riforma degli ammortizzatori sociali




da lavoceinfo.it 09-05-2005
Sognando coi piedi per terra
Tito Boeri

I conti pubblici vanno male. Saranno in condizioni ancora peggiori dopo le
elezioni del 2006, anche se questo Governo non dovesse varare altri
provvedimenti elettorali. Da qui ad allora la procedura per deficit
eccessivo sarà stata avviata nei confronti del nostro paese, esponendoci
ancor di più al rischio di un aumento degli oneri sul debito pubblico.
Questo è un rischio più forte ora che la Commissione abbaia, ma non morde,
dato che il Patto di Stabilità e crescita è stato depotenziato dai Governi
dell'Unione.
Gli elettori, dopo cinque anni vissuti all'insegna di annunci mirabolanti
poi disattesi, sembrano più smaliziati che in passato. Non credono più ai
miracoli. Intuiscono che, per attuare i molti progetti di spesa che si
formulano in occasione delle campagne elettorali, il Governo che verrà
dovrà aumentare le tasse. Cosa di cui, ce lo dicono i sondaggi, proprio non
vogliono sentir parlare.
I sogni nel cassetto. Proprio tutti?
Meglio allora mettere molti sogni nel cassetto. Tutti, tranne uno, troppo
importante per essere accantonato: la riforma degli ammortizzatori sociali.
I provvedimenti appena inseriti dal Governo nel pacchetto competitività -
come sottolinea Maurizio Ferrera  - sono uno specchietto per allodole.
Allungano la durata dei sussidi di disoccupazione ordinaria di un solo mese
(fino a sette mesi per chi ha meno di 50 anni; dieci per chi ne ha più di
50) per chi non ha carriere discontinue, dunque escludono proprio i
lavoratori che ne avrebbero maggiore bisogno. Nel mese di proroga del
sussidio non è previsto il pagamento dei cosiddetti "oneri figurativi",
vale a dire i contributi previdenziali, il che tra l'altro complica
tantissimo la gestione del sussidio e delle future pensioni. Come sempre,
ci si disinteressa dei costi amministrativi di queste non-riforme. Tra le
righe si introduce un tetto massimo di fruizione del sussidio di 24 mesi in
cinque anni. Infine, l'intervento ha durata biennale. Se si vorrà
estenderlo nel tempo, bisognerà trovare adeguata copertura.
La riforma degli ammortizzatori è strategica per fare uscire il nostro
paese dal declino. Risponde alla domanda di protezione che si legge dietro
al diffuso senso di impoverimento degli italiani - al disagio di chi non ha
strumenti per assicurarsi contro la crescente variabilità dei propri
redditi. Permette di ridurre i costi sociali del cambiamento strutturale
necessario per rilanciare la nostra economia. Può stimolare maggiore
partecipazione al mercato del lavoro ed emersione di sommerso, come
ricordano Leonardi e Nunziata : un lavoro regolare è l'unico modo per poter
domani beneficiare del sussidio nel caso in cui le cose andassero male.
Infine, risponde a ragioni di equità: solo in Italia esistono disoccupati
di serie A (i lavoratori delle grandi imprese industriali che hanno accesso
al circuito cassa integrazione - liste di mobilità che poi sfociano spesso
nel pensionamento anticipato) e disoccupati di serie B (i lavoratori delle
piccole imprese e dei servizi che hanno accesso unicamente ai "sussidi
ordinari di disoccupazione").
Una riforma che costa. Come finanziarla?
Ma una seria riforma costa. Portare la durata massima dei sussidi ordinari
a due anni, garantendo inizialmente un reddito pari al 65 per cento del
salario precedente, costa circa 3 miliardi e mezzo di euro. L'introduzione
di un reddito minimo garantito per chi non trovasse lavoro entro questi due
anni o finisse al di sotto della soglia di povertà (anche lavorando)
costerebbe altri 9 miliardi. Quindi, si tratta di circa un punto di Pil.
Come reperire queste risorse? Diverse le strade da seguire.
La prima è quella della riforma degli incentivi all'occupazione, in cui ci
sono molti sprechi da eliminare. L'Italia è l'unico paese Ocse che spende
di più in politiche attive (cui destiniamo più di mezzo punto di Pil) che
in politiche cosiddette passive, vale a dire sussidi disoccupazione. Non è
dato sapere nulla sull'efficacia di molti corsi di formazione (in Italia
queste misure non vengono valutate), ma è legittimo nutrire molti dubbi
sull'utilità di corsi di formazione impartiti in aree depresse, dove non ci
sono poi lavori in cui utilizzare le competenze acquisite. Altre misure,
come i bonus per l'occupazione al Sud (altro 0,2 per cento di Pil), sono
state rese inefficaci in questa legislatura quando si è deciso di renderle
discrezionali, condizionandole al rispetto di limiti di spesa prestabiliti
e dando priorità a chi aveva già presentato le domande negli anni
precedenti. I datori di lavoro non sapevano se avrebbero poi potuto contare
sul sussidio, quindi il risultato è che si sono finanziate solo le imprese
che avrebbero comunque assunto lavoratori. Stesso destino è toccato a molti
altri strumenti di incentivazione, dalla 488 ai patti territoriali.
Incentivi che non danno certezze a chi ne fa domanda, sono peggio di nessun
incentivo, perché spiazzano altre spese più meritorie e alimentano sfiducia
nello Stato. Un'altra parte della riforma dei sussidi di disoccupazione
potrebbe essere finanziata introducendo meccanismi di experience-rating,
del tipo di quelle già vigenti per la Cassa integrazione, per cui le
imprese che licenziano lavoratori (anche in contratti atipici) devono
contribuire più delle altre al pagamento del sussidio.  Partendo da livelli
di spesa corrente superiori ai 500 miliardi di euro (utile ricordarlo
perché troppe volte si ragiona solo sui saldi), è senz'altro possibile
finanziare la riforma degli ammortizzatori destinandole prioritariamente
ogni taglio di sprechi. Basta volerlo fare. Chi oggi si oppone alla riforma
non lo fa perché non ci sono i soldi, ma perché ha in mente altre priorità:
preferisce dare più risorse alle Regioni che saranno decisive nella
prossima tornata elettorale oppure ai dipendenti pubblici o a qualche
grande impresa in crisi, piuttosto che finanziare misure universali di
contrasto alla povertà, basate su regole uguali per tutti.

Il problema del sommerso
C'è un'obiezione più seria all'introduzione di strumenti come un reddito
minimo garantito. Si basa sul riscontro degli alti tassi di evasione
fiscale nelle Regioni in cui oggi la povertà è concentrata. Questo può
permettere a non poche famiglie di fruire del sussidio anche quando non
sono povere.
È un problema che non va sottovalutato. Ma è possibile accertare il grado
di bisogno degli individui anche a prescindere dalle dichiarazioni dei
redditi. Ci vogliono, certo, controlli serrati e bisogna essere pronti a
rimuovere il sussidio non appena si accertasse che il beneficiario non è
più al di sotto della linea di povertà. Come ci raccontano Baldi e
Berardinelli , i comuni che hanno svolto questi controlli sono riusciti a
gestire bene strumenti come il reddito minimo di inserimento, raggiungendo
i più poveri e stimolandoli a uscire, ove possibile, dalle condizioni di
indigenza. Molte amministrazioni, specie al Sud, non sono oggi altrettanto
efficaci di quelle di Genova e Rovigo. Dovranno divenirlo. Il principio
deve essere proprio quello di estendere il raggio di applicazione del
reddito minimo garantito solo ai comuni che si dimostrano in grado di
attuare questi controlli e in cui si riscontrano progressi sensibili nella
lotta all'evasione.

Impegni realistici perché condizionati
Sarà proprio l'efficacia nella lotta al sommerso a dettare i tempi anche di
altre riforme "a costo non-zero". L'eredità lasciataci dal fiscalista
Tremonti nel rapporto fra fisco e contribuente è pesante. Ma gli italiani
sembrano essersi resi conto del fatto che l'evasione è in gran parte dovuta
ai condoni che hanno fortemente migliorato la posizione relativa dei
lavoratori autonomi rispetto ai lavoratori dipendenti. Il fallimento della
lotta al sommerso in questa legislatura non ha stupito (le misure
introdotte sembravano fatte apposta per risultare inefficaci come rilevato
su questo sito all'atto della loro introduzione) e non deve scoraggiare
altri tentativi, meglio strutturati e più credibili (come si fa a credere
nelle intenzioni di contrastare il sommerso di chi trova condoni per tutti
e di più?). Non sarebbe serio varare provvedimenti contando sulle entrate
dalla lotta al sommerso. Sono troppo aleatorie nell'entità e nei tempi in
cui si manifestano. Ma si possono prendere impegni condizionati: per
esempio, ogni euro in più recuperato nell'ampliamento della base imponibile
verrà destinato a ridurre le imposte sui redditi, in un disegno di graduale
(ma realistica) riduzione delle tasse, a parità di pressione fiscale.
Saranno poi la crescita economica e i piani di convergenza a determinare di
quanto potrà ridursi la stessa pressione fiscale, sapendo che ogni punto di
crescita del prodotto comporta circa uno 0,25 per cento di miglioramento
del disavanzo. Anche su questo piano è possibile prendere con gli elettori
impegni condizionati all'andamento dell'economia.
Vuol dire sognare stando saldamente coi piedi per terra.