impronta ecologica una nuova lettura dell'imptto sull'ambiente



L'impronta ecologica

come ridurre l'impatto dell'uomo sulla terra
Mathis Wackernagel, William E. Rees
a cura di Gianfranco Bologna, Paolo Lombardi

L'impronta ecologica: un indicatore per la sostenibilità


L'Impronta Ecologica è uscito per la prima volta in Canada nel 1996 e nello
stesso anno è stata pubblicata l'edizione italiana. Il volume viene qui
ripubblicato nella versione originale.
Per fornire dati aggiornati e importanti novità metodologiche, a premessa
del volume è riportato uno stralcio da Living Planet Report 2004 (WWF
International). Lo stralcio riprende i dati relativi all'Impronta Ecologica
di 148 nazioni.

L'Impronta Ecologica è diventato ormai un classico e la teoria proposta nel
1996 da Wackernagel e Rees ha avuto una concreta e diffusa applicazione.
Ma la vera specificità è la proposta metodologica: rileggere il bilancio
ecologico (locale, regionale, globale) ribaltando l'approccio tradizionale
alla sostenibilità. Non più calcolare quanto "carico umano" può sorreggere
un habitat definito, bensì quanto territorio (terra e acqua) è necessario
per un definito carico umano, cioè per reggere l'"impronta ecologica" che
una determinata popolazione imprime sulla biosfera. Perché capire quanto si
pesa sulla bilancia del consorzio umano e naturale è il primo passo per
capire che scelte politiche e umane fare.

Mathis Wackernagel è Executive Director del Global Footprint Network, l'
organizzazione che coordina la ricerca e definisce gli standard metodologici
dell'Impronta Ecologica in tutto il mondo. è stato a lungo direttore del
Programma di sostenibilità di Redefining Progress (Oakland, CA).

William E. Rees è docente e direttore della School of Community and Regional
Planning della University of British Columbia (CA). Collabora al Global
Integrity Project della University of British Columbia, a Vancouver
(Canada).

Impronta ecologica: un indicatore per la sostenibilità

Quando, nel 1996, seppi della pubblicazione di questo affascinante testo sul
concetto e sul metodo dell'impronta ecologica, mi diedi subito da fare per
realizzarne un'edizione italiana.
Da allora l'Impronta Ecologica e la sua applicazione, come indicatore
integrato di sostenibilità, hanno avuto uno sviluppo straordinario e
un'amplissima diffusione in tutto il mondo. Inoltre questo libro di Mathis
Wackernagel e William Rees è anche un testo estremamente interessante per le
riflessioni sul concetto di sostenibilità, attorno al quale ruota la
possibilità di realizzare una nuova economia che ci consenta di risolvere i
gravi problemi che noi stessi abbiamo creato, e già soltanto per questo
andrebbe caldamente raccomandato a chiunque abbia a cuore il proprio futuro
e quello delle future generazioni.
Oggi il dibattito più avanzato in merito, cui ha contribuito anche il
dibattito sull'Impronta Ecologica, sta facendo maturare una "Sustainability
Science", una scienza della sostenibilità. Non si tratta di un'autonoma
disciplina scientifica con chiare componenti concettuali e teoriche, ma di
una vera e propria convergenza transdisciplinare di riflessioni e ricerche
derivanti da discipline diverse che cercano di analizzare le interazioni
dinamiche esistenti tra i sistemi naturali e quelli sociali e di esplorare i
modi migliori per gestirle (si veda Bologna, 2004, ICSU, 2002 e Aa.Vv.,
2003).
Da tempo uno degli scopi principali dell'ecologia è quello di analizzare il
flusso di energia e di materia attraverso gli organismi e il loro ambiente,
tema che ha visto nei fratelli Eugene e Howard Odum (purtroppo entrambi
scomparsi nel 2002) due grandi maestri. Questo ambito di ricerche si è ormai
esteso al flusso di energia e di materia che attraversa i sistemi
artificiali creati dalla nostra specie e cioè i sistemi tecnologici,
industriali, economici ecc.
Infatti il focus dello sviluppo sostenibile viene sempre più concentrato
sull'intero "metabolismo" dei sistemi sociali rispetto a quelli naturali.
Per intervenire efficacemente nel modificare gli attuali modelli di sviluppo
e i conseguenti pattern di produzione e consumo, rendendoli più sostenibili,
è quindi necessario comprendere a fondo la dimensione biofisica dei nostri
sistemi socio-economici.
Oggetto di grande interesse è perciò il flusso di materia ed energia che
preleviamo dai sistemi naturali, trasformiamo e utilizziamo e dal quale
produciamo scarti e rifiuti (molti dei quali non "metabolizzabili" dai
sistemi naturali).
Una grande quantità di ricerche sono state così stimolate nell'ambito di
quel campo di indagine che è stato definito "metabolismo industriale"
oppure, in maniera più ampia, "metabolismo della società".
Se consideriamo a livello globale i flussi di materiali causati dalle
società umane, essi si presentano di dimensioni paragonabili o persino
superiori a quelli che hanno luogo nei sistemi naturali. Conseguentemente i
flussi provocati dalla specie umana comportano modificazioni importanti
nella stessa composizione fisica della superficie terrestre, nella struttura
e nelle funzioni degli ecosistemi, dei cicli biogeochimici e, persino, della
composizione dell'atmosfera (come sta avvenendo per la quantità di carbonio
in essa presente).
Non vi è più dubbio che, per avviare percorsi di sostenibilità dello
sviluppo, sia perciò necessario ridurre i flussi di materia ed energia
indotti dalla produzione e dal consumo delle società umane.
In campo internazionale si sta consolidando una metodologia di calcolo di
quello che viene definito MFA (Material Flow Accounting), cioè la
contabilità dei flussi materiali, nonché di quello che viene definito EFA
(Energy Flow Accounting), ovvero la contabilità dei flussi energetici, con
un ragionevole livello di standardizzazione condiviso .
Queste analisi dei flussi vengono oggi indicate con il termine complessivo
di MEFA (Material and Energy Flows Analysis).
I MEFA possono costituire un "ponte" importante che collega le attività
umane agli impatti sull'ambiente e sono stati appunto sviluppati come
strumenti per descrivere e monitorare in maniera sistematica il metabolismo

delle nostre società industriali.
Per questo la conoscenza delle quantità dei materiali e dei flussi di
energia che sono elementi fondamentali dell'economia di ogni paese
rappresenta una base fondamentale per ogni politica di sostenibilità. La
misura complessiva di questi flussi fornisce informazioni su quanto il paese
considerato contribuisce ai cambiamenti globali dei sistemi naturali e
sull'evoluzione di tale contributo nel tempo.
I rinnovati slanci delle ricerche sui flussi energetici negli ecosistemi
registrano anche, dalla seconda metà degli anni Novanta, una notevolissima
mole di iniziative scientifiche internazionali coordinata da studiosi
italiani: si tratta dei Workshop internazionali intitolati "Advances Studies
in Energy", coordinati da Sergio Ulgiati dell'Università di Siena. Sono già
state già realizzate quattro edizioni di questi incontri, con la
partecipazione dei più grandi esperti internazionali legati al campo
energetico .
Inoltre stanno ulteriormente avanzando le ricerche che valutano la
cosiddetta "Human Appropriation of Net Primary Production (HANPP)", cioè la
sottrazione da parte delle attività umane della produttività primaria netta,
di quanto, cioè, sottraiamo all'energia che giunge sul nostro pianeta e che,
trasformata in materia organica dai processi di chemiosintesi (e,
soprattutto, di fotosintesi) dovrebbe restare a disposizione di tutti gli
esseri viventi sulla Terra.
Si tratta di un ulteriore indicatore che, dagli studi sin qui realizzati, ci
sta dimostrando significative preoccupazioni per il sempre crescente ruolo
dell'intervento umano nei sistemi naturali .
In questo affascinante quadro di ricerche e di proposte operative il
concetto e il metodo dell'Impronta Ecologica, con la sua forte valenza
educativa e di comunicazione, ha dato vita un ampio dibattito internazionale
che tocca tutti gli aspetti relativi alla concezione di "sviluppo
sostenibile" (terminologia ormai così abusata e svuotata di significati
pregnanti nella politica e nell'economia e che invece sta facendo grandi
passi in avanti nel campo scientifico, proprio con la Sustainability
Science) e a che cosa si debba intendere per indicatore di sostenibilità.
Mi è sembrato perciò logico, d'accordo con l'editore di render conto al
lettore,
in maniera molto riassuntiva, di ciò che è avvenuto relativamente agli
sviluppi
e alla diffusione del metodo dell'Impronta Ecologica in questi anni
trascorsi
dalla pubblicazione del testo originale.
L'Impronta Ecologica &endash; come ha ribadito l'originatore del concetto,
l'ecologo William Rees (2000) &endash; può essere definita come l'area
totale degli ecosistemi terrestri e acquatici richiesta per produrre le
risorse che la popolazione umana consuma e assimilare i rifiuti che la
popolazione stessa produce.
Oggi il metodo, oltre alla diffusione di carattere educativo e maieutico, ha
avuto anche importanti conferme scientifiche,
Il Living Planet Report è stata la prima pubblicazione in cui sono stati
presentati il calcolo delle impronte ecologiche di tutti i paesi del mondo e
l'analisi dell'evoluzione dell'impronta ecologica dagli anni Sessanta a
oggi, con le eventuali previsioni degli andamenti per il futuro,
relativamente a questo secolo.
In occasione del convegno a Rio de Janeiro dedicato a riflettere sul lavoro
svolto nei cinque anni successivi al grande Summit della Terra, tenutosi
proprio a Rio nel giugno 1992 (la conferenza delle Nazioni Unite su Ambiente
e Sviluppo), Wackernagel aveva predisposto con sei collaboratori un ampio
lavoro dedicato al calcolo delle impronte ecologiche di 52 paesi del mondo
che ospitano globalmente l'80% della popolazione mondiale e rappresentano il
95 % del prodotto interno mondiale.
In questo lavoro (Wackernagel et al., 1997) si legge: "Alla conclusione del
Vertice sulla Terra tenutosi a Rio de Janeiro nel 1992, l'umanità si trovava
di fronte alla sfida obbligata di dover diminuire il proprio impatto sul
pianeta. A cinque anni di distanza viviamo in un mondo sempre più in
pericolo, con una popolazione più numerosa, maggiori consumi, più rifiuti e
povertà, ma con una minore biodiversità, meno foreste, meno acqua potabile
da utilizzare, meno suolo e un'ulteriore riduzione dell'ozono nella
stratosfera. Siamo tutti consapevoli di essere ben lontani dalla
sostenibilità. Ma quanto lontani? Se non siamo in grado di misurare, non
abbiamo alcuna possibilità di agire. Per fare della sostenibilità una
realtà, dobbiamo sapere dove siamo ora e quanto lontano si deve andare;
dobbiamo cioè misurare quanto è lunga la strada verso il progresso. La buona
notizia è che dopo il vertice di Rio questi strumenti di misurazione
essenziali per le istituzioni, le aziende e le organizzazioni di
base hanno compiuto progressi sostanziali."
(.)
Il lavoro sul calcolo delle impronte ecologiche si è quindi diffuso in
numerosi paesi.
Grazie alla pubblicazione dell'edizione italiana del libro sull'Impronta
Ecologica nell'ottobre 1996, anche nel nostro paese sono state avviate le
prime
ricerche per realizzare calcoli di impronte ecologiche di regioni, province
e città. Il WWF è stato protagonista della diffusione del concetto e del
metodo, che è stato applicato in diverse situazioni territoriali con
l'appoggio dei ricercatori del Cras (Centro Ricerche Applicate per lo
Sviluppo Sostenibile).
Dapprima sono stati pubblicati i risultati sperimentali dell'impronta
ecologica di tre piccole città: Isernia, con un'impronta ecologica di 2,09
ettari pro capite, Orvieto con 2,25 ettari pro capite e Legnago con 2,34
ettari pro capite (escludendo il dato relativo al consumo di pesce)
Nel 2000 sono poi stati resi noti i rapporti che WWF e Cras hanno realizzato
per calcolare l'impronta ecologica della Regione Liguria, che risulta essere
di 3,64 ettari pro capite, di Cosenza  3,99 ettari pro capite
e di Siena, con 4,09 ettari pro capite .
È evidente che tutti questi dati, insieme ad altri calcoli realizzati
dall'Istituto di Ricerche Ambiente Italia e da altre strutture di ricerca o
enti locali, si sono diffusi in un periodo nel quale le metodologie di
calcolo soffrivano ancora di significative e periodiche rivisitazioni.
Tra gli ultimi calcoli resi noti è necessario ricordare il calcolo che il
Ministero dell'Ambiente e della tutela del territorio (Direzione generale
per la ricerca ambientale e lo sviluppo) ha chiesto al WWF Italia di
realizzare per le sei regioni Obiettivo 1 (Campania, Basilicata, Calabria,
Puglia, Sicilia e Sardegna) del Quadro Comunitario di Sostegno dell'Unione
Europea (i cosiddetti "fondi strutturali"). I risultati, consegnati al
Ministero prima del vertice di Johannesburg e resi noti quest'anno, hanno
fornito i seguenti dati (impronta ecologica, biocapacità ed eventuale
deficit o surplus):
Campania: 3,56; 0,82; 2,74;
Basilicata: 3,41; 5,49; 2,09;
Calabria: 3,69; 2,35; 1,33;
Puglia: 3,45; 1,83; 1,63;
Sardegna: 3,66; 4,11; 0,45;
Sicilia: 3,37; 1,90; 1,47 (WWF e Ministero dell'Ambiente, 2004).
(.)
Molti studiosi convergono sull'importanza dell'impronta come metodo per
accrescere la consapevolezza dell'opinione pubblica del nostro impatto sulla
natura e della nostra dipendenza da essa.
Un altro famoso economista ambientale, Hans Opschoor (2000)
originatore del concetto di "spazio ambientale" che ha dato il via a
numerosi studi nazionali tra cui quelli, famosissimi, della Germania e
dell'Europa, entrambi realizzati dal Wuppertal Institut ha
consigliato il ministero olandese dell'ambiente di non utilizzare l'impronta
come indicatore di sostenibilità, non ritenendolo in grado di rendere
realmente conto dello stato di sostenibilità di un dato paese, territorio,
comune ecc.
Lo studioso D.J. Rapport (2000) ritiene invece debole l'impronta perché non
dà conto del fatto che le attività umane hanno condotto alla degradazione
molti ecosistemi trasformando stati di salute in stati patologici, con il
risultato di compromettere l'attività economica, la salute umana e il
benessere delle comunità.
Sono invece necessari degli assessment della salute degli ecosistemi, che
richiedono l'analisi dei meccanismi con cui le attività umane degradano gli
ecosistemi, delle conseguenze di tali degradi nella capacità di far fronte
al mantenimento dei servizi offerti dalla natura e degli impatti della
perdita dei servizi della natura sulla salute umana, le opportunità
economiche e il benessere delle comunità.
Wackernagel e Silverstein (2000) ricordano che attualmente nessun governo e
nessuna agenzia ONU attua un sistema di contabilità sistematico per valutare
qual è l'estensione dell'utilizzo umano della natura rispetto alla capacità
degli ecosistemi.
L'impronta ecologica è uno degli strumenti più comprensibili che vanno nella
direzione di tenere in debito conto le risorse.
Il metodo ha senza dubbio il grande merito di aver suscitato analisi, studi,
ricerche e riflessioni per precisare meglio cosa sia la sostenibilità del
nostro sviluppo e come la si possa misurare meglio, e ci ha consentito di
avere uno strumento facilmente comunicabile, per comprendere l'entità del
nostro impatto sulla natura.
( di Gianfranco Bologna )

L'Impronta Ecologica

L'Impronta Ecologica misura il consumo delle risorse naturali da parte degli
uomini e viene paragonata alla capacità della natura di rinnovare queste
risorse.
L'Impronta di un paese è l'area totale richiesta per:
. produrre gli alimenti e i materiali fibrosi che consuma;
. assorbire i rifiuti dell'energia che consuma;
. fornire lo spazio per le infrastrutture.
Le diverse popolazioni consumano risorse e servizi ecologici che arrivano da
tutto il mondo, quindi la loro impronta è pari alla somma di queste aree,
ovunque si trovino nel pianeta.
Nel 2001 l'Impronta Ecologica globale era di 13,5 miliardi di ettari
globali, pari a 2,2 ettari globali pro capite (un ettaro globale è quello
con produttività pari alla media globale). La domanda che viene posta alla
natura viene messa a confronto con la biocapacità della Terra, basata sulla
sua area produttiva - approssimativamente 11,3 miliardi di ettari globali,
cioè un quarto della superficie del pianeta. Nel 2001, l'area produttiva
della biosfera era di 1,8 ettari globali pro capite.
L'impronta globale cambia in rapporto alla dimensione della popolazione, ai
consumi medi pro capite e alla efficienza delle risorse. La biocapacità
della Terra varia in rapporto all'area biologicamente produttiva e alla
relativa produttività media.
Nel 2001, l'Impronta Ecologica superava la biocapacità globale di 0,4 ettari
globali pro capite, cioè del 21%. Questo sovrasfruttamento globale ha
iniziato a manifestarsi negli anni '80, e da allora è sempre andato
aumentando. In pratica il sovrasfruttamento significa che spendiamo il
capitale della natura più velocemente di quanto non si rigeneri. Il
sovrasfruttamento rischia di ridurre permanentemente la capacità ecologica.

L'Impronta di alimenti, materiali fibrosi e legno

L'impronta di alimenti, materiali fibrosi e legno di un paese è espressa
dall'area necessaria a soddisfare i consumi di:
a) terreni agricoli che danno i raccolti per l'alimentazione umana e i
mangimi animali, i materiali fibrosi e gli oli;
b) terreni a pascolo per bestiame da carne, latte e lana;
c) aree di pesca per le forniture di pesce e altri prodotti marini;
d) aree forestali che forniscono legno, fibra e polpa di legno (le foreste
necessarie ai consumi di legna da ardere e all'assorbimento dell'anidride
carbonica - CO2 - sono calcolate nell'Impronta dell'energia).
Quando variano gli utilizzi umani degli ecosistemi, cambiano anche le
dimensioni di ognuna di queste aree. Ad esempio, ciò avviene se le foreste
tropicali sono trasformate in terreni agricoli e da pascolo. Nell'Asia
sudorientale, in America latina e in Africa le foreste naturali vengono
trasformate in piantagioni per sopperire alle crescenti richieste di olio di
palma, dolci, saponi e cosmetici. Altrove, larghe estensioni di terreni
agricoli irrigati stanno diventando improduttivi a causa della penuria
idrica e della salinizzazione dei suoli.
L'impronta di alimenti, materiali fibrosi e legno di un cittadino
nordamericano medio era, nel 2001, di 3 ettari globali, più di tre volte la
media mondiale; quella di un medio africano o asiatico era inferiore a 0,7
ettari globali.
La domanda di prodotti animali sta crescendo a un ritmo particolarmente
rapido, come si vede dall'aumento delle aree dedicate a pascolo. Anche una
notevole quota di raccolti viene dedicata ai mangimi animali, con una
perdita secca di calorie disponibili (giacché, ad esempio, un kg di carne di
maiale nutrito a cereali ha una impronta quattro volte superiore a quella di
un kg degli stessi cereali).
L'Impronta dell'energia
L'Impronta dell'energia di un paese è calcolata come l'area necessaria a
fornire - o ad assorbire - i rifiuti di:
. combustibili fossili (carbone, petrolio, gas naturale),
. legna da ardere,
. energia nucleare,
. energia idroelettrica.
L'impronta dei combustibili fossili viene calcolata come l'area necessaria a
sequestrare la corrispondente CO2; quella della legna da ardere come l'area
necessaria alla ricrescita degli alberi corrispondenti al consumo di legna.
L'impronta dell'energia nucleare (circa il 4% dell'uso energetico globale),
poiché questa non genera CO2, viene calcolata come l'area necessaria ad
assorbire l'equivalente in CO2 dell'energia usata. Non viene calcolata
impronta per l'energia solare e eolica, giacché è assolutamente trascurabile
(le infrastrutture sono già calcolate nell'area edificata).
Le impronte nazionali sono calcolate in modo da riflettere l'energia
incorporata nei prodotti commercializzati. L'energia utilizzata per una
merce prodotta in un paese e consumata in un altro viene sottratta dall'
impronta del paese produttore e sommata all'impronta del paese consumatore.
L'Impronta dell'energia è quella che mostra la più ampia disparità pro
capite tra i paesi ad alto e a basso reddito. Ciò è dovuto in parte al fatto
che la gente non può mangiare più di tanto, mentre l'uso di energia è
condizionato solo dalle possibilità economiche del consumatore.

L'Impronta del territorio costruito
L'area necessaria a ospitare le infrastrutture abitative, di trasporto, di
produzione industriale ed elettrica occupa una notevole porzione dell'area
produttiva del mondo.
Nel 2001 l'impronta del territorio costruito era di 0,44 miliardi di ettari,
ma l'accuratezza di questo calcolo è limitata dalle incertezze dei dati a
disposizione. Ad esempio: nelle aree urbane il verde viene distinto dal
cementificato? Come vengono conteggiati i percorsi stradali? Nemmeno le
immagini dei satelliti riescono a dare distinzioni accurate tra questi
diversi tipi di superficie.
Poiché le città storiche sono state fondate su aree agricole fertili, con
climi moderati e accesso all'acqua, l'Impronta Ecologica assume che il
territorio costruito occupi terreni equiparabili mediamente ad aree
coltivabili di media produttività. Ciò potrebbe sottostimare l'impronta, in
quanto molte città si estendono su terreni ad alta produttività. Ma il dato
si ribilancia, perché è vero anche il contrario, cioè molte città e
infrastrutture si estendono su terreni di bassa qualità.
La compattezza fisica delle infrastrutture influenza anche altre componenti
dell'Impronta Ecologica. Ad esempio, grandi costruzioni isolate richiedono
maggiori quantità di energia per uso domestico e maggior utilizzo delle
auto.

Prelievi d'acqua dolce
Meno dell'1% dell'acqua dolce mondiale è disponibile come risorsa
rinnovabile. Il resto è ingabbiato nei ghiacci, nelle falde fossili, o
comunque è inaccessibile o scarsamente accessibile. Si stima che più della
metà dell'acqua disponibile venga utilizzata dall'uomo.
Se l'utilizzo d'acqua eccede certe soglie percentuali delle risorse d'acqua
dolce rinnovabili (variabili secondo le condizioni ecologiche, ma indicate
dagli esperti tra il 20 e il 40%) gli ecosistemi sono a rischio. Molti paesi
superano già queste soglie e alcuni estraggono già più del 100% delle
risorse d'acqua rinnovabili, il che indica che stanno intaccando le acque
degli acquiferi fossili.
L'uso globale d'acqua è raddoppiato dal 1961 al 2001, con un aumento medio
annuo del 1,7%. L'utilizzo medio pro capite è stato, nel 2001, di 650 metri
cubi.
L'acqua è presa in esame solo indirettamente nei conteggi dell'Impronta
Ecologica. Sono invece direttamente conteggiati i consumi di energia
necessari a fornire e trattare l'acqua, nonché le aree destinate ai
serbatoi.

Grandi passi avanti

Siamo piacevolmente sorpresi di come l'Italia ha risposto all'Impronta
Ecologica. Quindici anni fa non avremmo neanche immaginato questa
possibilità. Allora eravamo emozionati dall'improvviso interesse suscitato a
livello globale dai temi della sostenibilità: il dibattito sull'ambiente,
sulla giustizia sociale e sullo sviluppo si sono velocemente estesi da
alcuni giornali marginali, sporadici libri accademici e piccole ONG alla
scena mondiale. Dal seme gettato dal Rapporto Brundtland del 1987 (Our
Common Future), alla Conferenza di Rio del 1992 - che riuniva il maggior
numero di capi di stato mai verificatori nella storia - la sostenibilità è
diventata un tema serio e pienamente riconosciuto.
Eravamo contemporaneamente preoccupati che il dibattito potesse mancare di
chiarezza e di obiettivi specifici. E in particolare che si perdesse l'
esplicito riconoscimento del fatto che viviamo su un solo pianeta e che
superare continuamente i limiti della carrying capacity non era né
ecologicamente possibile né socialmente auspicabile.
Abbiamo sviluppato l'Impronta Ecologica proprio per rendere misurabile la
semplice realtà dell'unico pianeta e mettere a disposizione questo concetto
nell'assunzione di decisioni a qualunque livello: acquisti familiari,
pianificazione urbana, politiche nazionale e governance globale.
L'Impronta Ecologica si pone una domanda disarmante (Quanta natura abbiamo a
disposizione e quanta ne usiamo?) e offre risposte di grande efficacia, che
hanno aiutato le collettività, le aziende e i governi a pianificare un
futuro coerente con la realtà di un piccolo pianeta.

Che cosa ha reso così efficace l'Impronta Ecologica? Essa utilizza metafore
di forte effetto e facili da capire, sostenute da analisi rigorosamente
scientifiche. La partnership con organizzazioni come il WWF, la BBC e Earth
Day ci ha aiutato a diffondere ampiamente il messaggio. Ciò ha dato il via a
interessanti dibattiti sul tema, spesso evitato, dei limiti ecologici e ha
fatto segnare un punto a favore della comprensione che il pianeta è uno solo
e che la sostenibilità dipende dal vivere nella consapevolezza che ci deve
bastare.
(.)
Sulla base di questi risultati, stiamo preparando un vero salto di qualità,
grazie alla creazione del Global Foorprint Netwwork
(www.footprintnetwork.org). Questa rete lavora con le proprie organizzazioni
partner per trasformare i successi in maggiore incisività a livello dei
governi locali, degli accademici, del mondo delle aziende e della società
civile. Per rendere i metodi dell'Impronta sempre più scientificamente
inattaccabili e politicamente utili è necessario infatti compattare la
comunità dell'Impronta, sviluppare gli standard applicativi, rafforzare la
voce comune e predisporre i meccanismi utili ad un continuo miglioramento
dello strumento.
A questo scopo bisogna garantire la pertinenza dei conteggi nazionali per i
calcoli dell'Impronta, che sono il motore di qualsiasi applicazione dell'
indicatore. Aiutando la comunità degli operatori a usare questi conti in
modo corretto si creano le premesse per renderli paragonabili tra loro, da
città a città, da cittadino a cittadino. E rendendoli più trasparenti e
particolareggiati, si favorirà la loro capacità di utilizzo da parte delle
agenzie di governo per meglio valutare i beni ecologici, i trend principali
e le performance di settore.
( di Mathis Wackernagel, William E. Rees )

Piccole impronte crescono

È ormai qualche anno che la Rete Lilliput, una delle realtà del movimento
"altermondialista", si è affiancata al WWF nella diffusione e nell'utilizzo
dell'Impronta Ecologica poiché, a nostro parere, essa rappresenta un
immediato e comprensibile indicatore dell'insostenibilità di questo sviluppo
economico e sociale.
Il cammino della Rete Lilliput prende avvio nel 1999 sulla spinta di un
"Manifesto di intenti" elaborato dal Tavolo delle Campagne, un gruppo di
coordinamento formato dalle principali Associazioni e Campagne nazionali a
carattere sociale.
Obiettivo della "strategia lillipuziana" è quello di cercare di bloccare il
gigante disumano del liberismo sfrenato servendosi di piccoli fili, piccole
azioni quotidiane, mirate e concrete, da intessere insieme.
All'interno di questa strategia è stato costituito un Gruppo di Lavoro
Tematico (GLT) sull'impronta ecologica e sociale, al fine di far interagire
e collaborare le miriadi di esperienze locali che nel nostro paese cercano
di combattere le disuguaglianze nel mondo e lo sfruttamento indiscriminato
delle risorse naturali.
Le forme della democrazia e della politica che tradizionalmente abbiamo
conosciuto fino a oggi risultano, così come sono, largamente inadeguate a
governare i processi di esclusione sociale, impoverimento, distruzione delle
risorse naturali.
La politica che governa oggi i nostri stati non sembra in grado di
comprendere interamente la portata di tali processi; e, non per qualche
perversa volontà ma perché gli strumenti che utilizza, i suoi codici di
interpretazione della realtà, risultano ormai in larga misura inadeguati a
progettare una prospettiva di futuro.
La coscienza della nuova cittadinanza, che sta crescendo, ha reagito con
nuove forme di partecipazione, assorbendo le passioni e le inquietudini del
cambiamento, naturale e sociale, che sta coinvolgendo il nostro pianeta.
Migliaia di associazioni in tutto il mondo si battono per riaffermare
diritti antichi e nuovi, con l'intelligenza di coloro che guardano al
proprio territorio in una prospettiva globale.
Cittadini e associazioni possono - in modo analogo a quello della favola I
viaggi di Gulliver - utilizzare le fonti di potere relativamente piccole di
cui dispongono e combinarle con quelle in possesso di altri movimenti in
altri luoghi.
Sappiamo che dobbiamo riscrivere le regole dell'economia, perché la ricerca
dell'equità fa cadere i presupposti di fondo su cui funziona questa economia
che ha come riferimento la globalizzazione e il neoliberismo. È una sfida
che si potrà vincere solo se saremo capaci di introdurre cambiamenti
profondi nel modo di gestire le risorse, di concepire il lavoro, di
organizzare la produzione, di contribuire ai servizi pubblici, di garantire
la sicurezza sociale: in una parola, potrà essere vinta solo se sapremo
costruire un'economia di giustizia, riducendo il nostro peso sulla Terra e
migliorando le condizioni sociali di tutti.
Le persone, gli attivisti, le associazioni, i gruppi che animano Rete
Lilliput credono che il cambiamento dell'attuale società, basato su un
sistema economico iniquo e che privilegia il profitto al rispetto della
dignità della persona, debba necessariamente passare dalla messa in
discussione dell'attuale stile di vita perpetuato dalla parte più ricca del
mondo a scapito della più povera. Per questo le campagne che Rete Lilliput
promuove e sostiene prevedono azioni che collocano al centro dell'interesse
i comportamenti quotidiani delle singole persone, naturalmente legati a
forme di pressione nonviolenta, verso obiettivi tangibili in grado di
influenzare il cambiamento.
Questo è lo stile di lavoro lillipuziano. Partire da noi stessi per
promuovere e dare impulso al cambiamento sostenibile della società; battersi
contro le principali storture del sistema ma anche cercare le alternative
eque e sostenibili a questo assetto economico che genera esclusioni,
ingiustizie e distruzione del pianeta.
I tratti fondamentali dell'alternativa che Rete Lilliput è impegnata a
costruire si basano sulla sobrietà, sulla riduzione dell'impronta ecologica
e sociale, sulla valorizzazione dell'economia locale e sul riconoscimento
che i bisogni fondamentali sono diritti da garantire a tutti gli abitanti
del pianeta Terra.
Rete Lilliput sta lavorando in questa prospettiva attraverso l'attività dei
nodi, dei gruppi di lavoro tematici e la promozione di campagne per:
. riaffermare la dignità del lavoro e la democrazia economica, costringendo
le multinazionali alla trasparenza e alla responsabilità sociale e
ambientale;
. l'annullamento del debito economico e il riconoscimento del debito
ecologico dei paesi del Nord verso quelli del Sud;
. ridurre la nostra impronta ecologica e sociale, proponendo un diverso modo
di consumare e sollecitando gli enti locali e le istituzioni alla
costruzione di filiere produttive alternative;
. la costruzione di una economia 'altra', rafforzando e sviluppando le
realtà di economia solidale attraverso la creazione di circuiti economici,
in cui le diverse realtà attive in Italia si sostengono a vicenda creando
insieme spazi di mercato finalizzato al benessere di tutti.
In particolare, l'obiettivo strategico di uno dei gruppi di lavoro tematici
in cui è organizzata l'attività di Rete Lilliput è quello di diffondere il
concetto di impronta ecologica e sociale per indurre i cittadini italiani a
modificare concretamente il loro stile di vita. Tale obiettivo viene
perseguito attraverso molteplici attività, in collegamento con le altre
realtà della Rete Lilliput e più in generale con chi si muove su questi temi
(istituzioni ed enti locali compresi).
Quest'anno, sempre a uso e consumo dei lillipuziani e dei soggetti
interessati, il gruppo di lavoro "impronta ecologica e sociale" ha messo a
punto una semplificazione del calcolo dell'impronta ecologica personale e
dell'efficienza energetica della propria casa, con la finalità di rendere
più amichevoli, e quindi di più facile accesso, i complessi fogli di calcolo
originali. Entrambe le metodologie di calcolo sono scaricabili dal sito di
Rete Lilliput (www.retelilliput.net/Gruppi/GLTIES).
Oltre che il nome di un gruppo di lavoro, l'impronta ecologica è anche
argomento di una delle Campagne su cui in questi anni si è strutturata l'
attività della Rete, dal titolo "Riduciamo la nostra impronta".
L'obiettivo di questa campagna è quello di portare sul terreno pratico della
proposta il lavoro fatto sull'impronta ecologica. È arrivata l'ora di dare
risposte tecniche e comportamentali sulla costruzione del 'mondo diverso che
vogliamo', nella convinzione che l'impronta ecologica sia un indicatore di
sostenibilità da cui partire per proporre interventi in più campi: dal
consumo critico al risparmio energetico, all'acqua come bene comune, e più
in generale a reti di economia solidale. Infatti le altre Campagne promosse
dal GLT "impronta ecologica e sociale" di Rete Lilliput, insieme ai nodi
locali e a singoli e associazioni vicine, sono: "Distretti di economia
solidale", un percorso da tracciare verso un'economia 'altra';
"Kyotopocomakyoto", ovvero come possiamo dare il nostro contributo al
rispetto degli impegni presi a Kyoto, prendendo coscienza dei consumi
energetici e delle conseguenze delle nostre abitudini sul cambiamento
climatico; "Acqua: conoscenza e riappropriazione del proprio territorio",
ovvero acqua bene comune, tutela delle acque e del territorio,
coinvolgimento della gente nella gestione pubblica.
( Gabriele Bollini)

Che cos'è l'Impronta Ecologica?

L'analisi dell'Impronta Ecologica è uno strumento di calcolo che ci permette
di stimare il consumo di risorse e la richiesta di assimilazione di rifiuti
da parte di una determinata popolazione umana o di una certa economia e di
esprimere queste grandezze in termini di superficie di territorio produttivo
corrispondente. Con questo strumento cerchiamo di dare risposta ad alcune
domande tipiche, come ad esempio: quanto la popolazione considerata dipende
dall'importazione di risorse da "altrove" e dalla capacità di assorbimento
di rifiuti dei "sistemi ecologici comuni"? Nel prossimo secolo la
produttività della natura sarà sufficiente per soddisfare le crescenti
aspettative materiali di una popolazione umana in aumento? Il concetto base
dell'Impronta Ecologica - insegnato da vent'anni nei corsi di pianificazione
da William Rees - è stato sviluppato a partire dal 1990 da Mathis
Wackernagel e altri studenti che lavorano con Rees nella Healthy and
Sustainable Communities Task Force della University of British Columbia.
Per spiegare l'idea alla base dell'analisi dell'Impronta Ecologica,
esaminiamo come la nostra società percepisce "la città", l'apice stesso
delle realizzazioni umane. Se chiediamo alla gente una definizione, per lo
più sentiremo parlare di una popolazione molto concentrata, oppure di un'
area dominata dalla presenza di edifici, strade e altri manufatti di origine
umana (è quello che un architetto definisce "ambiente urbanizzato"). Alcuni
faranno riferimento alla città come a un'entità politica dotata di un
confine definito che delinea l'area entro la quale l'amministrazione
municipale esercita la propria giurisdizione. Altri ancora vedranno la città
soprattutto come una concentrazione di quei servizi culturali, sociali ed
educativi che, semplicemente, non sarebbero possibili in un insediamento più
piccolo. Infine, chi ragiona in termini economici descriverà la città come
un nodo di intensi scambi tra individui e aziende, vero motore dello
sviluppo produttivo ed economico. Senza dubbio le città costituiscono una
delle realizzazioni più grandiose della civiltà umana. In ogni paese, le
città rappresentano il centro sociale, culturale e di comunicazione della
vita nazionale.
Ma c'è qualcosa di fondamentale che manca nella percezione comune della
città, qualcosa che finora è stato dato per scontato ed è semplicemente
sfuggito alla consapevolezza. Possiamo arrivare a questo elemento mancante
facendo un esperimento mentale basato su due semplici domande che hanno lo
scopo di costringerci a guardare al di là dei limiti della percezione
comune.
Per prima cosa, immaginiamo cosa accadrebbe a una qualunque città o regione
metropolitana moderna (definita dai suoi confini amministrativi, oppure come
area urbanizzata, oppure come concentrato di attività socio-economiche), sia

essa Vancouver, Philadelphia o Londra, se fosse chiusa in una cupola
emisferica di vetro o plastica che lasciasse entrare la luce ma impedisse
alle cose materiali di qualunque genere di entrare e uscire: più o meno come
accade nel progetto "Biosphera II" in Arizona.
La salute e l'integrità dell'intero sistema umano contenuto all'interno di
questa cupola dipenderebbe interamente da ciò che vi fosse rimasto
intrappolato all'inizio dell'esperimento. Quasi tutti capiscono che una
città così configurata cesserebbe di funzionare e i suoi abitanti
perirebbero entro pochi giorni. La popolazione e l'economia contenute nella
cupola, tagliate fuori dalle risorse vitali e dagli essenziali sistemi di
assorbimento dei rifiuti, potrebbero solo morire di fame e soffocare. In
altri termini, gli ecosistemi contenuti entro l'immaginario "terrario" umano
non avrebbero una sufficiente carrying capacity per sostenere il peso
ecologico imposto dalla popolazione umana in esso contenuta. Questo modello
mentale della cupola di vetro ci rammenta, in modo abbastanza brutale, la
vulnerabilità ecologica del genere umano.
La seconda domanda ci spinge a considerare in termini più concreti questa
realtà nascosta. Supponiamo che la nostra città sperimentale sia circondata
da un paesaggio diversificato, nel quale terre coltivate e pascoli, foreste
e bacini idrici - cioè tutti i tipi di territorio ecologicamente
produttivi - siano rappresentati in proporzione alla loro attuale presenza
sulla Terra e che la città abbia a disposizione una quantità di energia da
combustibili fossili adeguata a sostenere gli attuali livelli di consumo e
le sue tecnologie prevalenti.
Supponiamo inoltre che la nostra immaginaria copertura di vetro sia
elasticamente espandibile. La domanda è dunque la seguente: quanto deve
diventare grande la cupola perché la città al suo centro possa sostenersi
indefinitamente soltanto grazie agli ecosistemi terrestri e acquatici e alle
risorse energetiche contenute all'interno della cupola stessa? In altri
termini, qual è la superficie totale di ecosistemi terrestri necessaria per
sostenere continuativamente tutte le attività sociali ed economiche degli
abitanti di quella città?
Si tenga presente che va calcolata la superficie di territorio necessaria
per produrre risorse, ma anche per assimilare i rifiuti e per garantire
varie funzioni non visibili ma essenziali per la sopravvivenza. Si tenga
anche presente che, per semplicità, la domanda così posta non prevede nel
calcolo il territorio ecologicamente produttivo necessario a sostenere altre
specie, indipendentemente dai servizi che esse possono fornire agli umani.
Per ogni serie di circostanze specifiche - questo esempio, infatti,
presuppone una certa popolazione, un certo standard di vita materiale, l'
esistenza di certe tecnologie ecc. - è possibile calcolare una stima
ragionevole della superficie di terra/acqua necessaria perché la città in
esame si mantenga.
Per definizione, la superficie totale di ecosistema indispensabile all'
esistenza continuativa della città costituisce di fatto la sua Impronta
Ecologica sulla Terra.
( di Mathis Wackernagel, William E. Rees )


Sostenibilità e sviluppo sostenibile: qualche chiarimento

La necessità, per il genere umano, di vivere in modo equo secondo le
possibilità offerte dalla natura è l'idea alla base della maggior parte
delle definizioni di sviluppo sostenibile, a cominciare da quella contenuta
nell'appello della Commissione Brundtland, della quale è stato generalmente
recepito il richiamo a soddisfare le necessità del presente senza
compromettere le necessità delle generazioni future. In ogni caso, a
dispetto di una diffusa consapevolezza degli aspetti ecologici e sociali del
problema, le interpretazioni del concetto di sviluppo sostenibile e delle
sue implicazioni entrano spesso in contraddizione, persino all'interno dello
stesso rapporto Brundtland.
Una prima, ovvia spiegazione delle interpretazioni divergenti dell'idea
fondamentale di sostenibilità si basa sull'ambiguità insita nella formula
"sviluppo sostenibile". C'è chi recepisce con più facilità o urgenza l'
istanza della "sostenibilità" e invoca un cambiamento ecologico e sociale, e
un mondo caratterizzato da stabilità ambientale e giustizia sociale.
Altri invece attribuiscono preminenza alla causa dello "sviluppo", che
interpretano come crescita ragionata e consapevole: un adeguamento
illuminato dello status quo. Sharachchandra Lèlè sostiene che le differenti
interpretazioni di sviluppo sostenibile non sono causate da un'insufficiente
comprensione, ma piuttosto dalle diverse matrici ideologiche di chi vi si
accosta, nonché dalla generale riluttanza rispetto alle implicazioni del
messaggio di fondo.
La deliberata mancanza di precisione del concetto, anche nella definizione
data dalla Commissione Brundtland, è espressione dell'approccio del potere
politico e del suo tipico linguaggio di compromesso, più che il sintomo di
insormontabili difficoltà intellettuali. In un suo commento, Michael
Redelitt avverte che "se non saremo disposti a chiarire a noi stessi le
nostre ipotesi di fondo su sviluppo e ambiente e a dare effetto politico
alle conclusioni raggiunte, allora la realtà dello sviluppo insostenibile
rimarrà immutata".
Come abbiamo già suggerito, buona parte della confusione attorno al concetto
di "sviluppo sostenibile" è strettamente legata alla generale incapacità di
distinguere tra vero e proprio sviluppo e semplice crescita. Secondo l'
economista Herman Daly, la differenza può essere individuata definendo come
"crescita" un aumento quantitativo materiale, mentre lo "sviluppo" coincide
con la realizzazione di un più ampio e pieno potenziale. In breve, crescita
significa diventare più grandi mentre sviluppo significa diventare migliori.
La tesi di Daly, quindi, è che "sviluppo sostenibile" indica un progressivo
miglioramento sociale senza una crescita che superi la carrying capacity
ecologica. In effetti, Daly ritiene che nel concetto di "crescita
sostenibile" vi sia una contraddizione interna ai limiti dell'assurdo. Per
giungere alla sostenibilità si può anche dover ridurre l'aggregato della
produzione economica, pur cercando di mettere i meno abbienti nella
condizione di consumare in misura maggiore.
Vi sono altre ambiguità che si nascondono nello "sviluppo sostenibile". Esso
potrebbe essere riferito:
a) alle condizioni necessarie per un'esistenza sostenibile (intese, in
questo caso, come le basi per una meta da raggiungere o di un modo di
vivere);
b) ai mezzi socio-politici per conseguire tale meta (e, dunque, un processo
di pianificazione);
c) a strategie particolari per risolvere problemi che si presentono di volta
in volta (soluzioni ad hoc). Se non si chiarisce con sufficiente precisione
in quale accezione si sta utilizzando il concetto in un determinato
contesto, si possono generare malintesi tali da complicare, se non
addirittura pregiudicare, l'intero lavoro.
Per questo motivo, alcuni ritengono che si debba preferire "sostenibilità
dello sviluppo", in quanto termine meno ambiguo di "sviluppo sostenibile".
( di Mathis Wackernagel, William E. Rees )

Determinare quanta popolazione umana una certa regione può sostenere è
problematico per due ragioni principali. Prima di tutto il peso ecologico
totale di qualsiasi popolazione varia al variare di fattori quali il reddito
medio pro capite, le aspettative di consumo, il livello della tecnologia
(cioè l'efficienza energetica e dei materiali): in pratica, la carrying
capacity dipende tanto dai fattori culturali quanto dalla produttività
ecologica. In secondo luogo, l'economia globale fa sì che nessuna regione
sia più isolabile: tutti hanno accesso alle risorse di tutto il mondo. Anzi,
molti osservatori sottolineano che il commercio è in grado di far superare
qualsiasi limite di crescita imposto dalla penuria di risorse a livello
locale. Vi sono altri fattori che complicano ulteriormente il problema:
diversamente dai consumi di altri animali, i consumi umani non sono
determinati esclusivamente dalla biologia.
A causa della tecnologia, il peso imposto dal nostro metabolismo biologico
viene accresciuto enormemente dal metabolismo industriale. Mentre la maggior
parte delle specie consuma ben poco oltre al cibo, il grosso dei consumi
umani è fatto di merci prodotte (energia, abiti, auto e una infinità di
altri beni).
Nei paesi industrializzati questo stile di vita è incoraggiato dalla cultura
del consumismo ed è limitato solo dal potere d'acquisto dei vari soggetti.
Naturalmente, se si guarda al fenomeno globalmente, coesistono livelli di
consumo individuale assai diversi: il bracciante agricolo indiano può
rappresentare il punto più basso della scala; lo staff dirigente di una
compagnia transnazionale il punto più alto.
L'analisi dell'Impronta Ecologica supera alcune delle difficoltà del
concetto "tradizionale" di carrying capacity invertendo semplicemente i
termini del problema. L'Impronta Ecologica parte dal presupposto che ogni
categoria di consumo di energia e di materia e ogni emissione di scarti ha
bisogno della capacità produttiva o di assorbimento di una determinata
superficie di terra o di acqua. Se sommiamo i territori richiesti da ogni
tipo di consumo e di scarto di una popolazione definita, la superficie
totale che otteniamo rappresenta l'Impronta Ecologica di quella popolazione
sulla Terra, indipendentemente dal fatto che questa superficie coincida con
il territorio su cui quella popolazione vive. In breve, il modello dell'
Impronta Ecologica misura la superficie di territorio richiesta da ogni
persona (o popolazione), anziché la popolazione possibile per ogni unità di
territorio. Come si vedrà, tale semplice inversione si dimostra assai più
istruttiva della tradizionale carrying capacity nel delineare il dilemma
della sostenibilità.
Più specificamente, l'analisi dell'Impronta Ecologica di una data
popolazione o economia può essere definita come la superficie di territorio
(terra e acqua) ecologicamente produttivo nelle diverse categorie (terreni
agricoli, pascoli, foreste ecc.) che è necessaria per:
1) fornire tutte le risorse di energia e materia consumate;
2) assorbire tutti gli scarti di quella popolazione, data la sua attuale
tecnologia indipendentemente da dove tale territorio sia situato.
Sono compresi nel conteggio i consumi domestici, i consumi del mondo
produttivo e quelli delle istituzioni amministrative. Si noti che, poiché l'
analisi dell'Impronta Ecologica è basata sui flussi di reddito naturale,
essa è in grado di fornire su base territoriale una stima delle esigenze di
capitale naturale di una certa popolazione.
Come già ricordato, la dimensione dell'Impronta Ecologica non è fissa, ma
dipende dai redditi medi, dai valori prevalenti, dalla tecnologia e da altri
fattori socio-culturali. Quali che siano le variabili, bisogna ricordare che
l'Impronta Ecologica di una certa popolazione rappresenta la superficie di
territorio necessaria esclusivamente per quella popolazione: i flussi e gli
stock utilizzati non saranno più a disposizione di altri.
Un'analisi completa dovrebbe includere sia le esigenze dirette di
territorio, sia gli effetti indiretti di ogni tipo di consumo di materia e
energia. Cioè, non dovrebbe tener conto solo della superficie dei vari
ecosistemi (capitale naturale) necessari a produrre risorse rinnovabili e
servizi vitali (forme diverse di reddito naturale), ma anche della
superficie biologicamente perduta a causa di contaminazioni, radiazioni,
erosioni, salinizzazione e urbanizzazione, che rendono il terreno
improduttivo. Dovrebbe conteggiare, inoltre, l'uso di risorse non
rinnovabili, esaminando i processi energetici e i relativi effetti
inquinanti.
Al momento, però, l'analisi si basa su un numero limitato di tipi di consumo
e di flussi di scarto. Ogni elemento aggiuntivo aumenterà quindi le nostre
stime attuali. Inoltre, i nostri calcoli partono dal presupposto che il
territorio necessario (ad esempio, foreste o terreni agricoli) venga
utilizzato in modo sostenibile. Purtroppo di solito non è così: i terreni
agricoli, ad esempio, vengono degradati dieci volte più velocemente di
quanto non possano ricostituirsi biologicamente. Ciò significa che,
nonostante l'Impronta Ecologica delle regioni industrializzate sia
terribilmente alta, essa è certamente sottostimata. È probabile che le
nostre valutazioni attuali debbano essere incrementate di un cospicuo
"fattore sostenibilità" che corregga tale semplificazione.
Rovesciare il concetto di carrying capacity consente di fare piazza pulita
di molte obiezioni mosse a questo tipo di analisi applicata agli esseri
umani. È vero, infatti, che cercare di misurare la carrying capacity umana
come il massimo peso sopportabile regionalmente è un esercizio futile: le
popolazioni locali sono talmente influenzate da cultura, tecnologia e
commerci da rendere oscuro il loro rapporto con i limiti biofisici del
territorio di appartenenza. Hong Kong, ad esempio, è densamente popolata ed
estremamente prospera, eppure ha una carrying capacity naturale estremamente
limitata, mentre alcuni paesi africani con possibilità biofisiche maggiori
soffrono la fame.
L'analisi dell'Impronta Ecologica evita questi problemi e misura il peso
ecologico totale della popolazione anziché il numero di persone. Ci dice
che, seppure confuso dalla tecnologia e dai commerci, il peso della
popolazione si fa sentire da qualche parte: se il commercio sembra aumentare
la carrying capacity locale, certamente la riduce in qualche altro posto.
Il nostro metodo mostra gli impatti di una data popolazione analizzando i
consumi aggregati (cioè: carico totale = popolazione x consumi pro capite) e
convertendo questo dato in una superficie di territorio corrispondente. È
così possibile esprimere la domanda ecologica con un unico dato (necessità
di capitale naturale) che - diversamente dalla carrying capacity
tradizionale - riflette anche le variabili del commercio netto, della
tecnologia prevalente e dei redditi medi.
L'impronta ecologica così calcolata può essere messa a confronto con l'area
su cui vive la popolazione e mostrare di quanto è stata superata la carrying
capacity locale e, quindi, la dipendenza di quella popolazione dal commercio
(vi possono essere piccoli pezzi di Impronta di una certa popolazione sparsi
un po' su tutto il mondo). Questa analisi, inoltre, facilita il confronto
tra regioni, rivelando l'effetto delle diverse tecnologie e dei diversi
livelli di reddito sull'impatto ecologico. Scopriremo co- sì che l'Impronta
media di ogni residente a Hong Kong è enormemente superiore a quella di un
agricoltore etiope.
Lo scenario dell'Impronta Ecologica può essere adattato ad altre analisi di
sostenibilità. Ad esempio, potremmo calcolare l'impronta ecologica del
commercio per rivelare quanta carrying capacity è racchiusa nelle
importazioni di una regione e a quanta carrying capacity essa rinuncia per
produrre le esportazioni necessarie a pagare ciò che importa.
Inoltre, l'Impronta Ecologica media procapite può essere paragonata con una
suddivisione equa della Terra, cioè quella fetta di terra produttiva del
nostro pianeta oggi teoricamente a disposizione di ogni persona (con tante
scuse alle altre specie!). Oggi questa porzione è di 1,5 ettari
(corrispondenti a un quadrato di 122 metri di lato), di cui solo 0,25 ettari
sono terreno arabile.
L'analisi dell'Impronta Ecologica ci consente di stimare il sovraccarico
globale e il deficit ecologico di qualsiasi regione o paese. Il
"sovraccarico" è la parte di Impronta Ecologica complessiva dell'umanità che
supera la carrying capacity complessiva.
Oltre un certo punto, la crescita materiale dell'economia mondiale può
essere ottenuta solo attraverso l'impoverimento del capitale naturale e
minando i servizi naturali vitali da cui noi tutti dipendiamo. In altre
parole, siamo in sovraccarico quando i consumi dell'economia eccedono i
redditi naturali e creano declino ecologico.
Il deficit ecologico (o di sostenibilità) è invece la misura del
sovraccarico "locale": stima la differenza tra la capacità ecologica di una
data regione o nazione e la sua effettiva Impronta Ecologica, svelando così
quanto la regione sia dipendente da capacità produttive extra-territoriali,
attraverso il commercio o l'appropriazione dei flussi naturali. Già oggi è
evidente che l'Impronta Ecologica umana supera la carrying capacity globale.
Tale sovraccarico è possibile. solo temporaneamente e farà pagare gravi
prezzi alle generazioni future. Senza uno sforzo concertato per ridurre il
flusso di materia e energia, i nostri figli si troveranno a dover soddisfare
le necessità biologiche di una popolazione più numerosa avendo a
disposizione degli stock di capitale naturale (la vera ricchezza) assai
diminuiti.
( di Mathis Wackernagel, William E. Rees )