questa terra è la tua terra




«Questa terra è la tua terra»
— 27 settembre 2011


LIBERA SINTESI DI PAOLO CACCIARI del seminario organizzato da Gente di Sinistra e Rete@Sinistra che si è svolto a Ferrara il 24-25 settembre a cui hanno partecipato centocinquanta persone in due sessioni plenarie, discutendo tre documenti preparatori in sei tavoli di lavoro e ascoltando relazioni di Alberto Magnaghi, Tonino Perna, Francesca Forno, Guido Viale, Alberto Lucarelli, Giorgio Ferraresi.

Siamo in un sistema giunto al collasso (Perna). Prima e oltre le crisi finanziaria, ambientale, sociale ci dovremmo preoccupare della crisi di senso di un sistema economico che chiede sempre di più in termini di sacrifici di risorse umane e naturali e restituisce sempre di meno in termini di benessere, salubrità e qualità delle relazioni… Si può quindi ben parlare di crisi di civiltà.
Le politiche messe in atto dai governi al servizio delle agenzie economiche internazionali sembrano più dei palliativi volti ad allungare il tempo della decadenza e ad amputare i rami improduttivi piuttosto che curare le cause del male.
Che questo sistema collassi non sarebbe un dramma – anzi! – il guaio è  che trascina le popolazioni più deboli e prive di mezzi e di poteri in una catastrofe sociale. Basti pensare al dramma dei profughi ambientali. La crisi è un atto della guerra di classe che i ricchi hanno sempre combattuto contro i poveri.
Il dramma politico è che nessuno sa prospettare alternative all’altezza della crisi.
Le forze tradizionali della sinistra socialdemocratica sono parte di questa crisi perché non sanno andare oltre la riproposizione dei consueti schemi economici della crescita. Cioè esattamente del paradigma che è entrato in una crisi irreversibile. Almeno in questa parte del mondo “più sviluppato”. Si sono assottigliati i margini coloniali ed imperiali di sfruttamento dei paesi “in via di sviluppo” da turlupinare e depredare, verso cui delocalizzare ed esportare, a cui vendere merci ad alto valore aggiunto e scaricare debiti sovrani gonfi di titoli spazzatura, inesigibili. Grazie alla globalizzazione e alla finanziarizzazione le nuove borghesie dei Bric (Brasile India Russia Cina) hanno ben presto imparato dai “maestri occidentali” come ci si fa ad arricchire. L’uomo più ricco della Cina è entrato nel Comitato centrale del partito unico comunista. Si è così realizzata la massima della nuova etica cinese – “arricchirsi è glorioso” – dai tempi di Deng Xiao Ping
Una alternativa alla decadenza ci sarebbe: imparare a fare quel che ci serve con ciò che abbiamo. Ri-territorializzare i sistemi economici locali autosostenibili. Ricomporre l’antica separazione tra cultura e natura. Assumere il concetto di limite. Ri-naturalizzare l’ambiente. Riscoprire la sapienza incorporata nelle popolazioni. Recuperare i saperi contestuali, diffusi, esperienziali. Mirare all’autoproduzione, all’autosufficienza e all’autogoverno. Ciò che è stato definito “l’economia della sufficienza” (Wuppertal Insitute). Riconquistare il controllo sui fattori produttivi. Insomma, una nuova idea di “autarchia (“au-tar-chì-a”, dominio di se stesso) cosmopolita” (Magnaghi) di comunità radicate, ma aperte ai rapporti con il resto del mondo attraverso “reti federaliste globali” e inclusive, capaci di funzionare in modo democratico al loro interno attraverso “mappe di comunità”, “patti” e contratti territoriali. Insomma, tornano le idee di Danilo Dolci  (Paba) sulla produzione di politiche pubbliche attraverso pratiche di movimento dal basso, sulla partecipazione come interazione spinta a doppia utilità: di risultato, ma soprattutto di processo, che generano comportamenti non auto-interessati, processi auto-educanti (Forno), affrancamento dai condizionamenti etero diretti. Sono le modalità dei processi di presa di decisione che determinano le relazioni di potere e formano i legami sociali. Si prefigura una “democrazia di prossimità”.  Si apre quindi la grande questione della sovranità da disaccoppiare dal diritto di proprietà  (Lucarelli). La riscoperta della nozione di beni comuni la cui titolarità è sociale e collettiva (Ferraresi), non un catalogo di beni e servizi, ma un “repertorio di azioni sociali” (Forno), forme di impegno, luoghi di conflitti e processi di riconoscimento di diritti collettivi.
I movimenti da Seattle in poi hanno dimostrato non solo di aver visto giusto, ma hanno anche dato vita a pratiche diffuse di impegno diretto intrinsecamente politico non tradizionale: Gas e consumo critico, cicli corti in agricoltura e banche del tempo, co-housing  e orti urbani, gruppi per la diffusione sistemi open source e di difesa del web (vedi lo straordinario risultato dei Pirati nelle elezioni di Berlino), riscoperta degli usi civici e proprietà collettive e mille altre pratiche di economia sociale solidale (Viale). Insomma, abbiamo la teoria (il nuovo paradigma dei beni comuni, oltre la mercificazione e oltre il diritto di proprietà), abbiamo nuove “pietre di paragone” (Giunti) con cui confrontare le politiche istituzionali (dalle nuove costituzioni dell’Ecuador e della Bolivia, al Laboratorio Napoli per la democrazia partecipativa e decisionale), abbiamo movimenti creativi di nuova generazione capaci di straordinarie azioni collettive (vedi il referendum sull’acqua), qualcosa si muove anche dentro i saperi scientifici e le accademie, nel ripensare le tradizionali separatezze disciplinari umanistiche e scientifiche (Curti), qualcosa si muove anche in ognuno di noi, nell’antropologia individuale che fa resistenza alle “personalità scisse e fatte a pezzi” (Nannetti), alla disumanizzazione dell’individualismo proprietario eretto a modello dall’ideologia neoliberista.
Cosa manca, allora, per conferire una qualche incisività politica ai movimenti sociali attivi non solo in Grecia, in Spagna, in Islanda? Manca una soggettività politica, un “traino politico” (Zolesi) capace di spezzare il monopolio dell’azione politica esercitato dalle vecchie forme di rappresentanza. Serve urgentemente inventarsi “strutture che connettono”, “confederazioni di diverse autonomie sociali” (Pino Ferraris) capaci di portare le istanze della vita nella dimensione della politica. “Istanze che sono già politica che però hanno bisogno di spazi e forme politici” (Bagni).