capitali e parassitismo delle idee



dal manifesto 06 Novembre 2005

Dosi massicce di parassitismo delle idee

La caratteristica è che a fare i pirati della creatività altrui non sono
hacker sfigati, ma gruppi industriali potenti. C'è l'editore che ha
realizzato una incursione nel marchio del manifesto e c'è la grande casa
automobilistica che lancia una vasta campagna pubblicitaria giocando sulla
contrapposizione «rock-lento» inventata da Adriano Celentano
FRANCO CARLINI
L'editore Einaudi sta per mandare in libreria il bellissimo saggio del
biologo americano Jared Diamone. Si intitola «Collapse» e come sottotitolo
dice «How Societies Choose to Fail or Succeed», ovvero «Come le società
scelgono di fallire o di avere successo». Forse per anticipare sul tempo il
concorrente, l'editore Feltrinelli ha appena fatto una settimana di
promozione dei libri dedicati ai temi dell'ambiente e della globalizzazione
il cui slogan così diceva: «Come le società scelgono di vivere o di
morire». Qualcuno si è ispirato a qualcun altro? Fin dall'anno 2000 Carlo
Feltrinelli ha registrato i nomi di dominio internet «www.ilmanifesto.com»,
nonché «ilmanifesto.net» e «ilmanifesto.org», realizzando una sgradevole
incursione in un marchio altrui. Perché non ce li restituisce?

Adriano Celentano non aveva fatto a tempo a terminare la prima puntata del
suo spettacolo in cui si esibisce nella banalissima lavagna dei buoni e dei
cattivi - per l'occasione ribattezzati «rock» e «lento» - che sui
quotidiani italiani partiva una campagna pubblicitaria della Fiat tutta
basata sulle due paroline tormento. Quando si dice pubblicitari a corto di
idee.

Una collega giornalista in luglio sottopose un'idea a un editore di
giornali, che le venne bocciata perché troppo onerosa. Ora se la ritrova
realizzata in proprio da quello stesso giornale, con evidente ispirazione
non solo ai suoi format ma persino alle espressioni letterali del suo
progetto iniziale.

Sono episodi minori ma significativi, di parassitismo delle idee. La loro
caratteristica è che a fare i pirati della creatività altrui non sono
hacker sfigati amanti della musica, ma gruppi industriali potenti. Come si
vede la questione della proprietà intellettuale continua a riproporsi,
sotto molteplici vesti, come forse è inevitabile, dato che le idee, per
loro intrinseca natura circolano: non appena sono espresse, chi le ascolta
può ad esse ispirarsi. Non per caso il settimanale Business Week ha
dedicato in agosto un intero dossier, intitolato «Get creative!» al
passaggio, ormai in corso, dall'Economia della conoscenza all' Economia
della creatività. Con qualche enfasi aggiungeva: «Il gioco sta cambiando.
Non riguarda più la matematica e la scienza» (intendendo con questo un
approccio ingegneristico e sistemico; ndr). «Riguarda invece la creatività,
l'immaginazione e, soprattutto, l'innovazione».

La quale è anche innovazione sociale e non solo tecnologica. Basti guardare
cosa succede a Mountain View, California, dove ha sede la star del momento
tra le aziende internet, Google. Da un lato ha strappato alla Microsoft un
vice presidente, Kai-Fu Lee, specialista in servizi interattivi. Per quel
«furto» è in corso una causa, perché il signor Lee porta inevitabilmente
con sé le idee e persino i segreti che aveva sviluppato per Bill Gates. Il
tribunale ha sentenziato che potrà lavorare per Google, ma non nel settore
di cui prima si occupava: dovrà anche tacere e non raccontare nulla delle
sue idee di un anno fa? Impossibile, ed è la dimostrazione, appunto, che le
idee sono per natura ansiose di circolare.

Dall'altro la stessa Google si preoccupa che il suo un ambiente faciliti la
famosa creatività, ed ecco allora che persino il suo ristorante interno è
andato cercando uno chef che fosse «esperto di cucina etnica e vegetariana,
basata su cibi organici». In generale, precisava l'annuncio, «la persona
cercata deve avere un pensiero rapido e creativo». Per inciso: due giorni
fa le azioni di Google hanno fatto un altro record, arrivando a 390,43
dollari l'una, il che corrisponde all'esagerata capitalizzazione di 113
miliardi di dollari.

La stessa Google è di nuovo al centro di polemiche per il suo progetto di
libreria (quasi) universale. Malgrado le diffide di editori e scrittori
americani, il primo novembre ha ripreso il programma di digitalizzazione
dei volumi delle biblioteche pubbliche di New York, Stanford, Harvard,
Michigan e Oxford. I primi volumi messi in rete sono fuori diritto
d'autore, come i romanzi di Henry James, o le storie della Guerra Civile
americana.

Il sistema escogitato dovrebbe essere molto apprezzato dagli editori, I
quali invece lo stanno trascinando in tribunale. Oltre a tutto protegge il
copyright, laddove esso sia in vigore. In sostanza funziona così: Google
trasforma le pagine di stampa in archivi digitali e li indicizza, parola
per parola, come già fa per i siti web. Andando sul sito
http://www.print.google.com/ si trova la consueta maschera di ricerca e
immettendo una frase si ottiene come risposta un elenco di libri che li
contengono e un breve estratto (diritto di citazione) del periodo in cui
quella frase compare. Ognuno di loro può essere acquistato online, dato che
la pagina di risposta contiene anche i link ai servizi di vendita di
Amazon, Barnes and Noble eccetera. Se il copyright è scaduto sarà invece
possibile leggerlo tutto, sia pure con un sistema per ora abbastanza
macchinoso.

E' un progetto in fondo moderato, rispetto al sogno dichiarato dei due
fondatori di Google di indicizzare tutto il sapere umano. E comunque sulle
pagine del Washington Times ha ricevuto nei giorni scorsi un attacco
violentissimo: «la posizione di Google si traduce essenzialmente in una
licenza di rubare». I due autori dell'editoriale sono entrambi degli autori
di libri e uno dei due, Pat Schroeder, è il presidente dell'Associazione
Americana degli Editori.

E' un tipico fuoco di sbarramento, analogo a quello alzato a suo tempo
dalle case musicali e da quelle cinematografiche. La novità è che ora la
digitalizzazione investe anche il mondo dell'editoria il quale se possibile
è ancora più chiuso e retrogrado di quello della musica.

Gli editori finora hanno potuto controllare l'intera filiera: scelta dei
titoli e degli autori, editing dei libri (spesso fatto malamente), stampa,
distribuzione e infine promozione. Il loro elemento di forza è consistito
storicamente negli anelli centrali della catena: hanno le rotative e la
distribuzione e perciò chi voglia pubblicare deve passare da loro.

Quel controllo consente loro di gestire in pratica per l'eternità (70 anni
dalla morte dell'autore) i diritti di copia e di decidere cosa ristampare e
cosa no. Il risultato finale è che milioni di libri sono irreperibili
perché i loro editori hanno deciso che andassero al macero e soprattutto di
non ristamparli. E non parliamo di libri di spazzatura, ma di romanzi e
saggi di valore.

Il commercio digitale nel frattempo ha evidenziato un fenomeno nuovo: non
soltanto con i bestseller si può fare soldi (pochi titoli venduti in
milioni di copie), ma grazie ai sistemi online, si può incassare molto
anche vendendo poche copie, ma di migliaia di titoli diversi. Si può
guadagnare anche nelle nicchie, se sono tante: diecimila titoli di ognuno
dei quali si vendano 10 copie, sono l'equivalente di un titolo da 100 mila.

La libreria online Amazon.com ha già dimostrato che ciò funziona, sia pure
caricandosi di immensi magazzini fisici dove ospitare milioni di libri
diversi. Ma funzionerà ancora di più se i libri sono digitalizzati e
depositati sui computer degli editori, di Google, di Amazon o di chi voglia
farlo. Il costo di carta e magazzino è pressoché nullo. E per chi voglia
godere la fisicità della carta già esistono stampanti meravigliose che
possono produrre a richiesta la singola copia, e persino rilegarla. E' il
print on demand.