il paesaggio italiano: un brutto paese



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 Il paesaggio e noi

Un brutto paese
Data di pubblicazione: 19.02.2009

Autore: Ziparo, Alberto

Il punto della discussione attuale sul paesaggio a partire da alcuni recenti saggi sul tema. Da il manifesto, 19 febbraio 2009 (m.p.g.)

«Il deposito di una poderosa attività edilizia, che si sovrappone senza remore al paesaggio ereditato, spesso ne cancella ogni traccia, senza riuscire a "fare nuovo paesaggio", a creare "nuovi mondi" ... in cui vecchie nuovi individui e attività si relazionino e coesistano, seppure con regole diverse dal passato».
Così scrive Arturo Lanzani, uno dei più acuti osservatori delle relazioni tra crescita urbana e paesaggio, in un rapporto che l’ultimo numero della rivista «Urbanistica» ha dedicato a questo tema («L’urbanistica per il paesaggio», a cura di Mariavaleria Mininni) e che si apre con un articolo di Paolo Avarello significativamente titolato «Un mare di case». Lanzani sottolinea, ed è importante, che a fronte della continuità di un impetuoso sviluppo edilizio dal secondo dopoguerra a oggi, sono radicalmente mutati i fattori causali. Ieri erano i movimenti migratori, i grandi inurbamenti, l’evoluzione degli stili di vita, l’emergere di nuove formazioni territoriali. Oggi si tratta dei consumi abitativi «che comportano maggiori volumi pro capite», ma soprattutto dell’intreccio tra rendita immobiliare e speculazione finanziaria, che investe e condiziona anche gli altri aspetti del fenomeno: l’esplodere di nuove forme e spazi di distribuzione commerciale e l’elevatissima crescita di seconde case. Abusi ambientali ormai macroscopici comportano oltre tutto disastri idrogeologici sempre più frequenti e devastanti, come hanno dimostrato le recenti «calamità», che si sono abbattute sulla Calabria e in tutto il Mezzogiorno. E proprio per denunciare la necessità, ormai urgentissima, di evitare che il Bel Paese con i suoi ecosistemi venga distrutto da parte di un’edificazione finora inarrestabile, a gennaio è partita la campagna nazionale «Stop al consumo di suolo», promossa da diverse organizzazioni, tra cui la Rete del Nuovo Municipio.

Che gli effetti nefasti della diffusione insediativa e delle infinite cementificazioni richiedano risposte immediate, è certo. Sono tuttavia più di vent’anni che la distruzione dell’ambiente da parte della crescente urbanizzazione è una emergenza riconosciuta non solo in ambito urbanistico.
Risale infatti al 1985 la legge Galasso e l’idea di pianificazione paesistica (oggi paesaggistica), che metteva al centro «i valori verticali», ambientali e naturali, dei luoghi, invece della dialettica «domanda sociale/offerta di trasformazione», strutturante per i piani urbanistici. E già allora norme e strumenti «nuovi» nascevano da una situazione di emergenza, che è oggi assai più grave. Una circostanza che non andrebbe dimenticata, o banalizzata, specie allorché si tenta - come avviene in diverse regioni - di affinare sulle condizioni attuali lo specifico strumento di formalizzazione delle politiche: appunto il piano paesaggistico. Ma non è soltanto una questione di consumo di suolo (anche se forse basterebbe) a riavvicinare i termini «paesaggio», «ambiente» e «territorio»: tre modi di guardare allo stesso corpo che, come sottolineava Vittorio Horsle, nella modernità, quando «l’ambiente naturale è fuoriuscito dall’ambiente sociale», sono via via cresciuti come discipline indipendenti. Processo invertito dalla crisi ambientale che ha costretto a riprendere, nelle prospettive come nei fatti, le relazioni «tra ecofunzionamento dello spazio fisico, percezione e suggestioni delle sue forme, organizzazione dei suo uso sociale». Una impostazione che ha ricevuto un riconoscimento forse decisivo dalla Convenzione Europea del paesaggio, approvata nel 2000, e soprattutto dalle sue ricadute politico-culturali e istituzionali.

Una urbanistica consapevole della propria metamorfosi - non più arte di costruire nuove città ma progetto di riqualificazione ecologica della megaurbanizzazione moderna - si accosta quindi al paesaggio con l’obiettivo di costruire una continuità di orientamenti, metodi e contenuti che vadano al di là della mera tutela, pure assai importante. Scrive ancora Lanzani: «Un’idea e una pratica di politiche del paesaggio, del territorio e dell’ambiente come politica di welfare positivo, capace di prendere le distanze sia dalle versioni assistenziali, monetarie e familistiche, sia dall’idea di sviluppo come crescita puramente quantitativa... pone al centro del proprio lavoro la riqualificazione del paesaggio ordinario di tutto il territorio».
Identità di luoghi e territori In questo scenario stretto tra «le due solide rive di paesaggi cartolina, tutelati e di nuova formazione, e di ammassi edilizi senza paesaggio», Lanzani (così come Alberto Clementi) propone i «progetti di paesaggio» sui quali sperimentare strategie di ricomposizione di ecologie e territori al di fuori dalle retoriche «eccessive e fuorvianti» e lontani da posizioni estreme che - se offrono spunti di analisi interessanti nella loro nitida «denuncia delle trasformazioni» - di rado offrono prospettive concretamente proponibili.

Così, a Piercarlo Palermo che lancia uno stimolante interrogativo, «II paesaggio si vive o si contempla?», sembra in qualche modo rispondere Paolo Baldeschi sul numero più recente di «Contesti», la rivista del Dipartimento di Urbanistica e Pianificazione del territorio della Facoltà di Architettura di Firenze: «Nel paese-paesaggio - afferma Baldeschi - la contemplazione non si rende autonoma, bensì costituisce il presupposto di un agire pratico che esplora nuove direzioni nella costruzione del territorio».
In ogni caso, qualsiasi prospettiva di ricomposizione e di riqualificazione dei caratteri paesaggistici del territorio non sembra poter prescindere da una rottura chiara con gli obiettivi e gli interessi che hanno portato all’attuale degrado. Non solo: va anche ridiscusso criticamente il modello di sviluppo, di cui tale degrado è il portato. A questo proposito, Alberto Magnaghi ha parlato delle identità di paesaggi, territori, luoghi, ancora prima che simili concetti venissero in qualche modo istituzionalizzati dalla Convenzione Europea del Paesaggio.

Sia la Cep sia il progetto territorialista di Magnaghi, però, fanno riferimento a identità non statiche, ma evolutive, che cambiano con lo stesso concetto di abitante, dal soggetto stanziale delle comunità rurali descritto da Agnes Heller agli attuali abitanti nomadi individuati da Guattari e Deleuze. E ancora: non esiste un solo paesaggio, ma vanno individuati i diversi tipi di contesti che formano un territorio regionale, di area vasta o locale, e su questi mirare strumenti e azioni. Su tale punto c’è una assoluta convergenza tra i diversi filoni disciplinari, il «progetto riformista di paesaggio» proposto dal programma della ricerca Siti (Società italiana degli urbanisti), coordinata da Clementi, e il progetto territorialista. Ambedue infatti usano gli atlanti per individuare i «diversi paesaggi» nei quali di volta in volta possono «dominare» alcuni orientamenti strategici: la tutela, la valorizzazione plurale dell’identità, le regole per la trasformazione.

Gli effetti di un’azione debole. Esistono tuttavia dei nodi problematici, che non vanno banalizzati o sottovalutati, quale che sia l’impostazione che sorregge il progetto e l`azione per il paesaggio. Le attuali condizioni di parossistico consumo di suolo sono anche l’esito del fallimento di numerosi progetti di «urbanistica concertata», dovuti principalmente alla deformazione della «governance di riferimento», ridotta spesso al ruolo di «piazzista locale» delle forme con cui, come ha scritto Zygmunt Bauman, «atterrano interessi globalizzati». Deriva da qui la produzione di junkspace o di bigness senza (o fuori) contesto, una questione posta non soltanto da antropologi (Franco La Cecla) o da territorialisti (Giorgio Ferraresi), ma anche da prestigiosi architetti della città come Vittorio Gregotti. Salvo un numero limitato di significative eccezioni, infatti, il quadro istituzionale costituisce oggi un referente assai problematico, ben lontano dall’essere quell’attore sociale forte, capace di visioni strategiche e di partecipazione attenta e orientativa di cui ci sarebbe bisogno. Viceversa, sia pure con le novità comportate dalle tendenze (ancora Bauman) a (ri)trovarsi «individualmente insieme» o dalle tracce di «comunità consapevoli» (come gli oltre duecento comitati toscani per la difesa di territorio e paesaggio e i movimenti di difesa da opere inutili o inquinanti) il quadro prevalente oggi è ancora quello di una «società liquida» con forti propensioni al consumo. La ricerca territorialista, però, mostra come non sia necessario prefigurare sempre e comunque una «partecipazione alta», spesso evanescente, e possa essere invece utile considerare gli effetti, anche ridotti, di un’azione sociale debole. In questa chiave si rivelano importanti le regole riscontrate rivisitando l’influenza dei valori «endogeni» nella progettazione dei luoghi, per esempio nei paesaggi rurali tuttora di buona qualità.

Non è dunque casuale che tanto il dossier di «Urbanistica» come quello di «Contesti» prestino al rapporto con l’agricoltura un’attenzione particolare, marcata dalla presenza su entrambe le riviste della firma di uno studioso dell’organizzazione delle campagne urbanizzate contemporanee, come Pierre Donadieu, con contributi che vanno dalla formazione degli urbanisti-paesaggisti alla riqualificazione progettuale degli spazi aperti. Lontano dagli interessi locali.
L’«emergenza paesaggio» si rivela insomma una ulteriore occasione per spostare il dibattito, e le scelte che ne conseguono, da una logica economicista a un orientamento più consono a ricostituire luoghi e stili di vita qualitativamente migliori. In questo senso è importante quanto di recente ha affermato la Corte Costituzionale, ricordando che la pianificazione paesaggistica e le politiche di tutela vedono quale titolare lo stesso Stato e, in cooperazione, le Regioni, mentre gli enti più decentrati possono «applicare, ma non creare» la regola paesaggistica (e difatti il piano costituisce l’esito di una copianificazione Stato-Regione, anche se quasi sempre, nella prassi, il vero attore è quest’ultima). Questo stare «lontani» degli interessi, che più che locali sono localmente subalterni, può facilitare scelte altrimenti scomode, ma oggi giustificate da un uso opportuno e non eccessivo della «retorica dell’emergenza». La scommessa, conclude Lanzani, «è forse allora questa: non perdere la dimensione politica del paesaggio, in quanto visione... ma sviluppare questa tensione fuori dalle grandi narrazioni del secolo scorso, nella dimensione quotidiana del vivere, in quel paesaggio ordinario che per tutti è ambiente di vita, apertura al mondo e contatto muto con le cose, quando non sono ancora dette».