verso un paese plurale



Verso un paese plurale
Data di pubblicazione: 07.09.2007

Autore: Zagrebelsky, Gustavo

Solo guardando al di là della contingenza si aiuta a comprenderla. Da la Repubblica del 7 settembre 2007 

ANTICIPIAMO alcune pagine da La virtù del dubbio di Gustavo Zagrebelsky, sottotitolo "Intervista su etica e diritto", a cura di Geminello Preterossi, in uscita oggi (Laterza, pagg. 170, euro 10). La virtù del dubbio si riferisce alla difficile convivenza tra chi ritiene di possedere verità assolute, negando dunque ogni dialogo, e chi invece pensa sempre che sia opportuno ascoltare anche le verità degli altri e metterle a confronto con le proprie. Ne nasce un discorso serrato che attraversa i punti nodali di una cultura giuridica che trova ancora nella nostra Costituzione la propria espressione più compiuta e aperta.

Pluralismo è una parola che ha avuto una straordinaria fortuna, anche se oggi, ormai, è usata con un certo fastidio, con la sensazione di avere a che fare con una vuota formula. Oggi va di moda, piuttosto, il multiculturalismo.

«Cerchiamo di definire i campi del discorso. Il primo compito del diritto costituzionale è l’unità, la convivenza pacifica se non addirittura la coesione sociale. Il problema, in una parola, è il pericolo dell’anarchia, la stásis greca. Allargandosi gli accessi al potere politico e avanzando la democrazia, aumenta il pericolo che fazioni politiche, movimenti sociali, coalizioni d’interessi, visioni del mondo divergenti, minino dall’interno la coesione del governo della società. È il pericolo dello stato di natura trasferito all’interno dello Stato, reso incapace di conciliare le posizioni particolari in vista di una convivenza generale. Nel passaggio dal XIX secolo al secolo scorso, in concomitanza con profondi processi di democratizzazione e di allargamento della partecipazione politica, l’estensione del diritto di voto, la formazione dei partiti di massa, l’organizzazione sindacale e l’arma dello sciopero, si verificò il primo momento di difficoltà. Si trattava allora delle tendenze che si dissero "corporatistiche" e "sindacaliste", operanti nella dimensione sociale e politica, di cui si temeva la forza disgregatrice. La reazione presso la scienza costituzionale fu di grande allarme. Non pochi si lasciarono andare a tentazioni reazionarie, rifiutando le novità e invocando l’avventura delle "maniere forti". È ciò che si è denominato il tentato "colpo di Stato della borghesia", di cui furono manifestazioni, di diversa qualità ma convergenti, la repressione violenta degli scioperi di fine secolo e il "Torniamo allo Statuto" di Sidney Sonnino del 1897, nel quale si prospettava, come soluzione, la messa in disparte della Camera dei deputati e dei partiti e il ripristino autoritario dell’ordine governativo, al servizio della restaurazione dell’ordine economico e sociale della borghesia. Chi con maggiore chiarezza e consapevolezza ha per primo registrato la portata storica delle trasformazioni così indicate in sintesi fu forse il grande giuspubblicista italiano Santi Romano, fondatore della dottrina del diritto come istituzione (una «dottrina giuridica concreta» che si contrappone alle concezioni esclusivamente normative, come quella di Kelsen) e di una dottrina della pluralità degli ordinamenti giuridici (che si contrappone all’idea del diritto come prodotto unico e unitario della sovranità statale, secondo le concezioni dominanti nel corso di tutto l’Ottocento).

«Nel 1909, quando fu pronunciato il discorso "Lo Stato moderno e la sua crisi", queste feconde concezioni del diritto erano ancora allo stato nascente, ma predisponevano già il loro autore a rendersi conto, con categorie concettuali adeguate, dei caratteri di quella crisi. La sua visione lo portava non a invocare la forza contro le forze della disgregazione dello Stato liberale, ma a riconoscerne la natura di ordinamenti parziali, sotto l’egida dello Stato, garante degli interessi generali. (...) Era una dottrina di cui la storia successiva avrebbe mostrato l’apertura a esiti divergenti. Uno fu il fascismo, con lo Stato totale corporativo. L’altro poteva essere il pluralismo, con lo Stato in funzione moderatrice e unificatrice delle divisioni, attraverso procedure democratiche. Avrebbe potuto astrattamente essere, ma non fu effettivamente. Le basi costituzionali materiali dello Stato liberale non ressero a questa sfida e fu il fascismo. La Costituzione del 1948, in fondo, si può considerare come il tentativo, sostanzialmente riuscito fino ad oggi, di governare il pluralismo attraverso la democrazia. Anzi, essa si aprì a un pluralismo assai più ricco. Alla dottrina della pluralità degli ordinamenti giuridici si ispirò esplicitamente, per opera di Giuseppe Dossetti, la disciplina dei rapporti tra lo Stato e le confessioni religiose. La visione pluralistica della società si estese alle forze politiche, culturali e sociali e alle comunità territoriali in una misura mai conosciuta in Italia, nella sua storia moderna».

Oggi, però, il pluralismo sembra essere un termine di un’altra epoca, un’epoca che non c’è più, quella degli Stati chiusi nei propri confini. Il multiculturalismo sembra invece un termine dell’epoca della globalizzazione.

«"Multiculturalismo" è parola comparsa la prima volta nel 1982, nella Carta dei diritti e delle libertà del Canada. Si è trattato, in origine, di una prospettiva propria degli Stati, come il Canada, accentuatamente federali, dove il federalismo corrisponde a profonde differenze tra le popolazioni, di cui la diversa lingua è testimonianza, e dove esiste il problema della garanzia dei diritti di comunità originarie. Nel 1992, Charles Taylor ha introdotto la parola in un dibattito che investe ormai l’intero mondo occidentale, sotto la pressione crescente dell’emigrazione da paesi lontani. In questo dibattito (basti leggere le considerazioni di Habermas), l’espressione ha assunto significati nuovi; si è, per così dire, universalizzata, alludendo a problemi di convivenza che non hanno più a che vedere col federalismo o con i diritti di comunità autoctone. Il multiculturalismo è effettivamente diventato una sfida alla convivenza tra gli esseri umani di portata globale».

Siamo stretti nell’alternativa tra il guardarci in cagnesco, come vogliono i separatisti, o il cercare di assorbire i più deboli, come vogliono gli integrazionisti?

«Non direi così. Prenda l’integrazione, faccia cadere una piccola lettera, la "g", e avrà l’interazione. Il postulato dell’interazione è la necessità e la capacità delle culture di entrare in rapporto, per definire se stesse (e quindi difendersi dall’assimilazione), ma al contempo la disponibilità a costruire insieme e, eventualmente, a imparare l’una dall’altra. In questa disponibilità a rinnovarsi apprendendo gli uni dagli altri (che non è ibridazione o meticciamento, come taluno dice senza rendersi conto del razzismo che c’è in queste parole applicate alle società umane, ma è consapevolezza della comune umanità) c’è il contrario del separatismo. Ma, nel reciproco riconoscimento del diritto di esistenza e di acculturazione, senza posizioni dominanti, c’è anche il contrario dell’integrazionismo. L’ethos dell’interazione è antifondamentalista, ma non relativista. Per aversi interazione non basta la mera tolleranza. Occorre che ciascuna parte riconosca le altre come controparte in una relazione orientata alla ricerca di soluzioni giuste ai problemi della convivenza, senza richiedere aprioristiche rinunce ai propri ideali e valori. Solo, nessuno deve assumere il monopolio di verità possedute una volta per sempre o, quanto meno, si deve distinguere il campo delle certezze e delle fedi che valgono nel privato dalle incertezze circa la condotta morale e i rapporti civili».

Il rischio è che si tratti solo di belle parole...

«Ha ragione. Sono parole. Ma che cosa possiamo fare qui se non pronunciarle, riconoscendo però quanto lontana ne sia la realtà? Sono parole che si dicono con difficoltà, perché vediamo bene quanto difficili siano da mettere in pratica e che, se dette in presenza di tanti sfruttati ed emarginati, suonano irridenti e senza pudore. Eppure, esse indicano un ideale che deve essere perseguito, non per moralismo ma per non tradire noi stessi e ciò di cui andiamo fieri».

Può approfondire questo tema dell’autocontraddizione che insidia l’Occidente, del tradimento che rischiamo di perpetrare verso noi stessi?

«I fautori della "guerra di civiltà" credono che si possa difendere l’Occidente chiudendo i confini e armandoli per tenere lontani gli alieni e, al tempo stesso, cercando di rafforzare la sua «identità» attraverso un’operazione ideologica che non trascura nessun mezzo utile, compreso il povero e inerme crocifisso, assurto, per l’occasione, a simbolo di questa identità contrapposta e sulla difensiva, rispetto ad altre. Su questo punto – l’abuso del Cristo in croce come simbolo di una parte del mondo, armata contro un’altra – mi preme segnalare un piccolo libro di Paolo Farinella, prete a Genova, anche perché forse non avrà la diffusione che merita. Credono di difendere la loro civiltà, ma si sbagliano di grosso. In realtà, la tradiscono su un punto essenziale, l’universalismo. Un pilastro della concezione morale dell’Occidente è il precetto kantiano già in precedenza ricordato: "agisci in modo che la massima della tua volontà possa sempre valere come principio di una legislazione universale". La legge morale non può essere espressa da leggi diverse da luogo a luogo, da comunità a comunità. Si creerebbero divisioni ingiustificate rispetto alla comune natura morale dell’umanità. La "guerra di civiltà", per così dire, "particolarizza" principi di identità che, nella loro essenza, pretendono di valere per tutti. Per questo, la chiusura su se stessi non è la difesa, ma è la contraddizione dell’Occidente. Va da sé – non ci sarebbe nemmeno bisogno di dire – che questo non esclude l’azione di polizia contro i comportamenti criminosi, ma esattamente come accade per i criminali di casa nostra».