentirete il racconto, rappresentativo della parte di violenza alle donne di questa dittatura, nel documentario che stiamo montando.

La sera un gruppo del Salvador sul palco della plaza central stracolma, dà vita a un concerto straripante di energia latinoamericana, di fuoco rivoluzionario, canzoni di lotta della guerriglia d’un tempo, melodie fiorite dalla lotta di oggi, come da noi nel ’45, o nel ’68. I ragazzi del gruppo leggono documenti di solidarietà dei contadini salvadoregni, poesie, gridano serie di slogan che culminano sempre con l’urlo “Asamblea Nacional Constituyente”. C’è mezzo paese in piazza e gli si abbatte addosso sul finale uno di quegli sgrulloni che nei tropici marcano i giorni della stagione delle piogge, ma da noi passerebbero per cicloni. Se non respiri col naso e apri la bocca rischi il waterboarding naturale, tanto è il Niagara che viene giù. Ma non si sposta quasi nessuno. I ragazzi sul palco, inzaccherati, continuano a suonare e, giù, la gente s’è messa le sedie in testa e a far trenini per la piazza. Uno sghignazzo di sfida alla pioggia e a chi la manda a fermare il canto della Resistenza.

La Esperanza è un grosso paese più a nord, a pochi passi dal Salvador, a 1.800 metri di altitudine. E’ la capitale degli indigeni Lenca e dell’organizzazione COPINH, Consiglio dei popoli indigeni dell’Honduras. Ci ospitano i suoi militanti, alcuni stranieri, anche italiani che qui hanno incontrato il sollievo di una speranza e di un impegno per darle corpo. Ci hanno dato una grossa mano, la loro generosità nella lotta e verso chi viene a conoscerla è impagabile. Non ne facciamo i nomi: finchè c’è Goriletti non è consigliabile. Il centro di La Esperanza è uno sfolgorio di luci e colori, in abbacinante contrasto con un tessuto umano di scarnificata povertà, quello che la domenica mattina si sparge per il centro. Sono i contadini Lenca di sfolgoranti tinte vestiti, quasi solo donne, anziane che fuggono l’obiettivo demoniaco, giovani già maturate al sorriso. Sono scese dai villaggi sui monti con la fantasmagoria colorata dei loro prodotti, frutta, verdura, formaggi, povero artigianato. 7 bambini su 10, di quelli appesi alle vaste gonne delle madri, muoiono di patologie banali prima dei 5 anni. Le baracche di legno delle loro microbotteghe furono tutte bruciate nel Natale del 2006. C’entravano i Caltagirone del posto. Speculatori volevano costruirci un megacentro commerciale. Ma i venditori occuparono la piazza, resistettero a minacce, compromessi a perdere, cariche, ricostruirono le loro baracche. Progetto palazzinaro sconfitto. La Resistenza di oggi ha radici segrete, lontane, nasce anche dal risveglio di una popolazione antichissima che non ha mai perso la memoria di sé e che, diversamente da quanto elucubrano alcuni settori indigeni del Cono Sud, ha imparato che la salvezza sta nella classe, non nell’etnia.

Come ti frego i media del padrone
E a questa gente dalla coscienza in crescita, via dal folclore turistico, che si rivolge Rolando, diciottenne conduttore della radio del COPINH, una di quelle che da noi si dicevano “libere”, che tutte hanno subito le vessazioni della dittatura, ma che hanno resistito e, ostinate, sono tornate a trasmettere, anche dopo irruzioni e furto di attrezzature. Con i compagni ricercati o arrestati, il ragazzo Rolando ha tenuto in piedi da solo la radio per 45 giorni: notiziari di lotta, voci dal territorio, informazioni dal mondo, appuntamenti e mobilitazioni, 24 ore su 24 al microfono, a coprire le poche ore di sonno con una musica che prende il sangue e mi ricorda quella di Lotta Continua. Melissa, del Copinh e della formazione femminista che fa parte del Frente, parla delle esperienze fatte in alcuni giri in Europa. Non sono esaltanti. Incontri eminentemente con attivisti già convinti, pochi contatti con il pubblico generico, persone rimaste solo colpite dal racconto delle condizioni di tremendo sfruttamento umano nelle maquilas, le fabbriche dove operaie schiavizzate cuciono vestiario con tessuti importanti dal Nord. Modello Benetton su scala terzomondiale. Ha l’impressione che da noi il terreno non sia preparato, che si rimanga appesi a quello che chiama “folclore politico”. Perché? Perché s’è perso il concetto, la consapevolezza, la pratica dell’internazionalismo, quella componente della coscienza di classe che unifica condizioni e lotte, individua il nemico comune, sempre quello. E’ l’assenza di un disegno strategico comune. Ci vedono sempre come mondi diversi, distanti, chiude Melissa, mentre fa le valigie per un'altra spedizione in Slovenia e Italia. Que le vaya bien, come dicono qui. E’ una vita che da queste pagine si strepita sul burinismo localista e particolarista delle nostre sinistre “radicali”, sulla perdita, davvero letale, della quadra internazionalista. Passando con un taxi per le strade di La Esperanza impariamo un altro dettaglio dell’oppressione di classe che si copre di razzismo, come insegna Maroni: le vie della parte di città abitata dai creoli, dai bianchi, è lastricata alla perfezione, asfaltata; poi c’è una cesura netta e inizia la parte indigena: strade sterrate, marciapiedi frantumati, polvere quando c’è il sole, paludi e fango quando piove, come ora. Miseria, abbandono, sottosviluppo, sfruttamento che non hanno impedito che da questo segmento di popolo nascesse il Copinh, una grande forze sovversiva e di emancipazione, oggi la componente politicamente forse più matura della grande coalizione contro il golpe e per il rinnovamento di Stato, società, paese. Nessuno ha saputo informare meglio nel dettaglio e nei significati profondi quello che qui è stato vissuto a partire dal 28 giugno.

Traditori di classe ed ecoassassini
Marco ed io siamo ospiti della famiglia Zelaya, cugini del presidente e come lui, più di lui, traditori della propria classe d’origine e impegnati in prima persona nella Resistenza. Lorena è membro della direzione del Frente ed è grazie a lei che siamo capitati sempre nel posto giusto al momento giusto. La vedete in bianco, qui sotto, fronteggiare un battaglione di sbirri. La mamma-nonna, Estella, ha 86 anni, è vispa e combattiva come un gatto infuriato, ha una memoria da generale di battaglie napoleoniche, sa tutto dello scontro in corso e s’incazza sui golpisti in tv manco li avesse sotto le mani. Una donna da innamorarsene. Il suo amico Fidel le disse: “Mai ti vorrei avere come nemica !” Una sua foto con la mano sulla gamba del gigante cubano troneggia in salotto. Chissà cosa pensa del fideliano “bene hanno fatto a dare il Nobel a Obama” che ha sbigottito la sinistra in tutte le Americhe… L’altra figlia, Sandra, ci fatto da autista e guida per mezzo Honduras.

Un giorno finiamo nel dipartimento di Olancho, tre ore a Ovest, verso il Caribe, dove apre le sue voragini e avvelena ambiente e gente la GoldCorp, multinazionale mineraria canadese che imperversa intossicando, devastando e rubando, sulle vene d’oro di mezzo mondo. Dopo essere sfilati lungo giganteschi depositi di legname, grossi tronchi accatastati e strappati dai deforestatori yankee alla salute del territorio, su una spianata ribollente di acque termali incontriamo Martin Herazo, sopracciglia come tettoie, barbetta di capra, occhi trapananti, una specie di Pan, presidente del Comitato Ambiente della regione e combattente irriducibile contro i predatori dell’oro. Le bolle incandescenti delle acque che servirebbero a sanare una moltitudine di patologie, ci dice, sono tutte contaminate da cianuro, arsenico, metalli pesanti utilizzati nell’estrazione e lavorazione dell’oro. Le donne che, in basso, sciacquano i panni nel torrente, sono costrette a farlo a dispetto dell’inquinamento. L’acqua non è potabile da nessuna di queste parti, ma la bevono lo stesso. Altra non ce n’è. E’ un ennesima neoplasia che l’economia di rapina del Nord coltiva sul suolo e tra le vite dell’Honduras. Tutta l’area è contaminata, denuncia Martin. Gli effetti dell’arsenico su una popolazione che ha un tasso di mortalità superiore a qualunque altro territorio del Centroamerica sono cancro a vescica, polmoni, pelle, reni, naso, fegato e prostata. Negli animali aumenta la mortalità, produce sterilità, moltiplica gli aborti spontanei e distrugge i globuli rossi. Nel 2008 il presidente Zelaya eliminò la GoldCorp dallo “Jantzi Social Index”, un elenco di società che godono di ampi privilegi fiscali e all’export. Spiega Martin: Fu il frutto della forte opposizione indigena alle miniere in Guatemala, che noi abbiamo ripreso, e la risposta all’incuria della società nei confronti dei problemi sanitari delle comunità honduregne e dei danni all’ambiente.

Raggiungiamo l’ingresso della miniera, irto di guardioni armati, dopo essere passati accanto a una specie di ambiente desertificato: catene di colline circondate da filo spinato formate dalla terra di riporto della miniera. Ci mettono sopra dieci centimetri di terra e ci coltivano avocado, ovviamente tossici, spiega Martin. All’avvicinarci ai guardioni dell’oro rubato per Citybank e First Ladies deve nascondersi tra i sedili. E’ a rischio l’incolumità e la libertà di chi si oppone ai magnati dell’oro. Non pochi ci hanno rimesso la pelle per ogni parte dell’America Latina, ma dai collier il sangue che cola non si vede. Sandra s’impegna in un lungo negoziato con il capobastone all’ingresso. Dice che siamo giornalisti che vorrebbero vedere la miniera per un reportage sullo sviluppo dell’Honduras. Ci chiedono nomi, dati, patrocini, passaporti. Telefonano di qua e di là. Alla fine, come è ovvio, non si passa. Il crimine non va mostrato, neppure a reporter “benevoli”. E’ l’ora del cambio turno. Tra i tanti che escono da questa fucina di patologie, sentiamo una giovane donna, madre di due ragazzi. Il contratto? E’ mensile. E poi? Forse lo rinnovano per un altro mese. Quanto prendi? 8 dollari per dieci ore. Trasporti? No, a piedi, il villaggio dista solo quattro chilometri. Quattro all’alba e quattro alle due del pomeriggio. Ci manderesti a lavorare i tuoi figli? Si volta verso l’ingresso, poi aggiunge sottovoce: Mai!

Golpe continuo
All’Hotel Clarion, non più assediato dai militanti del Frente che ha optato per disseminare le mobilitazioni nelle città, nei barrios, nei villaggi di tutto il paese, ormai in previsione di una lotta di lunga durata, si trascina a vuoto un negoziato morto, che avrebbe dovuto concludersi entro il 15 ottobre, che i carnefici del paese avevano già fatto partire morto e che, probabilmente, non avrebbe mai dovuto essere accettato senza che fossero prima ristabiliti la legalità istituzionale e i diritti costituzionali. I bonari delegati dell’OSA sono lontani, emettono qualche pigolìo dalla loro sede all’ombra della Casa Bianca. Il silenzio della “comunità internazionale” è assordante. L’informazione e la solidarietà di media e forze politiche europee ai minimi termini. Non fosse per Chavez e i suoi compagni sudamericani, che nel vertice dell’ALBA a Cochabamba, Bolivia, hanno ribadito la rottura di ogni relazione e sanzioni ai golpisti, l’Honduras sarebbe solo. Juan Barahona, leader della Resistenza sul campo e membro della delegazione di Zelaya, ha sbattuto la porta. I socialdemocratici del Partito dell'Unione Democratica si sono già ritirati dalla farsa. Carlos Reyes ha scritto al Tribunale Elettorale che, senza il ripristino delle condizioni ante 28 giugno, avrebbe ritirato la candidatura a presidente e tutto il movimento popolare ha deciso per il boicottaggio di elezioni che, sotto controllo degli eversori fascisti e delle loro soldataglie, avrebbero fatto impallidire valvassini e narcofantocci come Karzai in Afghanistan, Thaci in Kosovo, Al Maliki in Iraq, Abu Mazen in Palestina. Lo scopo delle fasulle trattative sull’accordo a perdere di Oscar Arias e di Washington era appunto quello: guadagnare tempo per guadagnare assuefazione internazionale e una nuova vernice di legittimità attraverso “elezioni democratiche” che ponessero drasticamente fine alla trasformazione del paese da repubblica delle banane in membro della catena di Stati emancipati latinoamericani. Quel mondo che si avvia a un totale rovesciamento dei rapporti di forza tra masse subalterne in rivolta per la democrazia e la giustizia sociale e l’infima minoranza di licantropi, il cui scheletro ha per spina dorsale le dieci famiglie ispano-ebree, le sue articolazioni politico-militari nelle forze armate, nell’Opus Dei, nei consulenti e operatori necrogeni del Mossad e, per testa, i revanscisti del colonialismo di Washington e Bruxelles. L’ultimo trucco escogitato era che il ritorno di Zelaya avrebbe dovuto essere sancito dalla Corte Suprema di Giustizia, quell’organismo infeudato ai buttafuori di Micheletti, tipo quelli che da noi vanno a cena da Berlusconi, che già aveva sancito la “legittimità del golpe”! Di fronte allo stallo imposto dal lumpendiktator Micheletti a trattative per le quali si era impegnato di fronte all’OSA al termine ultimo del 15 ottobre, l’organizzazione dei famigli di Obama non ha saputo che esprimere voti che il negoziato riprenda “presto o tardi”. Tali sono le pressioni delle “democrazie” perché si ponga fine a questa sanguinaria pinochettata. Forse in un soprassalto di ipocrisia torneranno a esigere il ripristino di Zelaya, forse la camarilla accetterà in extremis, ma sarà comunque uno Zelaya guscio vuoto quello che potrà tornare a sedersi sullo scranno più alto della repubblica, l’assemblea nazionale se l’è giocata, affidata “alla forza del popolo quando sarà il momento” e le elezioni manipolate dai golpisti faranno finta che l’Honduras ucciso stia uscendo dalla sala di rianimazione. La rianimazione vera la faranno queste masse che per quattro mesi nessuna brutalità, nessun terrorismo di Stato, nessuna lusinga ha saputo far retrocedere di un centimetro dall’obiettivo del cambio radicale.

Resistenza oggi e domani
Alla Resistenza, forse presto votata alla clandestinità, non resta che accingersi a una lunga guerra che contesti sistematicamente a tutti i livelli la strategia reazionaria. Guerra che, volente o nolente, potrà dover assumere tutte le forme e accettare tutti i sacrifici che nella storia dei popoli sono state imposti dalla violenza dei tiranni e dell’imperialismo. E non ci dovrà essere nessun santone della liberazione dei popoli a dovergli dettare le forme che stanno bene a lui. Gli honduregni sanno benissimo che in questa fase rappresentano, con i palestinesi, gli iracheni, gli afghani, i fratelli latinoamericani, l’avanguardia della lotta di liberazione dal nuovo colonialismo e per l’autodeterminazione, la sovranità, il potere delle classi emarginate. Hanno la consapevolezza, che manca a tanta parte delle sinistre mondiali, italiane in testa, di essere il primo capitolo di un libro che il recupero capitalista capeggiato da Obama sta scrivendo e che dovrebbe vedere nel suo epilogo un’America latina tornata carogna alla mercè degli avvoltoi liberisti. In Honduras, aprendo anche qui le ostilità contro il Venezuela bolivariano, la Bolivia di Morales, tutte le forze antagoniste del continente, gli Stati Uniti intendono inviare un messaggio di intimidazione-estorsione a chiunque nella famiglia umana pensi di sottrarsi al dominio e al saccheggio dei genocidi capitalisti disperatamente, sanguinariamente alla ricerca di un’uscita dal loro collasso. E’ una prova di forza all’apice dell’agonia del sistema. In Honduras, in America Latina tutto questo si sa, si prova sulla pelle. Da noi, no.

Premio Nobel
In Honduras, in America Latina si è sentito sbigottiti l’elogio del comandante in capo, Fidel Castro, a coloro che hanno premiato col Nobel per la pace il massimo strumento di guerra e di morte. “Operazione positiva”, ha detto il costruttore di Cuba socialista e antimperialista. Unico nel mondo della sinistra vera, dei popoli aggrediti che con queste parole si sono visti presentare la figura di un terrorista planetario, seppure di narcotizzante pelle nera, che avanza marciando su stermini, distruzione, corruzione, narcobusiness e che, da queste parti, ha ripreso a roteare la spada dei Nixon, Kissinger, Reagan, Bush. La spada che dovrebbe falciare i campi della vita riconquistata e difendere il solco dei nuovi Pinochet. Ma come, riconoscimenti di pace a chi allestisce colpi di Stato, piazza sette nuove basi nel narcostato vassallo Colombia per assaltare il resto del Continente e garantirsi l’usufrutto della cocaina, istiga la Cia a destabilizzare paesi usciti dall’orbita facendo leva su settori reazionari e imbecilli della popolazione nativa (succede oggi in Ecuador, Bolivia e Venezuela), puntando sulla complicità dell’acritica e non sempre innocente mitizzazione degli indios, immancabilmente puri e giusti, da parte di tante Ong? Massimo premio di pace al massimo assassino di massa, a colui che, calpestando diritto internazionale e autodeterminazione, costringe governi asserviti a lanciare armate genocide contro la propria popolazione (Afghanistan, Pakistan), complotta per destabilizzare un paese dopo l’altro, dall’Iran alla Somalia, dalla Cina alla Russia, usando il bisturi dell’inganno, del raggiro umanitario, del sostegno a circoli di rinnegati fatti passare per vindici della democrazia. Il Premio di Nelson Mandela e Arafat dato a uno che a casa sua sta spostando ulteriori ricchezze nelle tasche di chi lo ha inventato e finanziato, a scapito di milioni di disoccupati e di decine di milioni votati alla fame, rafforzando con il testé proclamato “Stato d’emergenza” in tutto il paese il bushiano “Patriot Act”, prodromo di Stato di polizia, per coltivare la gigatruffa della pandemia H1N1 a fini dell’ illimitato potere finanziario e politico di Big Pharma e di controllo fascistoide della popolazione. Arriveremo a masse poste in quarantena, magari negli stadi. Si farà in modo che la più innocua di tutte le influenze recenti diventi letale e, nel frattempo, rafforzi il massimo strumento del potere morente: la paura.

Forse Fidel pensava ai Cinque eroi sequestrati da dieci anni negli Usa, o al cinquantennale blocco di Cuba e che benemerenze come il plauso al premiato nella scia di serialkiller come Peres, Begin, Kissinger, il Dalai Lama, potessero favorire un atteggiamento benevolo della belva. Ha calcolato giusto? E, soprattutto, si è posto a fianco di coloro che da Obama subiscono il terrore fascista, le stragi dai droni in Pakistan, le armi militari e politiche per la pulizia etnica israeliana, lo squartamento di pezzi d’Africa, l’impoverimento e la cancellazione del futuro a fronte della complicità con la criminalità organizzata di Wall Street e del narcotraffico che, oggi, intende fare dell’Ecuador l’hub continentale per gli stupefacenti fatti coltivare in Colombia e Perù? Ne è valsa la pena, Fidel? Forse no, come non è valsa la pena biasimare le FARC colombiane e la loro lotta. Quelle FARC cui altra scelta se non la resistenza armata è stata concessa, dopo il massacro della loro opzione politico-parlamentare anni fa, e alle quali tu hai chiesto di rilasciare senza condizioni i propri prigionieri, dimentico delle centinaia di loro compagni torturati nelle carceri del narcopresidente Uribe.

Siamo stati nelle colonias appese sui colli più alti e spellati della capitale, le più torturate dalla fame e dalle intemperie, Villa Nueva, Los Pinos, Alto de Bella Oriente. Nomi grotteschi, dati da chissà chi a coprire abissi urbani che celano una fatiscenza sociale peggiore delle favelas d Rio. Da lì, da baracche in cui su fornelli di pietra al centro di pavimenti in terra si cucina per far reggere ai manifestanti le giornate di marcia, lotta e botte, scendono i flutti più forti e più decisi della resistenza, al pari di quelli che arrivano dalle università. Gruppi di poverissimi, tappi galleggianti su giornate risolte con espedienti, ma che si sono uniti e sono diventati militanti della resistenza e oppongono organizzazione e coscienza sia alla delinquenza endemica nelle riserve indiane dell’esclusione sociale, sia ai gorilla di Pinochetti. Gente che non ha niente da perdere e che sa mettere in gioco i suoi sforacchiati brandelli di vita. Donne giovani, lì nate, o lì sospinte da bambine come detriti di risacca, ma che dei golpisti e delle ragioni della lotta hanno capito tutto. Avanguardie della Resistenza sotto tetti di plastica e tra pareti di tavole rimediate tra i rifiuti.
Lorena Zelaya

























Myrta Kennedy, presidente del movimento femminista integrato nel Frente e sua componente particolarmente combattiva, è stata, nella Casa della Mujer a Tegucigalpa, la nostra ultima intervistata. Femministe che non mettono al posto della lotta all’imperialismo e al dominio di classe, oscurandoli, il tema GBLQT, o la guerra di genere, ma li vedono come inscindibili articolazioni di uno scontro globale tra dominatori e dominati, tra chi aggredisce e chi si difende.
Di Myrta riportiamo un appello che ci ha pregato di riportare in Italia: Alle organizzazioni delle donne in tutto il mondo chiediamo un appoggio deciso perché il nostro popolo possa riconquistare il suo diritto a vivere in pace, libertà e giustizia. Incrinerà questo grido, anche a nome delle tante donne uccise, ferite, carcerate, violate nell’Honduras del joker statunitense, la lastra di ghiaccio del nostro silenzio? Delle donne e di tutti?


(Tutto il resto nel documentario che uscirà fra un mese).


Annalisa Melandri
http://boicottaisraele.wordpress.com
 
La rivoluzione è un fiore che non muore
La revolución es una flor que no muere