Rio+20: missione impossibile



Rio+20: missione impossibile

 

 

Roberto Meregalli

Beati i costruttori di pace

 

 

Siamo agli sgoccioli, dal 20 al 22 giugno si svolgerà il gran finale di Rio +20, la conferenza delle Nazioni Unite sullo sviluppo sostenibile, a vent’anni dalla prima storica edizione.

Questo summit, fortemente voluto dall’ex presidente brasiliano Lula, venne deciso con una risoluzione alla vigilia del Natale 2010, e certamente l’ex presidente pensava anche ad una ulteriore occasione per porre il Brasile sotto i riflettori internazionali, prima dei mondiali di calcio del 2014 e dei giochi olimpici del 2016, eventi consacrazione di un Paese che, per usare le parole di Lula: “ha smesso di essere il Paese del futuro, per essere quello del presente”. Il Brasile è oggi la sesta economia del pianeta, nel 2014 supererà la Francia ed entro il 2020 anche la Germania.

Come spesso accade nelle serie cinematografiche, la seconda edizione di Rio si prospetta molto deludente rispetto alla prima, l’impatto mediatico è senza confronti, la maggior parte della gente non sa nulla di questo vertice e se gli parlate di Rio è più facile che pensi all’omonimo film di animazione che al vertice sull’ambiente. Del resto sulla stampa di questi giorni sono altri i temi in primo piano; ai governi occidentali che cercano di sopravvivere ad una crisi sistemica che non hanno ancora compreso, Rio appare senza particolari evidenze nella loro agenda

 Nel “Vertice della terra” del 1992, per la prima volta sul tavolo dei negoziati apparve l’idea di una sorta di trattato di pace fra la specie umana ed il resto delle forme viventi, un fatto straordinario che risvegliò grandi speranze.

Da allora molto è cambiato: la popolazione è cresciuta del 26% (da circa 5,5 miliardi di persone nel 1992 a oltre 7 miliardi nel 2012) e più del 50% vive in aree urbane; l’estrazione di materie prime è aumentata del 40% (da 42 miliardi di tonnellate nel ‘92 ai 60 miliardi di oggi), le emissioni in atmosfera di CO2 sono passate da 22 miliardi di tonnellate a oltre 30 miliardi (+36%). Abbiamo perso 300 milioni di ettari di foreste (una superficie superiore a quella dell’intera Argentina) e mangiamo sempre più carne: il consumo pro capite da 34 kg nel 1992 è salito a 43 kg (+26%). Formalmente la ricchezza è cresciuta: il prodotto globale lordo è salito anch’esso del 40%, ma non altrettanto il benessere, la fiducia e la speranza della gente. La distribuzione della ricchezza rimane inadeguata.

 Al di là degli slogan “verdi” negli ultimi vent’anni abbiamo continuato a spremere il pianeta, a perseguire un tipo di economia intensamente produttiva, “a produrre più del richiesto e offrire più del necessario”, rimanendo però quelli “della pietra e della fionda” perché quasi l’80% delle nostre attività sta in piedi grazie ai resti di foreste ed animali decomposti sul fondo di antiche paludi.

 Eppure ad essere sinceri già a Rio ’92 era chiaro il problema: William Reilly (allora capo dell’agenzia USA per l’ambiente) chiarì con schiettezza che “American life style is not up for negotiation” (lo stile di vita americano non è negoziabile), e se l’Europa non ammise la stessa cosa fu solo per ipocrisia.

Ma questo “mitico” stile di vita sta andando in pezzi, la globalizzazione non ci ha fatto quel gran bene promesso, l’economia è stata mangiata dalla finanza e l’iper competitività economica si è tradotta in iper competitività sociale che ha rotto alleanze che avevano sostenuto il tessuto delle comunità locali. Il frutto della corsa è sotto gli occhi di tutti: le nostre società occidentali sono alle corde, siamo più poveri e insicuri. Ma la rabbia che monta non deve sfociare in una lotta tutti contro tutti, la lezione della Terra è che solo nella cooperazione potremo trovare speranza.

Rio+20 non è indirizzata su questo binario, anzi l’obiettivo sembra il solito vecchio tentativo di fagocitare l’ambiente nel vecchio sistema, per questo si cerca di trasformare le regole ambientali in strumenti commerciali, di dare un prezzo ai “servizi” della natura, di creare prodotti finanziari “per proteggerla”. (Interessante notare che più dell'interesse dei governi, è vivo quelle delle imprese multinazionali).

Così com'è questo summit non serve. Servirebbe far tornare l’economia nei limiti della biosfera, tagliare le gambe ad una finanza che drena denaro per concentrarlo in poche mani, avere l'obiettivo non di produrre più cose con meno persone ma di far lavorare più persone, distribuendo la ricchezza “perché voler mitigare la povertà senza mitigare la ricchezza è ipocrisia”. Non sarà Rio+20 a cambiare le cose, ma saremo noi a farlo se sapremo immaginare uno scenario senza pozzi di petrolio e senza oleodotti che si rompono e piattaforme che si incendiano, senza miniere di carbone, senza prodotti finanziari tossici, senza agenzie di rating che piegano intere nazioni, senza più spread a condizionare la vita.

Scriveva Alex Langer nel luglio 1992: “La semplicità di vita è il vero obiettivo proclamato dal vertice della terra: così rivoluzionario da non poter essere iscritto in un trattato”.

 

 

 

 

 

Note:

la citazione di William Reilly e quella di Alex Langer sono tratte da “Il viaggiatore leggero”, Sellerio Editore.

La frase “voler mitigare la povertà senza mitigare la ricchezza è ipocrisia” è tratta da “Futuro sostenibile” del Wuppertal Institute di Sachs e Morosini (EMI Editore 1997).

I dati riportati sulla crescita negli ultimi vent’anni sono tratti da KyotoClub.