Fw: Taranto, quanti morti si possono accettare per non danneggiare lo spread?




da Micromega

Quanti morti si possono accettare a Taranto per non danneggiare lo spread?
 
di Giorgio Cremaschi

Il decreto del governo salva Riva ha ottenuto un consenso di unità nazionale, compresi Camusso e Landini. Vediamo prima di tutto il fatto.
All'Ilva è in corso d'opera un grave reato contro la salute dei cittadini e dei lavoratori: la magistratura interviene per fermarlo e il governo interviene per fermare la magistratura. Questa la sostanza giuridica del decreto di cui speriamo la Corte Costituzionale rilevi la palese incostituzionalità: in un paese in cui tutta la classe politica si riempie la bocca delle parole regole e legalità, un decreto come questo si iscrive alla più pura tradizione berlusconiana di cambiare la legge per fermarne l'applicazione quando sono colpiti interessi potenti.

In questo caso si giustifica l'atto affermando che gli interessi in campo non sono quelli del padrone, ma dei lavoratori che rischiano il posto e del paese che rischia di perdere una azienda strategica. Naturalmente si afferma che la salute viene comunque salvaguardata e che quindi conflitto non c'è con l'iniziativa della magistratura, che viene invitata a capire.

Qui bisogna essere chiari: o la magistratura ha torto, il rischio non è così grave e la sua iniziativa è avventata, oppure ha ragione. Se la magistratura avesse torto le pubbliche istituzioni avrebbero dovuto affermarlo, cioè dire che non si muore di Ilva. A dir la verità il ministro Clini ci ha provato, ma è stato smentito da suoi stessi colleghi di governo e dalle strutture sanitarie. Gli stessi sindacati più vicini all'azienda non si sono mai sognati di smentire la gravità della minaccia alla salute. Anche l'azienda, soprattutto dopo le intercettazioni e le incriminazioni per corruzione, non smentisce più la gravità della situazione.

Dal momento che nessuno ha dunque sostenuto che non sia vero che di Ilva si muore, il decreto del governo che autorizza l'Ilva a produrre ALLE ATTUALI CONDIZIONI mentre si risana, evidentemente entra nel concetto di rischio necessario ed accettabile. Cioè un certo numero di malattie, infortuni, morti è un prezzo inevitabile da pagare se si vogliono salvare l'azienda e ventimila posti di lavoro.
D'altra parte, si obietta, all'ILVA si è sempre lavorato così e si possono ben spendere altri due anni pur di cambiare.
Questa obiezione, apparentemente di buon senso, è la più scandalosa. Anche con l'amianto c'è stato un intervallo di tempo dal momento in cui se ne scoprì tutta la nocività, a quello in cui se ne fermò definitivamente la produzione e l'uso. E i processi per strage colpiscono proprio quel periodo.
Alla Tyssen Krupp di Torino l'azienda è stata condannata per omicidio volontario proprio perché ha continuato a far lavorare quando le condizioni organizzative e ambientali non lo permettevano più.

È evidente dunque che nessun rischio è accettabile, soprattutto quando tale rischio per la salute dei cittadini e dei lavoratori è manifesto e conosciuto. Il principio fondamentale della tutela e della salute nell'organizzazione del lavoro è che quando un impianto o una produzione mettono chiaramente a rischio le persone, la produzione va fermata fino a che non vengano ripristinate o affermate le condizioni di sicurezza.
Se si rischia la salute non si lavora, questo è il principio che da anni, con ovvi conflitti anche con i lavoratori interessati, sostengono la medicina del lavoro, il diritto e la magistratura, il sindacalismo indipendente dalle aziende.
Perché allora all'ILVA si lavora nonostante il rischio?

La foglia di fico ideologica utilizzata dal decreto è che sia possibile continuare a produrre limitando al minimo i rischi. Ma questo è tecnicamente impossibile. Già due lavoratori sono morti da quando la magistratura è intervenuta. Uno ai treni merci e l'altro alle gru con la tromba d'aria. Nel primo caso i lavoratori si sono rifiutati di continuare a lavorare nel trasporto materiali se non venivano aumentati gli organici e definite rigorose condizioni di sicurezza. Hanno dovuto scioperare giorni e giorni perché ci fossero segnali in questa direzione da parte dell'azienda.

Oggi i lavoratori delle gru giustamente si rifiutano di salire su di esse perché non sanno quanto siano affidabili. Se si procedesse a una rigorosa ricognizione delle condizioni operative dell'ILVA rispetto ai parametri di sicurezza, una distesa di reparti dovrebbe essere fermata. La direzione Ilva ha sempre imposto una organizzazione del lavoro brutale e senza regole, fondata sulle minacce e sui provvedimenti disciplinari, dubito che sappia lavorare in altro modo. Il caos organizzativo con cui l'azienda ha risposto alle ordinanze della magistratura dimostra che non solo il rischio non diminuisce, ma che probabilmente aumenterà.

Per quanto riguarda poi l'emissione di fumi e polveri anche qui c'è un'enorme contraddizione nel decreto.
Se davvero Taranto deve continuare a produrre per alimentare gli stabilimenti ILVA del nord e rifornire di acciaio il sistema italiano, allora le emissioni di fumi e polveri continueranno, anzi come si è rilevato in questo periodo, saranno destinate ad aumentare. Questo perché o si produce davvero a marcia ridotta e allora l'acciaio per il nord verrà a mancare, oppure si dovranno stressare ancora di più gli impianti rimasti aperti per fare la produzione di quelli chiusi. Anche qui il rischio concreto è che i pericoli per la salute delle persone aumentino, anziché diminuire, nei due anni di licenza concessi dal governo a Riva.
Quindi o non è vero che si salva la produzione o non è vero che si salva la salute. E la magistratura viene esautorata proprio per impedire il rigore nelle scelte, per andare avanti alla giornata senza un vero controllo, senza alcuna chiarezza.

E' vero, una parte dei lavoratori soprattutto a Genova ha tirato un sospiro di sollievo con il decreto. Non si può criticarli visto che tutto il palazzo della politica e tutto il sindacato confederale aveva loro spiegato che finivano in mezzo ad una strada. Anzi la consapevolezza dei lavoratori Ilva in questi mesi è molto cresciuta, se si pensa che a luglio si scendeva in piazza per difendere l'azienda.
Chi invece non ha fatto passi avanti è stato il gruppo dirigente dei sindacati confederali, Cgil e Fiom comprese.
Una sola alternativa era possibile: si doveva chiedere l'immediato esproprio dell'azienda da parte del governo, un piano di sicurezza immediato, un piano strategico per il futuro: e la proprietà doveva pagare, cominciando con il garantire il reddito pieno a tutti i lavoratori.

La pubblicizzazione in questo caso non era certo una opzione socialista, ma assolutamente realistica, ed è stata proposta anche da quel noto sovversivo anticapitalista che è Carlo Debenedetti.
Il sindacato avrebbe dovuto partire dalla propria conoscenza della realtà del lavoro all'Ilva per costruire una posizione autonoma dal solito ricatto del padrone: o così o si chiude. Invece la fiom stessa non ha più sostenuto la posizione assunta a suo tempo a Pomigliano, allora anche contro la maggioranza dei lavoratori.

Così la gestione della fabbrica è tornata ad una proprietà pluriincriminata con latitanti in Florida e il rischio è che oggi si continui a perdere la salute per il lavoro e domani si perda anche il lavoro. Ma forse sta proprio qui la ragione vera del decreto. Prima del diritto al lavoro e di quello alla salute, per il governo Monti è stato necessario tutelare il diritto alla proprietà, sennò cosa avrebbero detto gli investitori internazionali.
Quanti morti in più si possono accettare a Taranto per non danneggiare lo spread?

In realtà non stupisce che un governo che pensa di affrontare la crisi del paese con la produttività del lavoro e le deroghe alle leggi e ai contratti, creda di risolvere così la crisi Ilva. Stupisce invece che Camusso e Landini non abbiano neppure tentato una strada diversa e abbiano ben accolto un decreto che rappresenta la prima grande applicazione di quel patto sulla produttività che non hanno firmato.

Tutto questo è la rappresentazione dello stato di degrado della nostra democrazia e della nostra stessa civiltà e dimostra che la nube di buone parole di cui si riempiono i talk show e le primarie non riesce neanche per un giorno a scacciare i fumi dell'Ilva.

(4 dicembre 2012)