una lezione per la città di domani



da Eddyburg
 
Una lezione per la città di domani
Data di pubblicazione: 26.05.2008

Autore: Gregotti, Vittorio

I nodi della città di oggi e di domani (nel Nord e nel Sud del mondo) nella visione di un architetto che sa che il tutto è più importante delle sue parti, la storia della cronaca, la cultura della moda

Il testo integrale della lezione sul tema Urbs, Civitas. Spazio urbano e spazio politico, tenuta nel ciclo “Elogio della politica”, diretto da Ivano Dionigi. Università degli studi di Bologna, 22 maggio 2008

Il lamento intorno alle condizioni della città è ormai unanime e crescente. La vita nella città, specialmente nelle grandi città, è diventata sempre più complessa e costosa: persino pericolosa.
Sembra che in esse la povertà assuma una speciale evidenza, sconosciuta nelle campagne. La competizione e le relazioni d'affari sostituiscono completamente quelle sociali: i cittadini sono diventati city users: anche quando vi abitano.
Nonostante, però, molti affermino che il fatto urbano stia, nel nuovo millennio cambiando radicalmente la propria natura, ciò che si può scrivere del futuro della città è che esso è nello stesso tempo assai incerto ma anche fondato su una storia di quattromila anni, né la comunicazione immateriale ha sostituito le opportunità dell'incontro fisico offerto dalla città; anche se con l'enorme crescita dalla comunicazione immateriale sono aumentati i rischi della disgregazione sociale e della sublimazione dell'esperienza per mezzo dello schermo della rappresentazione mediatica. La città è quindi il luogo che offre le opportunità più ampie; ma insieme anche la solitudine più crudele. L'altro, il diverso è bene accetto se ricco, degno di ogni sospetto se povero.

Città e cittadini non sembrano cioè nei nostri anni amarsi reciprocamente. I cittadini utilizzano la città ma non si identificano più con essa.
Mai come in questi anni, però, si sono visti costruire tanti pezzi di città, per non parlare della quantità degli edifici, che superano negli ultimi 50 anni quelli costruiti nei precedenti 2000, né gli architetti sono mai stati tanto popolari da invadere persino i settimanali più diffusi.

La fenomenologia urbana si è anche enormemente diversificata nell'ultimo secolo. Città piccole e grandi, villaggi, frammenti urbani, resti di insediamenti, metropoli grandissime, ricche o poverissime, in declino o dallo sviluppo grande e rapido.
Ciascuno di questi tipi di città dovrebbe presentarsi come possibilità diversa e come problema singolare alla nostra coscienza di architetti e di cittadini ma quando si discute del futuro urbano è solo all'immagine della gigantesca metropoli e della sua infinita estensione a cui si pensa.
Gli spazi aperti come spazi pubblici di relazione, le piazze, i mercati, i portici sono divenuti luoghi inospitali e di scontro, tanto che ad essi va funzionalmente sostituendosi il grande interno privatizzato e sorvegliato.
Si può dire che la costruzione dello spazio urbano, del suo tessuto e dei suoi monumenti, il suo disegno, cioè, nell'antico doppio significato di progetto e di rappresentazione per mezzo delle forme, abbia perduto la sua capacità di mediazione nei confronti della società. Né progetto e costituzione di coincidenza come nella polis, né spazio dialettico come nella relazione tra urbs e civitas.

Certamente la città è stata sovente, anche nell'antichità, città dei sudditi, del re o dell'imperatore, o città di Dio e dei suoi rappresentanti, e poco città dei cittadini. Ma essa è sempre stata nella storia anzitutto un luogo che è anche capace di rappresentare degli ideali collettivi. Peraltro senza ideali non vi è discorso politico (si potrebbe affermare sfidando temerariamente lo stato attuale della politica) ma neanche architettura nel senso più nobile di questo termine.

In quanto disegno ideale della città, un punto di vista molto frequentato da secoli è anche quello dell'utopia. Negli ultimi anni, è vero, l'utopia è degradata a forecast aziendale o ad utopia tecnologica, dell'ossessione del futuro; minaccioso come l'utopia del disastro descritta dal cinema, o definitivamente risolutore. Ma "Con l'estinguersi dell'ossigeno della storia - scriveva Franco Volpi - si spegne anche il fuoco dell'utopia". I monumenti, cioè, non hanno più a che vedere con la storia dei cittadini ma sono diventati immagini di marca, cioè destinati al tempo breve del mutamento incessante a causa proprio del loro immutabile obiettivo ideologico di mercato e di consumo.

Mai come in questo mezzo secolo, però, le città crescono: in densità ed estensioni che travolgono nella loro espansione le piccole comunità secondo il principio della libertà senza regole, come assenza di impedimenti anziché come progetto, con un consumo infinito del bene finito del territorio, con l'accumulazione di oggetti costipati ed inessenziali in competizione; sempre più in alto, non per raggiungere il cielo di Babele ma solo per battere in altezza il vicino.

E anche pensabile che la qualità ed identità architettonica degli ambienti urbani sia diventata (non meno che di quella territoriale da cui la prima non può essere distinta), per l'opinione della maggioranza rumorosa, un valore del tutto secondario.

Come proprio la città di oggi ci insegna, vi è più da temere da una eccessiva confusione competitiva tra i linguaggi dei diversi oggetti architettonici, piuttosto che dalla disciplinata leggibilità e gerarchia tra le sue parti, in funzione della costruzione di un insieme che possegga un'identità attrattiva, capace di durare ma aperta all'immaginazione sociale. Tante cose capricciosamente diverse, si sa, producono il rumore indistinto dell'uniformità: articolazione ed eccezioni necessarie si fondano invece sulla chiarezza della regola insediativa rispetto alla quale si misurano nel tempo le stesse differenze interpretative e persino i diversi usi.

Nonostante la grande quantità del costruito, non si è costituita neanche un'edilizia capace di soluzioni architettoniche civili condivise come lo fu il tessuto urbano storico europeo sino al XIX secolo. Tutto ciò è stato sostituito dalla pretesa della singolarità imitativa delle soluzioni, per ragioni di mercato del costruito; ma anche di successo dell'architetto professionista.

La città può essere bella? Forse. E sovente attrattiva, affascinante, misteriosa, ci regala un senso della possibilità, della perdizione, dell'incontro, della variazione ma certamente non si possono applicare alla città le categorie critiche con cui si giudica un quadro, un'opera musicale. E poiché è divenuto difficilissimo anche un consenso sulle qualità della produzione delle arti in generale, i giudizi sulla bellezza della città sono divenuti insieme convenzionali e divergenti.

Tutto questo è ben presente, enormemente dilatato nelle sue disparità tra povertà e ricchezza, nelle metropoli dei paesi in via di sviluppo dove l'organizzazione dell'espansione periferica già disastrosa delle nostre periferie, diventa "slums", "bidonville" senza alcun supporto di servizi, senza acqua, luce, fognature ma dove, nei prossimi 10 anni nascerà, secondo le previsioni, un terzo dei nuovi non-cittadini del mondo. Dobbiamo essere riconoscenti proprio alla globalizzazione (quando la sua idea non è limitata all'ideologia del mercato delle finanze) per la presa di coscienza delle differenze che, senza scampo, essa ci presenta. Siamo, però, anche di fronte ad una globalizzazione come separazione tra mondo strumentale e mondo simbolico, o meglio è il mondo economico-tecnico, il mondo dei mezzi ad essere divenuto simbolico.

Nella città emergono comunque processi inventivi ed associativi che sono connessi ad un accesso diretto alla casualità, che fanno sovente emergere nuovi aspetti delle possibilità del suo capitale sociale. Ma il soggetto è diventato nello stesso tempo l'elemento centrale e l'anello debole di questa condizione e lo stato della città ne è l'irrisolta rappresentazione.
Di tale rappresentazione è responsabile, non meno delle istituzioni trasformate in puro collante burocratico, la vasta famiglia dei costruttori di città ma anzitutto la rinuncia alla cultura critica. Il progetto è divenuto solo rispecchiamento dello stato delle cose. Trionfa quella che si può definire un'estetica della constatazione. Dopo il realismo socialista, il realismo degli interessi senza altri aggettivi.

L'architettura della città non può invece sottrarsi al confronto con la propria durata, e con la storia dei luoghi e della società nella speranza delle sue migliori possibilità di modificazione.

Anche la nozione di creatività, tanto invocata a sproposito nei nostri giorni, è, non bisogna dimenticarlo, un modo di essere della modificazione del senso.

Io credo che costruire un'architettura urbana civile, semplice, conoscibile, senza la ricerca dell'applauso, aperta all'immaginazione sociale, sia ciò che i migliori architetti anche oggi cercano di fare, senza smarrirsi nella società dello spettacolo, credendo nuovamente nella città dei cittadini e parlando con le opere di ciò che solo l'architettura può dire.