un'autostrada che porta in spagna



da lavoce.info
26-04-2006

Un'autostrada che porta in Spagna
Carlo Scarpa
Andrea Boitani

La fusione Autostrade-Abertis (meglio, la incorporazione di Autostrade nella spagnola Abertis) ha sollevato un dibattito interessante, ma la cui rilevanza è notevole soprattutto tenendo conto che siamo all’inizio di una nuova legislatura e che la risposta del mondo politico potrebbe in qualche misura segnare un nuovo indirizzo in termini di politica industriale. Quale dovrebbe essere la risposta “politica” a questa operazione? Quale lezione si può trarre?
 
Due società molto redditizie grazie alla regolazione
 
Le due società che intendono fondersi sono tra le più redditizie d’Europa.
Autostrade per l’Italia, nel novembre del 2005, occupava in Europa il decimo posto per rapporto Ebit/fatturato (49,6 per cento); Abertis occupava il dodicesimo posto (45,06 per cento). Nel 2004 le posizioni erano quasi invertite, dato che Abertis era al decimo posto e Autostrade al quindicesimo. Il titolo di Abertis ha raddoppiato il suo valore da gennaio 2004 al 21 aprile del 2006 (www.abertis.it), mentre quello di Autostrade, nello stesso periodo, si è apprezzato di oltre l’80 per cento (www.autostrade.it). Da quando si è diffusa la notizia della fusione, poi, il valore del titolo di Autostrade si è ulteriormente impennato.
Autostrade per l’Italia, da società pesantemente indebitata quale era, è anche riuscita ad accumulare una rilevante liquidità, si dice nell’attesa di effettuare gli importanti investimenti in nuova capacità autostradale concordati con il Governo; tutta questa liquidità la rende comunque oggetto del desiderio per società indebitate, come sembra essere Abertis.
Nel valutare gli ottimi risultati di queste due aziende non va dimenticato che il settore autostradale è fortemente regolato a livello nazionale. Le tariffe finali dipendono, dunque, dal regolatore (e non dall’impresa). Poiché i ricavi tariffari arrivano a costituire l’80-90 per cento dei ricavi totali di una società autostradale, è evidente che la performance economica (e finanziaria) di tali aziende dipende in larghissima misura dalla “generosità” del regolatore (in Italia il Cipe). I nostri automobilisti possono stare relativamente tranquilli: i pedaggi delle autostrade nazionali saranno alti o bassi in relazione alle scelte politiche del regolatore italiano e non (o almeno non direttamente) in relazione alla nazionalità del gestore.
Certo, è possibile che un gruppo più grande abbia maggiori capacità di pressione sul regolatore, per spuntare tariffe più favorevoli. Anche se forse i consumatori potrebbero avere una ricaduta positiva. Potrebbe anche darsi il caso che il Governo italiano, finora molto generoso con Autostrade  smetta di esserlo, senza più la scusa di tutelare un’impresa italiana. Anche dati gli attuali livelli tariffari, speriamo proprio che succeda. Del resto, il programma elettorale dell’Unione (che formerà il nuovo Governo) prevedeva l’istituzione di un’Autorità indipendente per la regolazione delle tariffe autostradali . Rimane, comunque, il fatto che la scelta appartiene alla politica e non dipende dalla nazionalità del controllo azionario del soggetto regolato.
Allo stesso modo, gli investimenti nelle autostrade non dipendono gran che dalla nazionalità del gestore della concessione. Gli investimenti vengono effettuati (o non vengono effettuati) a seconda che esistano le condizioni di profitto per effettuarli, che siano state rilasciate le autorizzazioni necessarie, eccetera Il problema sarà quindi assicurarsi che si creino le condizioni di contorno affinché questi investimenti risultino redditizi per chi è chiamato a effettuarli. Condizioni che, peraltro, l’attuale regime regolatorio garantisce fin troppo abbondantemente, per le ragioni sopra dette . Semmai il problema è rendere più rapido e credibile il meccanismo delle autorizzazioni e, al contempo, rendere contrattualmente più rigoroso il rispetto dei tempi di completamento delle opere, utilizzando appropriati strumenti di incentivazione e di punizione.
 
Meglio non piangere sul latte versato
 
Se quanto appena detto è vero, c’è da chiedersi il perché della levata di scudi di una parte del mondo politico contro la fusione-incorporazione. Sembra che la risposta vada ricercata nel riflesso condizionato che scatta in molti politici in casi di questo genere. Ovvero il terrore di perdere un “campione nazionale”, perché l’italianità delle grande imprese, secondo alcuni, sarebbe un cruciale motore della crescita del paese. Anche se il sostegno teorico e fattuale a questa tesi è tra il debole e l’inesistente , la recente vicenda Enel-Suez ha mostrato come sul tema vi siano orecchie molto sensibili (anche) in altri paesi, quali la Francia o la Germania. E, tuttavia, non ci si può scandalizzare per il “nazionalismo” del Governo francese, per poi cadere nello stesso peccato neanche un mese dopo.
La Spagna di Zapatero sembra essere l’ultima arrivata nel club degli sciovinisti economici (come la vicenda Endesa – Gaz Natural ha testimoniato), ma sembra anche essere molto aggressiva. La incorporazione di Autostrade in Abertis farà scomparire un soggetto imprenditoriale italiano. È un guadagno per gli spagnoli e una perdita per gli italiani? Ci piacerebbe capire perché, ma temiamo che l’onere della prova gravi su chi intende sostenere che l’Italia abbia molto da perdere. Non basta dire che siamo di fronte a un’operazione puramente finanziaria e che le sinergie industriali sembrano assai limitate. Affermazioni probabilmente corrette, ma insufficienti a dimostrare che l’Italia ci rimetterà.
Potrebbe esserci anche un’altra spiegazione all’allarme diffuso in questi giorni. Il timore di non essere in grado di mettere in piedi un sistema di regolazione rigoroso, a fronte di un soggetto imprenditoriale che diviene più forte a livello europeo. Il timore è legittimo, vista l’esperienza passata. Ma non si può sparare contro un’operazione finanziaria internazionale solo perché si ritiene di essere incapaci di regolare in modo ragionevole un settore tutto sommato non così complicato.
Quanto a lezioni da trarre, si conferma che il modo in cui venne condotta l’operazione di vendita di Autostrade spa nel 1999, da parte del Governo D’Alema, non fu di straordinaria lungimiranza, se l’obiettivo era costruire un forte gruppo industriale nel settore autostradale. In realtà, si creò una colossale posizione di rendita – rafforzata dalle generose scelte tariffarie del Governo Berlusconi nel 2004 – che ora gli azionisti di Autostrade vanno a riscuotere: per loro, la plusvalenza rispetto al prezzo di acquisto è stata ingente, ma del tutto legittima. Certo si è prodotta a scapito degli automobilisti italiani, ma chi ha consentito per sette anni che ciò avvenisse?
Per coloro che hanno a cuore gli interessi pubblici, non serve piangere sul latte versato, agitare lo spauracchio dello straniero o affliggersi con l’inevitabile debolezza del regolatore. Sarebbe meglio riflettere sugli errori commessi in passato e rimboccarsi le maniche per mettere in moto una buona riforma della regolazione di settore, indipendentemente dal fatto che gli operatori siano italiani o multinazionali.

Fusioni e campioni
Michele Ruta

Di che cosa ha bisogno l’Europa, di campioni nazionali o europei? Questa domanda è apparsa su numerosi giornali da quando alcune autorità e governi di paesi membri dell’Unione Europea sono intervenuti per ostacolare la fusione di imprese nazionali con imprese di altri paesi. I casi sono fin troppo noti: Antonveneta/Abn, Unicredit/Hvb, Suez/Enel, solo per citarne alcuni. L’argomento ha perso le prime pagine dei giornali, ma la questione resta attualissima.
 
Campioni?
 
Prima di parlare di campioni nazionali o europei è necessario fermarsi a riflettere un momento sull’idea stessa di “campione”. Non mi risulta che ne esista una definizione scientifica, ma nel linguaggio comune si tratta di una impresa che si vuole favorire per permetterle di vincere nella competizione internazionale, da cui il termine “campione”. In quest’ottica, fusioni tra imprese nazionali sono da alcuni giudicate essenziali per la creazione di campioni nazionali, mentre concentrazioni cross-border, cioè tra imprese di diversi paesi dell’Unione, sono per altri la chiave di volta per la nascita di campioni europei.
Mentre in passato i processi di fusione riguardavano essenzialmente imprese americane e inglesi, negli ultimi anni il fenomeno è cresciuto in Europa sia per il valore economico delle imprese che si integrano, sia per aver incluso settori finora esclusi come le utilities, sia perché attualmente riguarda in maniera crescente concentrazioni cross-border. (1)
Le fusioni sono una conseguenza dell’integrazione economica del continente e della globalizzazione che provoca simultaneamente l’aumento della dimensione del mercato e delle pressioni competitive. Ciò spinge le imprese in diversi settori a fondersi e ristrutturarsi nel tentativo di guadagnare efficienza, che si può ottenere attraverso economie di scala, o di diminuire la concorrenza.
Infatti, le concentrazioni hanno principalmente due effetti contrastanti sul benessere sociale. Agli aumenti di efficienza, che in ultima analisi si riflettono su prezzi più bassi, corrisponde un aumento del potere di mercato delle imprese che si integrano, il che ha l’effetto di segno opposto sui prezzi. Più precisamente, in assenza di guadagni di efficienza, una fusione aumenta il potere di mercato delle imprese che si integrano, che possono alzare i prezzi di vendita con ricadute positive sui profitti, e riduce il benessere dei consumatori (il surplus del consumatore) e della società in generale. Il discorso però cambia se una concentrazione tra due imprese ne aumenta l’efficienza: a un incremento di competitività, per esempio dovuto a una riduzione dei costi per unità di prodotto, corrisponde una riduzione dei prezzi e un aumento del surplus del consumatore e del benessere sociale. Inoltre, la recente analisi teorica ed evidenza empirica mostra un secondo rischio: è necessario un livello sufficiente di competizione per stimolare l’innovazione e, quindi, l’efficienza stessa. (2) In generale, quindi, l’effetto di concentrazioni tra imprese è ambiguo e dipende dall’entità degli aumenti di efficienza indotti dalle fusioni.
Le discussioni sui campioni alla luce di questa analisi perdono di significato e rischiano di diventare pura retorica. Da un punto di vista sociale, il problema non è di promuovere campioni nazionali o campioni europei, ma di bloccare quelle concentrazioni che portano a bassi incrementi di efficienza e di avallare quelle per cui la perdita di competizione sul mercato è più che compensata da un aumento di efficienza nella produzione.
 
Governi e campioni
 
Allora perchè in Europa governi nazionali ostacolano le fusioni cross-border e insistono sull’utilità dei campioni nazionali? In una unione internazionale come l’Unione Europea, le considerazioni di governi nazionali e autorità dell’Unione possono differire. (3) Ciò avviene per due ordine di ragioni.
Primo, i governi nazionali rispondono al proprio elettorato e prendono in considerazione solo l’effetto delle fusioni sul benessere nazionale. A differenza della Commissione europea, che ha il dovere di vigilare sulla concorrenza nell’Unione, i governi nazionali non si sentono responsabili per gli effetti anti-competitivi delle concentrazioni, se non per quella frazione di consumatori che risiedono nel proprio territorio. Spesso più determinanti sono le considerazioni sui profitti delle imprese: per il governo di un singolo paese, gli effetti sui profitti sono rilevanti solo se le imprese (e la proprietà) sono situate sul proprio territorio. In sintesi, esistono delle genuine valutazioni economiche che spingono governi nazionali a far ricorso alla retorica dei campioni nazionali e promuovere concentrazioni di imprese nazionali che sono talvolta inefficienti da una prospettiva sovranazionale. Come esempio, si consideri il caso limite in cui una fusione, inefficiente dal punto di vista dell’Unione, avviene tra due imprese situate in un piccolo paese e che esportano la quasi totalità del prodotto. La fusione ha un effetto positivo sui profitti delle imprese, per via dell’aumento del potere di mercato, e negativo sui consumatori. Solo il primo effetto viene preso in considerazione dal governo nazionale, poiché i consumatori sono per lo più cittadini di altri paesi dell’Unione.
Il secondo ordine di ragioni per cui governi nazionali sono portati a preferire concentrazioni nazionali è legata alla “politica dei campioni”. A differenza dei consumatori, che rappresentano un interesse diffuso, le imprese hanno la capacità di organizzarsi politicamente e influenzare le decisioni dei governi. Questo contrasto tra interessi particolari dei produttori e generali dei consumatori è ormai un classico della recente letteratura economica che trova applicazioni e conferme nella teoria del commercio internazionale, nella teoria della regolamentazione, oltre che alla politica antitrust e industriale. In questo contesto politico, un governo nazionale può essere indotto a usare la retorica dei campioni nazionali per appoggiare concentrazioni che sono inefficienti sia dal punto di vista dell’interesse generale dell’Unione che da quello nazionale, solo perchè ciò favorisce alcune lobby industriali. Ciò sarà maggiormente vero in quei settori che per propria natura sono politicamente più sensibili, come energia e servizi bancari. In una Unione divisa, considerazioni politiche più che economiche inducono i governi nazionali a ostacolare aggregazioni cross-border a favore di concentrazioni nazionali.
Campioni nazionali o europei dunque? Nessuno dei due. L’Unione deve promuovere concentrazioni efficienti di imprese – dove “efficiente” ha il chiaro significato di avere guadagni di efficienza che compensino per l’aumento di potere di mercato del nuovo soggetto – e bloccare le fusioni che non corrispondono a questo criterio. Il ruolo della Commissione nel promuovere un sistema industriale competitivo e libero dal concetto vuoto di “campione” è essenziale. 
 
 (1) European Economic Advisory Group at CESifo, 2006, Report on the European Economy 2006, CESifo, Univeristy of Munich.
(2) Aghion, P., N. Bloom, R. Blundell, R. Griffith e P. Howitt, 2005, “Competition and Innovation: An Inverted-U Relationship”, Quarterly Journal of Economics, 120, 2, 701-28.
(3) Motta, M. e M. Ruta, 2006, Merger Politics in an International Union, Work in Progress, European University Institute.