la vita difficile della rete



 da il manifesto
14 Dicembre 2006

Rete, una vita difficile
Il popolo della rete e il governo dell'Unione. L'era berlusconiana al potere ha cercato di soffocare la nascita di una cultura politica della rete. Ora come portare questi temi al centro dell'agenda del governo di centrosinistra?
Giulio De Petra

Il «popolo della rete» è quella moltitudine di associazioni, lavoratrici e lavoratori intellettuali, imprese che non solo producono per la rete, ma che, soprattutto, usano la rete per immaginare e sperimentare nuovi modelli di società e di produzione. Questo popolo negli ultimi anni ha avuto una vita difficile. In molti modi, infatti, la destra al governo ha cercato di soffocare la nascita di una cultura politica della rete, capace di opporre la rete alla televisione, il peer to peer al broadcast, la cooperazione produttiva alla rendita commerciale.
Eppure anche in questi anni, nella società e nella pubblica amministrazione, nella politica e nella produzione, nella ricerca e nella scuola, la rete e le sue articolazioni economiche e sociali sono state capaci di sopravvivere. Soprattutto a livello locale, dove realtà associative e amministratori intelligenti hanno saputo operare al riparo dallo sguardo miope della politica e del potere centrali, spesso capaci soltanto di inseguire l'innovazione solo dopo che si erano manifestati i suoi effetti, con politiche repressive tanto ottuse, quanto tardive e, spesso, inefficaci. Questo patrimonio di intelligenza e di sapere, di esperienza e di strumenti, non ha saputo solo sopravvivere agli anni del broadcast, ma si è irrobustito e articolato in una molteplicità di luoghi associativi che oggi si presentano come un soggetto politico capace di intervenire nella nuova stagione politica che si è aperta con il governo dell'Unione.
Il ruolo che le tecnologie digitali possono avere nel consentire un radicale, profondo ed esteso cambiamento nelle strutture portanti del nostro paese, il tema della produzione e della distribuzione della conoscenza nel «Secolo della rete» non sono però esplicitamente al centro della agenda politica del nuovo governo. Questi temi certamente compaiono, tenacemente e trasversalmente, in molti dei principali appuntamenti che la costituiscono e sono oggetto non secondario di molte delle diverse competenze in cui si articola la nuova struttura del governo.
Ma sul modo in cui questi temi vengono affrontati nella azione di governo, sulla possibilità di esprimere compiutamente ed efficacemente la loro valenza politica, ha inevitabile effetto la composita geografia politica che caratterizza la maggioranza di governo e, in particolare , le due grandi opzioni di riorganizzazione del campo del centro sinistra che oggi appaiono prevedibili: l'opzione riformista moderata e l'opzione riformista radicale.
Il modo in cui questi due punti di vista guardano alle implicazioni politiche delle tecnologie di rete è caratterizzato da un singolare paradosso: chi ne parla molto non sa usarle, chi potrebbe usarle politicamente non ne parla abbastanza. Senza alcun dubbio, infatti, il tema dell'innovazione viene valorizzato e riconosciuto come politicamente importante dal punto di vista del riformismo moderato. Esso compare nei programmi e negli organigrammi dei partiti che a questo punto di vista fanno riferimento e l'innovazione appare funzionale e necessaria, anche come simbologia politica, alla realizzazione dei progetti di riorganizzazione del lavoro e dell'economia. Questo punto di vista tuttavia, oltre a confondere talvolta l'innovazione con le fortune del settore industriale delle telecomunicazioni e dell'informatica, è viziato da una congenita inefficacia: considera infatti l'innovazione generata dalle tecnologie di rete con lo stesso paradigma proprio di altre tecnologie e la iscrive nel contesto degli sviluppi dei modelli economici e sociali del capitalismo attuale.
Viceversa, il punto di vista del riformismo radicale, che assume la radicalità della trasformazione economica e sociale come cifra della propria proposta politica, non riesce a scrollarsi di dosso una diffidenza antica verso le «rivoluzioni tecnologiche» da sempre interpretate come funzionali agli sviluppi del capitalismo, ai suoi nuovi modelli organizzativi. Tale diffidenza è rafforzata anche da alcuni fenomeni attuali, quale, ad esempio, il dato inconfutabile della diffusione del lavoro precario nei settori legati alla produzione e all'utilizzo delle nuove tecnologie. Questa diffidenza impedisce di cogliere che vi è un nesso diretto e inedito tra la possibilità di un cambiamento sociale radicale («vuoi vedere che l'Italia cambia davvero?») e le opportunità di nuova organizzazione sociale economica e produttiva rese possibili dalle tecnologie di rete. La recente nascita della associazione «netleft» nell'ambito della sinistra europea genera in proposito interessanti aspettative.
Retoriche inefficaci di modernità e diffidenze pregiudiziali andrebbero rovesciate nel riconoscimento di una doppia, reciproca opportunità: non vi è innovazione efficace abilitata dalle tecnologie di rete se non nel contesto di un radicale cambio di paradigma nell'organizzazione produttiva e sociale; non vi è possibilità di un cambiamento radicale dell'organizzazione economica e sociale senza un uso pervasivo e politicamente consapevole delle tecnologie di rete. Considerare la conoscenza un bene comune può dimostrare la fondatezza di questa doppia affermazione e descrivere, nello stesso tempo, il terreno di iniziativa politica del popolo della rete. Il riconoscimento politico dei beni comuni e la necessità di promuovere azioni che ne salvaguardino l'esistenza e la fruizione è parte significativa del programma dell'Unione. I beni comuni sono risorse che la politica decide di sottrarre al mercato per la loro caratteristica di essere risorse che garantiscono o promuovono diritti fondamentali. Sono realizzazioni parziali, anticipazioni di una nuova organizzazione dell'economia e della società basata su regole diverse da quelle dell'economia mercantile. Se consideriamo la conoscenza, ed in particolare la conoscenza prodotta e distribuita mediante le tecnologie di rete, come bene comune, questa diversità assume caratteristiche nuove e diverse dalle caratteristiche delle altre risorse che consideriamo beni comuni.
La conoscenza così prodotta e distribuita, infatti, non deve essere sottratta al mercato perché la base materiale della sua produzione, che prevede costi trascurabili di riproduzione e di accesso, è già naturalmente fuori dalle leggi del mercato. La pretesa di utilizzare le leggi del mercato per produrre e distribuire conoscenza mediante le tecnologie di rete è irrealistica e determina quella che siamo abituati a chiamare la «scarsità artificiale» che impoverisce e deforma la sua «ricchezza naturale».
A questa pretesa irrealistica, che è poi la causa ultima della inefficacia delle politiche di innovazione finora immaginate, si contrappone il realismo di chi già oggi nel lavoro, nelle relazioni sociali, nella cooperazione produttiva, nell'accesso, nella riproduzione e nella distribuzione della conoscenza sperimenta modelli non mercantili e spesso non ancora previsti, se non osteggiati, dalle leggi vigenti.
Trasferire queste considerazioni sul piano della iniziativa politica deve però fare i conti con un'altra conseguenza delle trasformazioni prodotte dalle tecnologie di rete, e cioè la crisi della politica, dei suoi strumenti, delle sue procedure. La rete infatti cambia i meccanismi di rappresentanza, modifica la morfologia della politica, opera trasformazioni tanto più profonde, quanto ancora poco indagate, anche da chi è capace di leggere in profondità le trasformazioni prodotte invece in altri settori come quelli del lavoro, della distribuzione, della comunicazione.
La legge elettorale utilizzata nelle elezioni di aprile (pensiamo ai meccanismi di composizione delle liste) ha al contrario assecondato le profonde pulsioni conservatrici e autoreferenziali degli apparati di governo dei partiti, confermate dai comportamenti politici che ne sono seguiti in apertura di legislatura. Esito paradossale quello del movimento politico di Berlusconi, interpretato da molti, al suo nascere, come il segno della necessità di aggiornare il rapporto tra meccanismi di rappresentanza e geografia sociale e finito, al suo epilogo, come restaurazione piena del potere dei politici di professione.
Mentre la rete abilita nuovi processi di organizzazione delle identità politiche e del rapporto tra complessità sociale e articolazione della rappresentanza, crea ricchezza e varietà negli strumenti della politica, promuove, anche in questo campo, forme inedite di cooperazione orizzontale, i partiti operano, rispetto a questa ricchezza lo stesso impoverimento che il copyright opera nei confronti della conoscenza: i partiti sono oggi il copyright della politica. Contro questa povertà della politica il popolo della rete può operare due volte: come strumento abilitante per le nuove forme di partecipazione sociale che si organizzeranno a livello locale sui tanti complessi problemi della agenda di governo, e come soggetto politico che, forte di questi strumenti, promuove, produce e distribuisce la conoscenza come bene comune. Per provare a farlo, però, dovrà superare i suoi limiti attuali.
(L'articolo è tratto dal volume collettivo "L'innovazione necessaria", volume disponibile integralmente sulla rete all'indirizzo: www.ilsecolodellarete.it)