Una Ratisbona tropicale l06



LETTERA121
maggio 2007

Una Ratisbona  tropicale

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Mentre l'università di Teramo rifiutava di accogliere Robert Faurisson, lo
storico che sostiene che la Shoah non è mai esistita, l'ombra del
nega-zionismo sfiorava il Vaticano. Arrivando nel "continente più cattolico
del mondo", papa Ratzinger  ha detto che "il Brasile è nato cristiano"; e,
rivolgendosi ai vescovi, dunque ai detentori della tradizione, ha
addirittura sostenuto che "in effetti, l'annuncio di Gesù e del suo Vangelo
non comportò, in nessun momento, un'alienazione delle culture
precolombiane, né fu un'imposizione di una cultura straniera".
Ora la storia del Brasile e di tutti i paesi del continente (che molto a
ragione il vescovo anglicano Sebastiâo Gameleira chiama afrolatindio ) è
storia  che nasce da due immensi genocidi: quello degli indios e quello
degli schiavi negri. E questi due genocidi furono compiuti da cattolici,
portoghesi e castigliani, i quali piantarono croci su tutte le spiagge su
cui sbarcarono  e su tutte le vette che scalarono per cercarvi l'oro, ma
anche sradicarono con teocratica violenza tutte le culture e le religioni
che incontrarono.
Secondo gli archeologi e gli antropologi, nell'immensa area che poi venne
chiamata Brasile, le prime popolazioni arrivarono dall'Asia 40 mila anni
fa. Popoli di cacciatori e di raccoglitori di frutti spontanei della terra,
al momento dell'arrivo degli europei, erano certamente più di 3 milioni di
persone; cento anni più tardi ne erano rimaste vive meno della metà: le
altre erano state sterminate dalle malattie portate dagli europei ma anche
dalla violenza dei "latini". Dovunque fu loro possibile, i conquistadores
ridussero gli indigeni in schiavitù e li fecero lavorare, senza pietà, nei
campi e nelle miniere sino allo sfinimento e alla morte. I superstiti
cercarono di sottrarsi al macello rifugiandosi nelle profondità delle
foreste; il loro terrore per la ferocia dei "bianchi" fu tanto grande che
ancora oggi, 500 anni più tardi, esistono piccole tribù che cercano di
evitare qualunque contatto con gli invasori. In altri termini: un intero
mondo fu  distrutto per far nascere il Brasile. Fu davvero una nascita
cristiana? In quegli anni i teologi europei discutevano se i "selvaggi"
avessero un'anima.
Mentre il genocidio indio andava compiendosi, cominciò, e continuò per tre
secoli, quello dei negri. Due anni dopo l'abolizione della schiavitù (che
nel cattolico Brasile avvenne soltanto nel 1888), il governo fece
distruggere tutti gli archivi che riguardavano la tratta degli africani per
cancellare "ogni traccia della secolare infamia". Difficile dunque sapere
quanti negri furono strappati ai loro paesi e alle loro famiglie per essere
deportati in quella che a suo tempo era stata chiamata "Terra della Vera
Croce", ma i calcoli più approfonditi parlano dai 4 ai 10 milioni e più di
persone. Immense flotte attraversarono l'oceano per trasportare questa
merce umana, immense ricchezze nacquero da quell'infame commercio di corpi
e destini. Si sviluppò, per servire il nuovo Mercato, una perfetta
organizzazione che, per le sue dimensioni e per la sua crudeltà anticipa
quella di Eichmann. Come in quella di Eichmannn, i contenitori di uomini
donne e bambini, durante il trasporto a destinazione si riempivano di
cadaveri (la mortalità sulle navi negriere raggiungeva il 25 per 100); come
in quella di Eichmann i sopravvissuti andavano incontro all'orrore. Al loro
arrivo nel porto di Salvador Bahia (allora capitale del Brasile), dopo la
vendita ai fazendeiros con lo smembramento delle famiglie, gli schiavi
venivano marchiati a fuoco e battezzati lo stesso giorno. Qualunque
tentativo di rimanere fedeli alle proprie religioni significava da quel
momento per loro essere battuti a morte. Davvero "l'annuncio di Gesù e del
suo Vangelo non comportò, in nessun momento, un'alienazione delle culture
precolombiane, né fu un'imposizione di una cultura straniera"?
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In questa lunga terribile storia, la Chiesa non poteva non  rimanere
tragi-camente invischiata. Essendo portoghesi o spagnoli tutti i missionari
e i vescovi, la grande maggioranza di loro condivideva i pregiudizi e le
incomprensioni dei loro conterranei. I risultati furono una serie di
paurose contraddizioni. Nei documenti del primo Capitolo dei gesuiti di
Salvador Bahia (1568) si parla degli schiavi in  un  paragrafo intitolato
"De vaccis et servubus": i neri paragonati al bestiame. Contemporaneamente
la stessa congregazione fondava le "reducciones del Paraguay", vere e
proprie "cittadelle di Dio", in cui gli indios guaranì, crudelmente
perseguitati dai bandeirantes (cacciatori di schiavi), trovarono rifugio.
Fu una vera epopea, anche perchè i bandeirantes e poi le truppe imperiali
assaltarono le reducciones, considerate giustamente pietre d'inciampo per
lo sfruttamento coloniale. Riuscirono a  distruggerle. Ma anche quei luoghi
di cristiano soccorso furono pur sempre luoghi in cui gli indios venivano
soavemente strappati alle loro culture, considerate primitive. Gli indios
delle reducciones furono "europeizzati". O si tentò di farlo. Si trattò,
esattamente, anche se non violentemente di "imposizione di una cultura
straniera"
Intanto altri religiosi chiedevano schiavi ai confratelli delle missioni
africane. Sulle facciate di alcuni conventi della Bahia si aprono le
elaborate finestre delle celle dei frati. Sopra ciascuna di esse si scorge
il finestrino della stanzetta in cui abitava lo schiavo del monaco
sottostante. Padre Miguel Garcìa, un pio gesuita che fu il primo insegnante
di teologia a Salvador, assediava i suoi superiori con una domanda: ma gli
schiavi non sono nostri fratelli? Alla fine i superiori trasmisero il
quesito (e le sue delicate implicazioni) alla congregazione vaticana "De
Propaganda Fide". Il Vaticano ponderò il caso. Un  anno più tardi (1608),
giunse il rescritto: "Padre Garcìa non è adatto alla vita di colonia,
essendo persona afflitta da molti scrupoli. Lo si rimandi in Europa"...
Paolo III aveva condannato la schiavitù, alcuni (pochi) coraggiosi
missionari seguitavano a proclamarne la vergogna, ma ormai la Santa Sede
doveva (!) tenere conto degli imperi coloniali. Chissà se papa Ratzinger
conosce queste storie.
Le sue affermazioni, comunque, hanno provocato lo sdegno delle popolazioni
indigene (quelle che hanno potuto conoscerle e quelle che hanno potuto far
giungere il loro parere ai mass media). Il papa, la Santa Sede e i vescovi
brasiliani sono ora impegnati in accorate spiegazioni e in dignitose
ammissioni. Per molti versi, si tratta di una ripetizione, in chiave
tropicale, di quanto accadde per lo sciagurato discorso di Ratisbona.
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Benedetto XVI ha fatto in Brasile alcune affermazioni che sono apparse a
molti coraggiose e inedite. Ha detto che la scelta preferenziale dei poveri
è costitutiva della Chiesa, ha sostenuto la fine del marxismo e ha
proclamato il fallimento del capitalismo. Sono certamente dichiarazioni
molto importanti ma non inedite. Per quanto riguarda l'opzione
preferenziale dei poveri (che risale all'assemblea dei vescovi
latino-americani a Puebla (1979), la novità mi pare essere il fatto che
alla formula non sono più state aggiunte le parole "ancorchè non esclusiva"
che, per volontà del Vaticano di Wojtyla, la estenuavano. Quanto al
fallimento del capitalismo, già Paolo VI - e prima i lui due altri papi -
avevano condannato senza equivoci quello che avevano definito "imperialismo
internazionale del danaro". (v. l'enciclica Populorum progressio, 1967) .
Ma Ratzinger, purtroppo, ad Aparecida ha ripetuto una parola, un concetto
molto caro al ceto ecclesiastico, e quella parola, quel concetto è che la
Chiesa deve farsi avvocata dei diritti dei poveri. Io credo che in questo
concetto stia non dico la facilità ma certamente la possibilità che
Ratzinger offenda ancora, come a Ratisbona e in Brasile, le vittime
dell'ingiustizia. Il rapporto, infatti, tra chi patisce un'oppressione e
l'avvocato che lo difende non è un rapporto d'amore neppure quando
l'avvocato sia coraggioso e sapiente. L'avvocato non abita la cella del
condannato né porta catene. L'avvocato, in genere, appartiene alla stessa
classe sociale dei giudici. La sera cena come i giudici, dorme in una casa
simile a quella dei giudici. Non ha lo stesso odore della vittima che
difende. Salvo i casi di feroci dittature, non subisce le bòtte inflitte al
suo raccomandato. Qualche volta riesce a offrire un sepolcro nuovo al
giustiziato che ha invano difeso; ma a morire sulla croce è sempre il
povero. Perciò io credo che un papa, come un sacerdote, un qualunque
cristiano o una qualunque cristiana non debbano soltanto parlare
coraggiosamente a favore dei poveri ma debbano sforzarsi di stare, prima di
tutto, in mezzo a loro e aiutarli da compagni di cammino verso la Terra
della giustizia e della libertà. Una delle ragioni per cui la cosiddetta
dottrina sociale della Chiesa, letta con gli occhi dei poveri, appare
avvocatesca, incomprensibile e talvolta oltraggiosa è che chi la scrive sta
sul crinale della   storia che separa gli oppressi degli oppressori. La
missione delle Chiesa, come aveva visto nitidamente nostro padre Giovanni
XXIII, è quella di essere "la Chiesa di tutti e specialmente la Chiesa dei
Poveri".
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Questa Chiesa è stata ed è viva proprio in Brasile. E' un peccato che
nessuno ne abbia parlato a Benedetto XVI e tristissimo sarebbe se, avendone
avuta notizia, il papa avesse creduto che si trattasse di un "falso
millenarismo" (come egli ha definito con germanica ruvidezza la Teologia
della Liberazione). Mentre il papa proclamava santo, a Sâo Paulo, un
fraticello del XVIII secolo e a Roma si preparava la canonizzazione di
quasi 500 sacerdoti massacrati durante la guerra civile dalla furia degli
anarchici e dei comunisti spagnoli, in Anapu, cittadina amazzonica, si
concludeva il processo per l'uccisione  di Dorothy Stang, un'anziana suora
americana assassinata nel febbraio 2005, per mandato di un fazendeiro che
le imputava la sua animazione di un gruppo di contadini cristiani. Suor
Dorothy è l'ultimo nome nelle lunghissima lista  (più di 500 nomi) di
sacerdoti, religiose e laici cattolici, uccisi negli ultimi trent'anni  in
Brasile a causa del loro impegno a favore dei poveri. Da questo punto di
vista, la storia della Chiesa in Brasile non ha altri paragoni se non con
la Chiesa nel Salvador. Cito soltanto i nomi e le storie che conosco
personalmente e che venero come parte integrante del mio sforzo per essere
cristiano: padre Henrique Pereira Neto, collaboratore di dom Helder Camara,
massacrato da terribili torture inflittegli da uno "Squadrone della morte";
Josimo Morais Tavares, uno dei leaders della Pastoral da Terra, assassinato
da pistoleiros pagati dai grandi proprietari terrieri; frei Tito de
Alençar, domenicano, suicida per turbe mentali da sevizie inflittegli dai
carnefici della dittatura militare; padre Joâo Bosco Penido Burnier,
gesuita, ucciso da un soldato alla cui violenza voleva sottrarre  una
povera donna; don Rodolfo Lunkenbein, salesiano, tedesco, ucciso nel Mato
Grosso mentre viveva fra gli indios Bororo, difendendone i diritti; padre
Ezechiele Ramin, comboniano, italiano di Padova, anche lui colpito dagli
agrari... Qualcuno ha sussurrato questi nomi  al papa, non per chiedergli
una canonizzazione (le canonizzazioni dei poveri arrivano dopo secoli) ma
per suggerirgli che la Chiesa può e deve, se vuole vivere nella storia,
legarsi alla vicende dei poveri? Qualcuno gli ha ricordato i grandi vescovi
i cui legami con le comunità di base tenevano, oltre a tutto, a freno, le
sette "evangeliche"? Parlo di Helder Camara, Paulo Evaristo Arns, Joâo
Baptista Fragoso, Ivo Lorscheiter, Aloisio Lorscheider, Fernando Gomes dos
Santos, Pedro Casaldaliga, Tomàs Balduino...
Chi ha conosciuto queste persone o ne ammira la paziente e coraggiosa
vecchiaia, chi ascolta  i  poveri che ne raccontano la storia sa che il
Regno di Dio è già presente sulla Terra. Se potessi dare un consiglio al
papa, che appare così frequentemente oppresso da un senso di tragedia, gli
direi: Santità, non permetta che a descriverle la realtà del nostro pianeta
siano soltanto i diplomatici o i porporati.
Ettore Masina
Mi è stato fatto rilevare che la numerazione della precedente LETTERA
(marzo/aprile) era errata. Non 121 doveva essere ma 120. Chiedo scusa. Cari
saluti.
e.m.