il web sociale




Utilitarista o altruista: il web sociale
Franco Carlini

E' arrivata l'era della partecipazione. Un fenomeno di massa che piace al business, alla ricerca di fedeli lettori, autori, consumatori, propagandisti virali
Franco Carlini
«Social Web 2.0», così Brian McAllister, vicepresidente di Apache Foundation (vedi la scheda qui sotto) chiama la nuova ondata tecnologia (e sociale, appunto) che il World Wide Web sta vivendo da due anni almeno. Solitamente chi parla solo di Web 2.0, si riferisce soprattutto agli aspetti tecnologici di questa valanga di nuovi servizi di rete che sta ci precipitando addosso. Ma l'aggiunta dell'aggettivo «sociale» non è impropria, anzi. Le parole di Brian sono state pronunciate durante una sessione della annuale Java Conference (vedi sotto) e nella stessa occasione abbiamo anche ascoltato anche un'altra espressione suggestiva: «Participation Age», l'era della partecipazione, ultima invenzione linguistica che viene dopo l'era dell'informazione e l'era della conoscenza.
Sono solo formulazioni suggestive (e magari anche un po' utopiche?). Lo si può pensare legittimamente, ma quello che colpisce è che tali progetti socialmente orientati vengano dalle imprese e non solo dalle comunità pubbliche o dai movimenti.
Qualcosa è successo in questo mondo delle tecnologie avanzate e non sempre è stato avvertito: infatti le tecnologie e le relative infrastrutture non creano di per sé un grande valore economico, ché anzi il mondo è pieno di cavi, di fibre e anche di computer largamente sotto utilizzati. Queste infrastrutture sono come la corrente elettrica la quale serve in quanto sia lì, disponibile dappertutto, per muovere macchine che producono merci, le quali poi verranno vendute. Nel caso delle tecnologie di rete, a 15 anni dalla nascita del web, ci si infine è accorti che il valore di informazione e conoscenza (i contenuti) non ce lo mettevano solo i media, ma che, al contrario, la gran parte dei forse 100 miliardi di pagine web era stata creata da volontari, in maniera spontanea e reciprocamente contagiosa.
Una rete altruista, dunque? Il termine può trarre in inganno, perché allude ad almeno due diverse idee: da un lato c'è l'altruismo puro, quello che forse hanno praticato i santi, almeno stando alle biografie ufficiali. Esso tuttavia è raro perché anche i sentimenti più generosi hanno inevitabilmente altre componenti: per esempio si può essere mossi dalla speranza di una ricompensa ultraterrena, dall'adesione a standard di comportamento che vengono ritenuti buoni nella propria cultura, si può donare contando in una qualche reciprocità futura o anche per la soddisfazione interiore del sentirsi buoni.
Per questo gli studiosi del comportamento preferiscono non addentrarsi nelle psicologie individuali e usano un'altra definizione, più operativa, dell'altruismo, che prescinde totalmente dalle motivazioni: sono altruisti quei gesti in cui qualcuno opera concretamente a favore di altri, pagando lui stesso un qualche costo come denaro, tempo, disponibilità mentale eccetera.
In questo senso allora la rete dove milioni di persone caricano materiali e idee, spendendo intelligenza e tempo, è un grande fenomeno di altruismo collettivo. Se poi ci si interroga sul perché lo fanno (lo facciamo), allora emergono certamente degli aspetti utilitaristi, ma di solito non monetari. L'interesse di chi alimenta un sito con le proprie poesie o le cronache della squadra del cuore sta nella costruzione della propria reputazione pubblica. Perciò fama, prestigio, identità e anche (perché no) umano esibizionismo. E' la stessa molla in base alla quale i ricercatori pubblicano i loro lavori scientifici. Sovente essi addirittura pagano alle riviste una certa somma per contribuire alle spese di stampa, ma se dipendesse soltanto da loro ne tirerebbero milioni di copie e le distribuirebbero gratis, lo scopo essendo di far conoscere le proprie idee alla maggiore quantità possibile di persone e perciò, attraverso tale circolazione, essere riconosciuti come saggi ed esperti. Eventualmente da quel successo ricaveranno anche avanzamenti di carriera, ma questa è una motivazione secondaria. La «pubblicazione» gratifica l'io e lo fa in pubblico, appunto.
Se le cose sono così, allora non c'è da stupirsi che questi contenuti siano andati in rete liberi e gratuiti grazie a milioni di persone, ognuna con i propri interessi sociali e culturali. Anche se volessimo considerarlo soltanto un gigantesco fenomeno di esibizionismo collettivo, tuttavia non era affatto scontato che le cose andassero in questo modo: dalla periferia della rete, fatta di persone dotate di uno strumento di base come il computer, le conoscenze si sono messe in moto: quello che prima era solo nel mio disco rigido oggi diventa disponibile a milioni di altre persone. Si valuta che siano circa un miliardo le persone che usano l'internet al mondo, ovvero un abitante del pianeta su sei, e questa cifra continua a salire.
Tutto ciò non significa che la Rete e nel suo complesso debba essere considerata tutta buona, altruista, generosa. E nemmeno il regno della democrazia. La stessa infrastruttura, essendo agile, versatile e globale, può essere utilizzata per i fini più diversi, dalla pornografia alla castità, dai movimenti per la pace a quelli razzisti, dalla gratuità del dono al commercio di ogni oggetto possibile.