proposte per una nuova legge urbanistica nazionale



da Eddyburg  di lunedi 23 gennaio 2005

Proposte per una nuova legislazione urbanistica nazionale
Autore: Salzano, Edoardo

Relazione al convegno “Elementi imprescindibili di una legge urbanistica
regionale”, Gruppi consiliari regionali Verdi, PRC, PdCI, Torino, 21
gennaio 2006

Il legislatore regionale non si muove nel vuoto. Egli è certo condizionato,
in primo luogo, dalla situazione, dagli interessi, dalla cultura della sua
regione. Ma la frenesia federalista non è giunta al punto di trasformare le
regioni in isole segregate, in compartimenti stagni. Per ciò il legislatore
regionale terrà conto anche del quadro nazionale, della cultura, degli
interessi, della situazione che si esprimono nell’insieme della Repubblica
di cui la Regione è parte.
Vorrei domandarmi, all’inizio di questo convegno di riflessione sulla
legislazione della Regione Piemonte, quali sono i riferimenti che è
possibile assumere e proporre a livello nazionale. Senza dimenticare il
ruolo forte che, soprattutto in questa fase della vita del nostro paese,
può essere svolto da questa regione: una Regione che ha nella sua storia
una buona legge, forse il più compiuto prodotto della cultura urbanistica
di quei decenni, che me è cara anche perchè è stata in larga parte il
prodotto di due persone il cui ricordo e il cui insegnamento sono vivi in
me: due persone come Givanni Astengo e Alberto Todros.

Domandiamoci in primo luogo a che punto stiamo

La legge Lupi e il lupismo

Il quadro nazionale non è incoraggiante. Ciò significa che è necessaria
molta determinazione e molta lucidità per ricostruire strumenti positivi di
governo del territorio: strumenti che consentano di utilizzare al meglio –
oggi e domani, per noi e per i nostri posteri – le risorse di cui ancora
disponiamo dopo la grande dilapidazione che è avvenuta soprattutto negli
ultimi anni. Parlo di risorse culturali, ambientali, paesaggistiche, come
delle risorse costituite dall’intelligenza, dalla capacità di lavoro, dalla
sapienza amministrativa, e parlo dal patrimonio che mediante l’impiego di
queste risorse è stato costituito nel territorio.
Il quadro non è incoraggiante. A meno di un colpo di mano ancora possibile,
non dovrebbe giungere alla fine del suo percorso la legge denominata
“Principi per il governo del territorio” che la Camera dei deputati ha
approvato il 28 giugno 2005 e che è ancor oggi all’esame del Senato. Forse
è un cadavere che sta alle nostre spalle. Ma la vicenda della sua
gestazione rivela una situazione culturale e politica che a me sembra
francamente allarmante.
Se la legge Lupi è morta, non è morto il “lupismo”: cioè quella ideologia
così largamente condivisa che ha potuto far esclamare all’onorevole Lupi,
all’indomani dell’approvazione della legge, che essa è il prodotto di un
lavoro bipartisan.
Frase che non ha potuto essere contestata, poiché tutto il lavoro
parlamentare testimonia il sostanziale accordo tra i parlamentari della
destra e larga parte di quelli dell’opposizione su alcuni punti nodali del
provvedimento.
Del resto, è largamente noto che nella formazione della Legge Lupi, e nella
mediazione tra le proposte della destra e quelle di componenti rilevanti
del centrosinistra ha svolto un ruolo rilevante la stessa cultura
urbanistica ufficiale: quella rappresentata dall’Istituto nazionale di
urbanistica. Un Istituto del quale sono stato presidente in tempi che mi
sembrano lontani anni luce da quelli che abbiamo appena attraversato.

Una cultura ormai diffusa

La tesi che sostengo è che la legge Lupi esprime una cultura ormai diffusa,
di cui si trovano tracce rilevanti in più d’una legislazione regionale e
nel comportamento di molte amministrazioni locali di destra, di centro e di
sinistra, la quale ha abbandonato alcuni principi cardine dell’urbanistica
moderna e ha cercato:
- negli interessi immobiliari il protagonista delle trasformazioni
territoriali, e quindi gli attori da promuovere e premiare
- nel potere pubblico uno strumento da trasformare da regista, arbitro e
garante delle trasformazioni territoriali e urbane, a facilitatore degli
interessi immobiliari,
- nel sistema delle regole (e perfino nei meccanismi della democrazia) un
impaccio fastidioso da cui liberare i portatori di interessi privilegiati.
E’ del tutto evidente che da questa logica, nell’ambito di questa ideologia
(e dei corposi interessi di cui è al servizio) derivano effetti molto gravi
sotto due profili decisivi: quello della conservazione del patrimonio
comune e quello della decadenza dell’economia.

L’aggressione al patrimonio comune

Il patrimonio comune (il territorio, l’ambiente, il paesaggio) diventa
merce di scambio per consentire urbanizzazioni ed edificazioni. Le quantità
dell’espansione urbana non sono più determinate sulla base delle necessità
oggettive di nuove costruzioni per la residenza, per la produzione, per il
commercio, per le attrezzature, ma dalla domanda degli investitori
immobiliari.
Ogni nuova attività proposta, che richieda impiego di suolo e sua
sottrazione al ciclo naturale (un porto turistico, un centro commerciale,
una zona direzionale, un insediamento di case per vacanze), non viene
valutata in relazione alla sua utilità sociale e alla sua fattibilità
economica, ma semplicemente all’occupazione temporanea che può indurre (nel
migliore dei casi) e dal giro di affari che promuove (nel peggiore).
E la sua localizzazione non discende da un’analisi sulla corretta
disposizione degli elementi della struttura territoriale nello spazio, in
relazione alle caratteristiche dei siti, all’accessibilità, alle esigenze
della tutela, ma semplicemente dalla disponibilità dei proprietari a
promuovere trasformazioni del loro patrimonio immobiliare (e magari delle
sue esigenze di “valorizzazione”)
Non voglio dilungarmi nella descrizione dei danni che questa ideologia (e
questa prassi) comportano sul patrimonio comune, sulla corretta
organizzazione della città e del territorio, sulla loro vivibilità. Credo
che esse siano evidenti a tutti i presenti. Vorrei invece accennare a un
aspetto che troppo spesso viene trascurato: se non lo fosse, probabilmente
l’attenzione delle foze sociali alla questione del governo del territorio
sarebbe più vigile e continua.

Un contributo alla decadenza dell’economia italiana

Gli osservatori più attenti hanno ricordato l’estate scorsa il ruolo
nefasto che ha giocato, nel sistema economico italiano, il peso della
speculazione e delle rendite immobiliare e finanziaria che l’alimenta. Si è
posto l’accento “sui danni che le rendite - anche quelle immobiliari -
provocano al Paese” (F. Giavazzi, Corriere della sera, 9 agosto 2005 ). Si
è osservato come nel sistema economico italiano al circuito
merce-denaro-merce si sia sostituito quello denaro-merce-denaro, rilevando
che “tra le due definizioni c'è molta differenza: con la prima si crea
ricchezza reale che alimenta una lotta nella fase distributiva; con la
seconda c'è il trionfo della sola speculazione, dell'arricchimento
individuale” (Galapagos, il manifesto, 6 agosto 2005).
E molti hanno osservato come non solo la destra (una destra ben lontana da
quella espressa dalla borghesia liberale dei Sella e degli Einaudi), ma
anche la sinistra, tradizionalmente attenta nel comprendere i mutamenti
della struttura economica del paese e vigile nel combattere il prevalere
degli interessi della rendita parassitaria, si sia dimostrata incapace di
contrastare il trionfo degli immobiliaristi e, anzi, sia apparsa
addirittura complice.
Come mai, però, questa situazione si è determinata? Solo una decadenza
nella “cultura di governo” del ceto politico? In questa fragilità culturale
si esprime una più profonda fragilità del sistema economico-sociale, sulla
quale è utile riflettere. Il prevalere delle rendite nel nostro sistema -
questa particolarità dell’economia italiana, che la rende lontana da quella
degli altri paesi europei - affonda infatti le sue radici nel modo stesso
in cui fu realizzata l’unità d’Italia: svellerle richiede quindi sforzi
poderosi, strategie lungimiranti, determinazione eccezionale.
Ma è una strada obbligata se si vuole evitare la decadenza irrimediabile.
Per ridare prospettiva all’economia (sia pure in una logica capitalistica,
qual è l’unica data sebbene non sia l’unica possibile) sconfiggere la
rendita è un passaggio essenziale. E duole constatare come siano rari e
discontinui i segni della comprensione di ciò da parte del personale
politico e di quello sindacale: solo Bertinotti, Prodi, Epifani hanno
segnalato, con parsimonia, la rilevanza di questo passaggio. E il “progetto
dell’Italia” dell’Unione si limita ad affermare che “verranno assunte le
iniziative necessarie a contrastare i privilegi legati alla rendita, le
rendite di posizione e le distorsioni derivanti dai monopoli pubblici e
privati” Ce n’est qu’un debut, piuttosto flebile in verità.
Vorrei domandarmi adesso che cosa dovrebbe stabilire una legge nazionale. L’ispirazione
di una legge adeguata m sembra riassumibile in una convinzione e una
consapevolezza. Vorrei esprimerle entrambe con parole non mie.
La convinzione l’hanno espressa molto bene Alberto Magnaghi e Anna Marson,
nel loro contributo raccolto nel volumetto La controriforma urbanistica, a
cura di Maria Cristina Gibelli, Alinea Editrice, che ieri abbiamo
presentato al Politecnico:
“Il principio basilare dovrebbe affermare la centralità del territorio come
bene pubblico e collettivo, o meglio come “bene comune” [cioè non
alienabile senza il consenso della comunità] essenziale al benessere delle
comunità su di esso insediate.Questo principio si fonda sul presupposto che
il territorio costituisca l’ambiente essenziale alla riproduzione materiale
della vita umana, e al realizzarsi delle relazioni sociali e della vita
pubblica. Territorio non è quindi soltanto il suolo o la società ivi
insediata, ma il patrimonio (fisico, sociale e culturale) costruito nel
lungo periodo, valore aggiunto collettivo che troppo spesso viene
distrutto, anche da amministrazioni di centro-sinistra, in nome di un
astratto e troppo spesso illusorio sviluppo economico di breve periodo”.
La consapevolezza che deve animarci la esprimo con le parole impiegate da
Roberto Camagni, raccolte nello stesso volumetto:
“Il territorio è bene pubblico e collettivo, che fornisce benefici alle
comunità locali sotto forma di benessere degli abitanti ed efficienza dei
settori produttivi, e che non viene adeguatamente garantito dal puro
operare di rapporti di mercato [...]; esso richiede pertanto attività di
pianificazione, di cooperazione nella decisione e di governo, oltre che lo
sviluppo di virtù civiche e di una cultura territoriale diffusa.
Come tradurre questa convinnzione e questa consapevolessa in precetti
legislativi, in “principi” di una legge nazionale sul governo del
territorio? Da tempo abbiamo proposto alcune idee.

Il comportamento generale del potere pubblico

Il primo principio non può che essere la prevalenza dell’interesse
pubblico. La sua motivazione sta nel fatto che affermato da sempre come
necessario nella stessa storia della pianificazione urbanistica e
territoriale: questa infatti è caratterizzata, fin dalla sua nascita, dalla
circostanza di essere uno strumento necessario per affrontare questioni che
il mercato, di per se, non è in grado di affrontare. Tale rimane nella
società di oggi. Essa consiste nel definire regole e promuovere azioni che
consentano una utilizzazione del territorio coerentemente finalizzata a
determinati obiettivi culturali, sociali e politici.
Accanto a questo principio ne porrei altri tre:
- il principio di pianificazione, ossia la regola che le decisioni sul
territorio vengono espresse con atti precisamente riferiti al territorio,
sintetici (ossia comprendenti l’insieme delle scelte sul territorio che
competono all’ente decisore), formati con procedure trasparenti che
comprendano la partecipazione dei cittadini o delle loro rappresentanze; da
tutti, a cominciare dallo Stato, le cui scelte non possono derivare da una
serie di decisioni settoriali o, peggio ancora, da un “Contratto con gli
italiani” disegnato sulla lavagna di Porta a porta;
.- il principio di competenza, ossia la prescrizione che la formazione
degli atti di pianificazione compete solo agli enti elettivi di primo
grado: Stato, Regione, Provincia e Città metropolitana, Comune,
- il principio di sussidiarietà, non nella versione demagogica alla Bossi –
che anche il centrosinistra ha assunto con la modifica al titolo V della
Costituzione, nell’illusione fallace di tagliare l’erba sotto i piedi alla
Lega - ma come definito dai regolamenti europei, cioè senza nessun
privilegio per i livelli sottordinati o per quelli sovraordinati, ma con
riferimento al livello e alla scala degli oggetti e aspetti considerati.
I contenuti e le modalità della tutela dei beni pubblici d’interesse
nazionale
Sostenibilità significa non lasciare ai posteri meno risorse di quante ne
possiamo godere. Ciò impone di stabilire criteri di pianificazione che
contribuiscano a controllare l’impiego di tutte le risorse e a individuare
per ciascuna di esse il livello e l’autorità di pianificazione più idonei a
tutelarle: ciò vale in primo luogo per le risorse basilari (acqua, aria,
terra ed energia), sempre più sacrificate a una crescita della produzione
di merci divenuta ormai, oltre che umanamente superflua, anche in violento
contrasto, potenzialmente mortifero, con l’intrinseca limitatezza delle
risorse.
Ma le risorse non sono soltanto le quattro fondamentali (acqua, aria, terra
ed energia): massimo rilievo per la civiltà umana hanno cultura, storia e
bellezza. Sembra allora maturo il momento per riprendere ed estendere la
tutela dei valori che la natura e la storia hanno sedimentato nel
territorio accrescendo la sua qualità.
Anche qui, si tratta di andare avanti lungo un percorso che è stato già
avviato negli anni Settanta e Ottanta. Mi riferisco all’innovazione
introdotta con la cosiddetta Legge Galasso del 1985, con la quale si sono
affermati due principi.
Il primo è quello di superare la scissione tra paesaggio e urbanistica, e
di attribuire la “considerazione dei valori paesaggistici e ambientali”
alla ordinaria pianificazione urbanistica e territoriale. Una scissione che
ha provocato danni infiniti, contraddizioni, conflitti – naturalmente
risolti sempre a danno della parte più debole, il paesaggio, sacrificato
sistematicamente alla parte più forte, l’urbanistica intesa come
edificazione e infrastrutturazione cementizia. Una scissione che l’ideologia
sottesa alla Legge Lupi (e la stessa lettera della legge) sciaguratamente
ripropongono.
Il secondo è quello di stabilire che l’individuazione delle qualità e dei
valori del territorio meritevoli di tutela (come quella delle risorse non
rinnovabili e dei rischi attuali e potenziali) sono oggetto di scelte di
pianificazione che hanno la priorità rispetto alle scelte di trasformazione
e urbanizzazione: sono invarianti che caratterizzano lo statuto del
territorio, per riprendere i termini assunti nella legislazione della
Regione Toscana.
In questo quadro, mi sembra che sia giunto il tempo di dichiarare che il
territorio rurale, come quello naturale, sono beni che non devono essere
sottratti al godimento delle generazioni presenti e di quelle future, e
quindi i terreni esterni a quelli definiti come urbani o urbanizzabili
devono essere preservati da qualsiasi edificabilità. Il testo legislativo
proposto da Italia Nostra nel corso della precedente gestione suggerisce
appunto di introdurre questo principio aggiungendo una lettera (una
categoria di beni) all’elenco dei beni da tutelare introdotto dalla Legge
Galasso e ribadito dalle successive edizioni del Codice dei beni culturali
e del paesaggio.

I diritti dei cittadini della repubblica italiana

Una ulteriore serie di principi dovrebbe regolare alcune questioni decisive
del rapporto tra interessi privati e interessi collettivi nelle
trasformazioni territoriali. Al vertice di questo gruppo di temi) ne porrei
alcune che riguardano i diritti dei cittadini. Oltre alla questione dell’ambiente,
della sua salubrità e della sua qualità – cui ho or ora accennato - si
tratta di alcune questioni che, negli anni Sessanta e Settanta, furono al
centro di un vasto movimento sociale e di un’intelligente lavoro politico e
legislativo: la questione dei servizi sociali, quella della casa e quella
della mobilità.
Sulla prima questione mi riferisco al movimento, e all’azione politica, che
portarono anche il nostro paese a stabilire dei requisiti minimi essenziali
di vivibilità che dovevano essere garantiti a tutti i cittadini: i
cosiddetti “standard urbanistici”. Questi devono certamente essere rivisti,
aggiornati e integrati, tenendo conto delle nuove esigenze sociali e di
antiche esigenze mai risolte (come quella alla casa), ma certamente alcuni
“limiti non derogabili” di tali requisiti devono essere garantiti a ciascun
cittadino della Repubblica, quale che sia la regione in cui abbia il suo
domicilio.
Mi riferisco, in secondo luogo, all’azione per realizzare il principio
della casa come servizio sociale. Fu un’azione che condusse a ottenere
strumenti ricchi di potenzialità non del tutto utilizzate, sia sul versante
della realizzazione di interventi di edilizia residenziale pubblica e
sociale, sia su qello del controllo del mercato privato. Un’azione che
esigerebbe oggi strumenti nuovi, più adatti alle profonde modifiche che
hanno distorto l’uso dello stock edilizio, ma che invece è stata sostituita
dal semplice smantellamento degli strumenti faticosamente conquistati.
Mi riferisco infine alla questione della mobilità e all’angosciosa
situazione del traffico, provocatrice di sprechi immani di risorse e di non
misurabile malessere delle persone. E’ una questione che nasce da scelte di
politica economica compiute nel dopoguerra, già allora segnalate come
foriere di drammatiche conseguenze, che hanno sviluppato tutta la loro
carica negativa. In pochi casi come questo la contraddizione tra carattere
di massa delle esigenze e carattere indiividualistico delle soluzioni
offerte ha rivelato la sua devastante portata.
Credo che su questi temi la Repubblica (che è costituita dai comuni, dalle
province, dalle regioni e dallo Stato) non possa tacere lasciando a ogni
regione di definire diversamente i diritti dei propri cittadini. La
legislazione nazionale deve stabilire alcuni paletti, alcuni diritti che
valgano per ogni cittadino italiano, dovunque abbia fissato la sua
residenza. E ai principi che la legge nazionale deve stabilire devono
accompagnarsi provvedimenti capaci di suscitare politiche, azioni,
interventi concreti sui diversi settori coinvolti: a partire dall’economia.

I limiti del diritto di proprietà

Le peggiori devastazioni del territorio (oltre a quelle derivate dalla
miopia scriteriata di cui hanno dato spesso prova i promotori delle opere
pubbliche) sono state indubbiamente provocate dal prevalere degli interessi
della proprietà immobiliare, in particolare di quella fondiaria. E’ a
questo prevalere che si deve anche l’0irrazionalità dell’assetto delle
nostre città e dei nistri territori. Sono convinto che questo sia un punto
notale di una buona legge per il governo del territorio. Non si tratta di
innovare gran che sul terreno dei principi giuridici già presenti nel
nostro diritto, quanto di definirli con maggiore chiarezza e perentorietà e
di tradurli in istituti e procedure più chiari ed espliciti.
Occorre precisare che la facoltà di edificare (ciò che taluni chiamano
“diritti edificatori”) si costituisce solo in presenza di atto abilitativo
(concessione edilizia o approvazione di progetto che sia) e ove i lavori
siano iniziati. Non esiste alcun “diritto” del proprietario a costruire
alcunchè sul terreno di sua proprietà, anche se un piano regolatore
legittimamente approvato lo consentiva e una successiva variante riduce o
elimina del tutto la prevista edificabilità. Perfino una lottizzazione
convenzionata già stipulata può essere annullata dall’amministrazione, se
la motivazione è adeguata e se i proprietari sono indennizzati delle spese
documentatamente e legittimamente sostenute.
Occorre ribadire che i vincoli ricognitivi, quelli cioè che costituiscono
la concreta individuazione sul territorio di beni appartenenti a categorie
tutelate da leggi nazionali e regionali (beni architettonici, ambientali,
storici, paesaggistici) non sono indennizzabili, come ha stabilito una
costante giurisprudenza costituzionale, a partire dalle famose sentenze 55
e 56 del 1968, con una chiarezza e una perentorietà crescenti.
Occorre stabilire che i vincoli funzionali, quelli cioè che derivano dalla
scelta di riservare determinate aree (diverse da quelle di cui al punto
precedente) alla realizzazione di servizi o impianti di pubblico interesse
e pubblica fruizione, possono essere compensati nel rispetto delle
prescrizioni urbanistiche vigenti. Che l’espropriazione deve avvenire entro
termini temporali certi e che, in assenza. l’ente pubblico è tenuto a
pagare l’indennizzo di legge e ad acquisire il bene al proprio patrimonio.
L’articolazione della pianificazione in due componenti (una strutturale,
che definisca i vincoli ricognitivi e lo “statuto dei luoghi”, una
programmatica e operativa, che stabilisca che cosa, nel periodo di tempo
considerato, si farà e si lascerà fare ai diversi soggetti interessati) può
essere uno strumento utile per lavorare in questa direzione, sebbene non mi
sembri opportuno che questa prassi tecnica venga stabilità da una legge
nazionale.
Infine, occorre stabilire che la perequazione tra proprietari di immobili
cui il piano attribuisce differenti possibilità di utilizzazione, può
essere praticata solo nell’ambito di ciascun comparto d’intervento
operativo, come era del resto previsto, sia pure con qualche ambiguità,
dalla proposta che era stata presentata dai deputati della Margherita.
Generalizzazione, in altri termini, delle tecniche di compensazione tra
proprietari interessati dalla medesima operazione trasformativa (come
previde la legge 1150/1942 con i comparti, e la legge 765/1967 con e
lottizzazioni convenzionate), ma non spalmatura generalizzata di
edificabilità sul territorio, che oltretutto sancirebbe un diritto dei
proprietari a una qualche quota di edificazione che nulla, nel pur arcaico
diritto italiano, ha finora riconosciuto.

Per concludere.
Il ruolo delle regioni


Non sono un federalista. In Italia il federalismo ha in significato opposto
a quello che il vocabolario e la storia gli assegnano: il federalismo all’italiana
è qualcosa che divide, mentre il federalismo è nato per unire. Sono invece
un regionalista convinto. ma non nel senso che le regioni debbano chiudersi
al loro interno, rivendicando poteri dallo Stato per gestirli in piena
autonomia. Credo che tra le regioni e lo Stato ci debba essere un forte
interrelazione, anche nel senso che le regioni più forti ed evolute devono,
generalizzando a livello statale le loro conquiste, trascinare quelle meno
fortunate. Fu così, del resto, che l’esperienza del buon governo del
territorio in alcune regioni contribuì a formare la legislazione riformista
degli anni Sessante e Settanta. Non posso mancar di ricordare, in questa
sede, il ruolo che svolse Giovanni Astengo nei primi anni dell’entrata in
vigore dell’ordinamento regionale.
Una corretta applicazione del principio di sussidiarietà (non alla Bossi,
ma alla Delors) può essere d’aiuto nel determinare le reciproche
competenze. Ma a me qui, in Piemonte, interessa più sottolineare la
responsabilità nazionale che ciascuna regione deve cercar di assumere. E
vorrei a questo proposito accennate a un ultimo tema, che non saprei in
quale livello di legislazione urbanistica collocare (forse in nessuno), ma
che permea tutta la tematica del governo del territorio: mi riferisco alla
questione della partecipazione.

Partecipazione e democrazia

È un tema molto delicato. Si pone sulla cerniera di quel rapporto che
legittima l’urbanistica: il rapporto con la politica e con la società. La
questione che c’è sotto è globale: è la questione della democrazia.
In Italia il nodo è quello del rapporto tra società e politica. Questo
rapporto si è rotto: la società non si sente più rappresentata dagli
strumenti e dagli istituti della democrazia. I partiti, e di conseguenza le
istituzioni non hanno più credito. Se la maggioranza dei cittadini li
subisce (e comunque elude i valori che essi dovrebbero rappresentare,
accettando il potere reale degli strumenti di comunicazione di massa),
quella porzione che si rifiuta di sottomettersi chiede di rappresentarsi da
sé: di decidere, o almeno di partecipare direttamente al processo delle
decisioni.
Si forma così (caso per caso, episodio per episodio) una opposizione al
“potere che decide” che vuole decidere in sua vece. Ma poiché non ha la
forza per costruire, riesce solo a decidere ciò che non va fatto: riesce a
bloccare le decisioni, a ritardarle. Magari a proporre una soluzione
alternativa: mai a praticarla. Ecco che la partecipazione (questa
partecipazione) diventa una forza di paralisi. Al tempo richiesto dal gioco
di pesi e contrappesi della democrazia, che è nato per garantire interessi
legittimi contro il decisionismo del tiranno, si aggiungono così i tempi
degli arresti provocati dalla partecipazione. La crisi del sistema aumenta.

Il rapporto tra politica e società

Mi rendo conto di dare un’interpretazione che può apparire pessimistica
della partecipazione. Allora cerco di domandarmi da dove nasce quella crisi
del rapporto tra politica e società cui la partecipazione vuole dare una
risposta “dal basso“.
La mia tesi è semplice, forse semplicistica. Quando la democrazia fu
introdotta in Italia (dai comunisti, dai democristiani, dai socialisti, dai
liberali), essa prevedeva una stretta relazione collaborativa tra i partiti
e le istituzioni. Le istituzioni, gli strumenti della democrazia
rappresentativa, erano nutrite dalla società attraverso i partiti: ben al
di là del collegamento a lunga periodicità dei comizi elettorali. I
partiti, e soprattutto i grandi partiti, esprimevano le diverse componenti
della società: nei loro ideali e nei loro interessi, nei loro egoismi e
nelle loro speranze. Davano ad esse un progetto di società, in nome del
quale chiedevano l’adesione e fornivano soluzioni. Mediando tra loro,
ricercando intese dove era possibile raggiungerle, e denunciando differenze
dove queste restavano, governavano attraverso le istituzioni. Il rito
pluriennale delle elezioni non era quindi che una verifica periodica della
forza elettorale dei diversi partiti, ma ciascuno di questi era il tramite
quotidiano tra la società (certo informalmente rappresentata) e le
istituzioni.
Il problema allora cui la partecipazione allude è proprio questo: come
ricostituire un legame tra società e istituzioni, che salvi queste dalla
necrosi e restituisca alla società la possibilità di intervenire
positivamente sul potere? Come sostituire (o ricostituire) i partiti, e il
ruolo che essi svolgevano? Oppure, avvicinandoci a un livello più
praticabile, come utilizzare la partecipazione nelle decisioni sul governo
del territorio in modo da aiutare il superamento della crisi in atto?

Una risposta in due direzioni

A me sembra che la risposta vada cercata in due direzioni, che richiedono
entrambe un impegno reciproco: da parte delle istituzioni, e da parte dei
membri della società.
Innanzitutto bisogna ricordare che il primo requisito della partecipazione
è la conoscenza esatta delle questioni su cui si decide. Garantire la
conoscenza è compito impegnativo per le istituzioni. Richiede di ripensare
compiutamente le procedure, e soprattutto la forma dei materiali, del
processo di formazione degli atti in cui si esplicita la decisione.
Richiede un investimento consistente di risorse: intelligenze, formazione,
persone, mezzi finanziari. Ed è un compito impegnativo anche per l’altra
parte, per i cittadini: richiede attenzione, studio, costanza, modestia
nell’esprimere le proprie idee. Non è poco, rispetto ai modi in cui si
esprime la partecipazione oggi.
In secondo luogo, bisogna ricordare la massima di Winston Churchill: “La
democrazia è un sistema pieno di difetti, ma tutti gli altri ne hanno di
più”. Ciò significa che alcune regole elementari della democrazia vanno
rispettate, e vanno rispettati i suoi istituti. Rispettati, e adoperati,
finché non se ne costruiscono di migliori.
Significa che la partecipazione deve passare attraverso le istituzioni,
lottando per il loro corretto funzionamento. E significa che le istituzioni
devono fare il massimo sforzo per aprirsi alla società, senza rinchiudersi
nel rapporto (ormai divenuto sterile) con i partiti. Bisogna forse avere
più coraggio nel praticare tutti i lati del triangolo costituito dal
rapporto tra istituzioni, partiti e società. Senza cadere nell’errore della
demagogia populistica, conservando tutto il rigore richiesto dalla missione
di governo, ma evitando di ripiombare nelle pratiche del secolo scorso,
divenute ormai sterile palude: come le vicende politiche di molte città
italiane testimoniano.