R: il belpaese in svendita



Grazie della segnalazione. Valuteremo come intervenire come movimento politico. Nando

 

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Il belpaese in svendita
Data di pubblicazione: 13.05.2010

Autore: Settis, Salvatore

C’è chi prova a fare il punto sullo smantellamento dei beni pubblici, che procede nella nebbia fitta della disinformazione e nel silenzio dell’opposizione parlamentare. La Repubblica, 6 maggio 2010

Procede a marce forzate la Grande Festa dello smantellamento dello Stato in favore del profitto privato. Qualche esempio. Da anni è in corso la vendita del patrimonio immobiliare pubblico, anche se le due società a cui Tremonti nel 2002 prevedeva di cederlo in blocco («Patrimonio dello Stato S.p.A.» e «Infrastrutture S.p.A.») hanno prodotto un gettito minimo rispetto alle previsioni. Di fronte a quel decreto, la Frankfurter Allgemeine affibbiò al nostro governo di allora (non poi tanto diverso da quello di oggi) l’etichetta di "talibani di Roma". Ma mentre la svendita del patrimonio statale va più lentamente del previsto, Comuni, Province e Regioni si danno da fare, anche perché secondo la L. 133 del 2008 (art. 58) devono allegare al bilancio di previsione il «piano delle alienazioni immobiliari». E infatti Treviso vende la chiesa di San Teonisto (sec. XIV), che al Comune fu donata nel 1811 dal viceré d’Italia; Prato getta sul mercato il monastero di San Clemente (fondato nel 1515), già destinato ad archivio comunale; la provincia di Salerno mette in vendita Palazzo d’Avossa (sei-settecentesco), sede della locale Soprintendenza. Esemplare il caso di Verona: il Comune, con l’avallo del direttore regionale ai Beni Culturali Soragni, vende Palazzo Forti, donato alla città nel 1937 per destinarlo alla Galleria d’Arte moderna, che ancora vi ha sede. Il Comune ne ha mutato la destinazione d’uso (da culturale a commerciale), e utilizzerà l’incasso (33 milioni) per l’acquisto di un’area che, secondo un piano dello stesso Comune, potrà essere cementificata (280.000 metri cubi). Intanto, sulla base del "federalismo demaniale" promosso da Calderoli, il Comune chiede la proprietà degli immobili del demanio dello Stato siti in Verona (mura, forti, bastioni, porte antiche e altri beni vincolati): visti i precedenti, è facile immaginare quel che ne farà. Intanto il ministero della Difesa «ha debuttato a Venezia al salone del turismo immobiliare», annuncia lietamente ItaliaOggi (16 aprile): saranno destinati «a fini turistici» fari di tutte le coste italiane, il forte Cavour dell’isola Palmaria (di fronte a Portovenere), caserme in centro città a Firenze e a Venezia. A Brescia è in vendita la centralissima caserma Gnutti, dal nucleo sei-settecentesco, dopo che il Comune ha approvato (2009) variante urbanistica e cambio di destinazione d’uso. Modifiche interessate, visto che i Comuni, se adeguano le normative urbanistiche e le destinazioni d’uso alla nuova vocazione turistica della Difesa e del Demanio, possono ottenere fino al 15% del ricavato. Stratega dell’operazione Difesa, secondo La Sicilia (13 aprile) è il ministro La Russa, sull’attenti davanti alle soverchianti forze del mercato. Scatta intanto il "federalismo demaniale", figlio non tanto minore del "federalismo fiscale" della L. 42/2009. Il testo Calderoli prevedeva il trasferimento a Comuni, Province e Regioni di beni del demanio marittimo e idrico, caserme e aeroporti, nonché monumenti vincolati, salvo quelli appartenenti al «patrimonio culturale nazionale». Questa inedita categoria, non prevista nel Codice dei Beni Culturali, presuppone quella non meno inedita di «patrimonio culturale regionale»: si straccerebbe così con una sola mossa l’art. 9 della Costituzione, secondo cui il patrimonio culturale è elemento costitutivo della Nazione, peraltro «una e indivisibile» (art. 5). Spezzettare il patrimonio e sbriciolare lo Stato è la stessa identica cosa. Qualche giorno dopo il ministro Bondi si vantò (giustamente) di aver ottenuto che il patrimonio storico-artistico fosse escluso dalle devoluzioni; ma non mancano tentativi di reintrodurre la norma. In ogni caso, che ne sarà del nostro paesaggio se «tutti i beni appartenenti al demanio marittimo e idrico» verranno dismessi dallo Stato (art. 5), perdendo la loro natura di bene demaniale? Per sua natura, il demanio marittimo e idrico è di proprietà pubblica perché comprende beni comuni di uso collettivo; ma il decreto Calderoli non prevede (come sarebbe possibile) il passaggio dal demanio statale a quello regionale, bensì la sdemanializzazione, per cui tutto, comprese le coste, diventa istantaneamente commerciabile, e dato lo stato comatoso delle finanze locali molto verrà gettato sul mercato. L’art. 6 prevede infatti l’attribuzione gratuita degli immobili già demaniali a "fondi immobiliari" di proprietà privata, purché i privati versino nel medesimo fondo proprietà di valore equivalente: ed è chiaro che solo i grandi costruttori sono in condizione di farlo. Perché qualcosa si salvi da questa svendita, le amministrazioni competenti devono chiederlo nel termine iugulatorio di 30 giorni. In altri termini, il demanio dello Stato viene disfatto e degradato a una condizione residuale; i suoi beni vengono polverizzati e ceduti al miglior offerente (o al peggiore). La svendita viene etichettata come "valorizzazione", ignorando cinicamente che secondo il Codice dei Beni culturali la valorizzazione ha l’unico fine di «promuovere lo sviluppo della cultura» (art. 6).

Riparte intanto puntuale il condono edilizio, che mediante una minima ammenda sanerà tutti gli abusi contro il paesaggio (la scadenza è il 31 dicembre 2010, ma anche questa è una festa mobile). E mentre in Campania le costruzioni abusive sono oltre il 20%, in buona parte da riciclaggio di introiti della camorra, il governo appronta un "decreto antiruspe" bloccando l’abbattimento, già deciso, delle costruzioni abusive. Allo "stato d’eccezione" che alcuni protagonisti della politica pretendono per se stessi si aggiunge un "paesaggio d’eccezione", in cui le norme di legge non valgono nulla, e le strutture della tutela vengono o asservite o defenestrate. Un bell’esempio è l’ordinanza 3840 del presidente del Consiglio, che assegna al sindaco di Milano, in quanto commissario per l’Expo 2015, il potere di agire in deroga (fra l’altro) al Codice dei Beni Culturali e alle norme su esproprio, opere idrauliche e contratti pubblici: cinque anni di azzeramento delle leggi in nome dell’emergenza. È la logica con cui alla Protezione Civile si assegnano commissariamenti d’ogni sorta (anche l’archeologia di Roma e Pompei, anche l’allestimento del Museo Nazionale di Reggio Calabria). Il ricorso al commissariamento, giustificato in nome dell’urgenza, non è neutro: al contrario, delegittima l’amministrazione ordinaria avviandone la finale dissoluzione, proclama la vittoria delle nomine politiche sulle competenze tecniche, accresce l’arbitrarietà delle decisioni e ne riduce la responsabilità. Precisamente il contrario della funzionalità di un’amministrazione, pubblica o privata che sia.

Al banchetto della Grande Festa ci sono queste ed altre ricche portate, ma nessuno le mette in fila leggendo l’intero menu; anzi, la segmentazione dei provvedimenti oscura la percezione del processo d’insieme. Ancora abbiamo nelle orecchie le sinistre risate di chi a poche ore dal terremoto d’Abruzzo si spartiva gli appalti. Non meno sinistre sono le manovre in corso, sotto gli occhi di tutti a cominciare dall’inerme "opposizione", per dividersi il grande bottino. Questa spartizione non è il frutto casuale delle leggi, è anzi vero il contrario: decisa la spartizione, si confezionano leggi ad hoc, e quel che resta della macchina dello Stato opera per disfarlo. Il nobile assetto di valori della Repubblica è calpestato ogni giorno, sostituito da un continuo negoziato al ribasso, nello spirito (non dimentichiamolo) non della Costituente, ma della Bicamerale. Mitridatizzati dal veleno che, boccone dopo boccone, assorbiamo ogni giorno, sapremo trovare nella Costituzione un ultimo