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riconversione ecologica



Title: Uomo e Ambiente
Vi mando in allegato delle riflessioni personali sulla riconversione ecologica. Spero possano interessarvi...
Buona Giornata

Piergiorgio Pizzuto

Rete di Lilliput per un'economia di giustizia - nodo di Palermo

 
 

L’educazione ecologica e lo sviluppo sostenibile

Dalla cultura che separa alla cultura che connette

Di Piergiorgio Pizzuto

 

 

 

Gli uomini sono mortali

Socrate è un uomo

Socrate è mortale

Platone

 

Gli uomini sono mortali

L’erba è mortale

Gli uomini sono erba

G.Bateson

 

 

La relazione tra uomo e ambiente sta oggi indubbiamente attraversando un momento di profonda crisi, ne sono prova gli innumerevoli effetti devastanti che l’attività umana sta producendo sugli equilibri ecosistemici del pianeta. Qua potrei inserire una lunga lista di eventi catastrofici e di condizioni aberranti che provano la veridicità di questa affermazione, ma vorrei tralasciare una tale “lista nera”. Serve davvero a scuotere gli animi una visione catastrofica del futuro dell’umanità? In questo momento storico credo sia più proficuo parlare di cosa si possa fare per migliorare la relazione tra uomo ed ambiente. Anche perché sono in molti a reagire con il cinismo o la rassegnazione di fronte all’enormità dei fenomeni distruttivi che caratterizzano il modo “occidentale” di abitare il pianeta. Certo, viene sempre un po’ di sconforto e tanta rabbia, quando si sentono certe notizie o si scoprono certi meccanismi rodati da anni, ed in continuo perfezionamento nello sfruttamento della natura e delle popolazioni più indifese, più povere. E fa certamente disperare il ritrovare sempre all’origine di tali fenomeni gli interessi economici di pochi già enormemente ricchi. Credo, che sebbene ci siano tutti gli elementi per una resa senza condizioni di ogni speranza, non possiamo abbandonarci alla disperazione, se non altro per correttezza etica nei confronti dei nostri figli. Di fronte a loro abbiamo la responsabilità di sperare e di agire.

Quali vie, quale strada dovremmo intraprendere per infondere fiducia alle nuove generazioni, e per alimentare la nostra stessa speranza? C’è chi chiama questa strada “terza via”, chi dice sia “lo sviluppo sostenibile”, chi parla di “crescita zero”, chi vuole fondare villaggi ecologici, chi parte come volontario per l’Africa in nome della cooperazione Nord-Sud,  chi parla di corridoi ecologici ed aree protette, chi dice che se si lascia libero il capitale ci saranno nuovi posti di lavoro e tutti staranno davvero meglio,  chi porta avanti compagne di sensibilizzazione per riformare il WTO, chi ritiene che lo sviluppo tecnologico salverà l’umanità e che in molti andremo a vivere sulla Luna in enormi città spaziali…Tale ricchezza di vedute (ne ho accennata solo qualcuna, in realtà si potrebbe continuare ancora a lungo l’enumerazione di possibili vie) è comunque un po’ un indice della complessità del problema che stiamo provando ad affrontare. In effetti le implicazioni sono molteplici e riguardano tutti gli aspetti della vita sociale, politica ed individuale. Per tentare di fare comunque un po’ di chiarezza credo che si possa trattare la questione in relazione a tre ampi campi di  intervento, tra loro strettamente interconessi ed assolutamente non isolati da tutto il resto. Il “paesaggio” legislativo,  quello economico e quello che riguarda le scelte individuali e conseguentemente lo stile di vita. Questi “paesaggi” (mi piace chiamarli così perché mi sembra che questa parola ben si presta a sottolineare l’irriducibilità a somma di parti, l’irriducibilità del territorio alla mappa) sono tra loro  interdipendenti. Se penso ad una possibile riconversione ecologica vedo questi paesaggi mutare profondamente, intrecciare tra loro nuove relazioni. Il modo più ecologico di portare avanti tale riconversione indurrebbe a partire proprio dai “nodi” tra questi vari “paesaggi”, dalle loro interconnessioni. Bisognerebbe raggiungere l’obbiettivo di traslare l’ottica odierna dominante del “possedere per usare” a quella ecologica dell’ “agire per essere”, ma questo target culturale potrebbe essere perseguito in un modo razionalmente efficiente solo attraverso un’azione combinata e parallela su tutti e tre i “paesaggi” a cui accennavo prima. Nella prospettiva economica bisognerebbe che le aziende incominciassero a produrre beni fatti per durare e che rinunciassero alla scala globale e si concentrassero su quella locale, che evitassero nei processi produttivi l’uso di sostanze inquinanti e pericolose, che limitassero l’uso delle risorse non rinnovabili e si volgessero il più possibile alle risorse energetiche rinnovabili e pulite, infine che valorizzassero il lavoro umano in modo da ridare centralità al valore sociale del lavoro. Ma nell’odierno “paesaggio” economico queste ipotetiche riforme applicate ai sistemi di produzione sono fondamentalmente rivoluzionarie e praticamente inattuabili. Ecco perché sarebbe necessario una contestuale riforma del quadro legislativo sia a livello locale che a livello nazionale ed internazionale, che ponesse le basi per una tanto profonda riconversione. Le aziende dovrebbero in qualche modo essere stimolate dalle scelte di governo, appoggiate e stimolate nella direzione della riduzione dell’impatto ambientale e dello sviluppo sostenibile. In poche parole sarebbe necessario che un nuovo impianto legislativo regolasse e indirizzasse le attività delle imprese non più verso una iperproduzione,  ma verso un modello produttivo responsabile che punti sulla qualità, sui servizi e sulle ricadute sociali virtuose. Ciò significherebbe invertire l’attuale tendenza alla privatizzazione e riconferire centralità ed importanza all’economia pubblica, e soprattutto recuperare un ruolo di guida legislativo sull’economia che rispondendo al solo criterio del profitto non è adeguata, (né tanto meno  “credibile”) nel far fronte alle esigenze della collettività con equità e senso di responsabilità rispetto alle generazioni future. Il “paesaggio” legislativo potrebbe in altre parole disegnare un futuro sostenibile grazie ad una programmazione a lungo termine che garantisca la possibilità a tutti di avere accesso alle risorse e agli spazi ambientali a tutti i livelli, dal locale al globale. Il commercio internazionale in particolar modo andrebbe regolato al fine di garantire equità (sempre meno presente) tra i paesi e tutelare soprattutto la salute delle popolazioni e degli ecosistemi. Queste due ipotetiche rivoluzioni, l’economica e la legislativa, così banalmente e superficialmente delineate, andrebbero accompagnate da un contestuale rinnovamento culturale che dovrebbe incidere su un mutamento profondo degli stili di vita. L’esigenza più pressante sembra essere proprio la riduzione dei consumi, per cui bisognerebbe orientare i comportamenti degli abitanti della parte ricca del pianeta verso la sobrietà (le famose 4 R: ridurre, riciclare, riparare e rispettare), verso l’usare piuttosto che il possedere, verso l’accorciamento delle distanze e la riduzione della mobilità, verso la valorizzazione della autoproduzione e della qualità della vita basata non sui consumi ma sulle esperienze autentiche e salutari. Attualmente le modalità abitative della popolazione “ricca” del pianeta non appaiono per nulla sostenibili per il pianeta. La dimostrazione inconfutabile di questa considerazione ci viene data dallo studio dell’impronta ecologica, parametro di elaborazione complessa che mette in relazione lo stile di vita con la superficie necessaria per sostenerlo.  Secondo dei dati che risalgono a qualche anno fa, l’impronta ecologica di un italiano copre una superficie di circa 3 ettari, mentre quella di un americano giunge a circa 6 ettari, a fronte del modestissimo dato di un indiano, che utilizzerebbe soltanto 0,8 ettari per sostenere il proprio stile di vita. Questo indicatore è particolarmente utile in quanto ci può far comprendere quanto sia irrealizzabile per l’umanità l’ipotesi di un modello di vita “all’americana”. Se infatti moltiplichiamo i 6 ettari occupati da un americano per i 6 miliardi di abitanti del pianeta raggiungiamo una cifra molto più grande della superficie del pianeta. Il modello di vita consumistico per eccellenza appare quindi irrealizzabile in una ottica globale, a meno che si accetti una sempre più netta sperequazione di accesso alle risorse e agli spazi, un sempre più netto divario tra Sud e Nord del pianeta, tra ricchi e poveri (pur sempre rimanendo sul piano della possibilità di accesso e non sulla garanzia di distribuzione delle ricchezze.). Inoltre un tale livello dei consumi, essendo basato tra le altre cose anche sull’utilizzo e lo sfruttamento di risorse non rinnovabili, inciderebbe sul futuro del pianeta in modo irreversibile, privando le generazioni future della stessa possibilità di accesso alle risorse di oggi. Un furto nei confronti dei nostri figli, in parole povere.

Ma a ben guardare queste tre “rivoluzioni” per una riconversione ecologica sono davvero difficilmente realizzabili nella cultura occidentale vigente. Inoltre sul piano economico sono contrastate da interessi individuali e di “clan” molto potenti che a volte neanche i parlamenti di varie nazioni riescono a contrastare (vedi conflitti con WTO e FMI), e gli stessi uomini di governo raramente appoggiano riforme legislative che vadano nella direzione della costituzione di un nuovo equilibrio planetario, più equo, più ecologico, più responsabile nei confronti delle generazioni future. Ci rimane la possibilità di agire a livello individuale e di provare a sviluppare un autentica cultura ecologica, attuando un ripensamento profondo delle nostre abituali modalità di conoscere, pensare ed agire. A ben guardare, infatti, la causa prima del attuale modello di sviluppo insostenibile sta proprio nella cultura occidentale, cultura della separazione, del conflitto per eccellenza, dell’uso e del consumo. Premessa ideologica fondamentale che legittima una modalità abitativa non solo insostenibile ma interamente volta alla competizione, alla sopraffazione ed allo sfruttamento indiscriminato. Ora, credo, che l’unico modo per avviare una riconversione ecologica, anche se non potrà essere, come prima utopicamente auspicato, il modo razionalmente più efficiente (in quanto il paesaggio economico e legislativo oggi difficilmente si può supporre che siano suscettibili di una profonda riconfigurazione – ed inoltre ciò è molto al di là delle nostre singole forze di impatto: ci rimane il diritto di voto, che però appare sempre meno rappresentativo, e quello delle scelte dei consumi – per cui sarebbe impossibile partire dai “nodi”, dalle interconnessioni tra i tre “paesaggi” di cui sopra), sia quello di stimolare un ripensamento profondo della cultura occidentale.

Questa, per centinaia di anni, è stata dominata da una visione meccanicistica dell’universo e delle realtà fisica e biologica. Si è creduto che si potesse conoscere il tutto dallo studio delle singole parti componenti, il corpo era visto come una macchina, la vita sociale come lotta di competizione per l’esistenza, il progresso materiale come qualcosa di illimitato, la conoscenza come un processo asettico e oggettivo il cui l’osservatore e l’osservato stavano su piani nettamente separati, disgiunti. Insomma una cultura della separazione, della dissezione, della macchina, che poggiava le sue basi sull’approccio atomistico del pensiero cartesiano. Questa cultura ha posto le basi per un agire finalistico in cui qualsiasi uso indiscriminato delle risorse naturali fosse giustificato, ha creato una visione dell’uomo separato, superiore alla natura, ha creato una frattura profonda tra uomo e natura.

Oggi la crisi ambientale e le nuove scoperte scientifiche pongono l’urgenza di una nuova visione, di un nuovo approccio epistemologico ed etico, in cui si riconosca la fondamentale interdipendenza di tutti i fenomeni, in un quadro sistemico e complesso in cui il tutto non è la somma delle singole parti. L’interdipendenza diviene in quest’ottica il concetto fondamentale che unisce e non separa. La teoria dei sistemi di Von Bartanlaffy, gli studi di Maturana e Verela su i processi biologici, le ricerche di Gregory Bateson e di Ilja Prigogine, la scoperta dell’entropia (secondo principio della termodinamica), il principio di indeterminazione di Heisemberg, gli studi di Edgar Morin, di Lovelock e della Margulis, la nascita della cosiddetta scienza della complessità pongono le basi scientifiche di un nuovo paradigma incentrato sulla interdipendenza dei fenomeni, sulla loro irriducibilità a somma di parti, e compongono una visione integrata, una visione ecologica.

Secondo la teoria dei sistemi i sistemi viventi sono totalità integrate, le cui proprietà non possono essere ricondotte a quelle di parti più piccole. Le loro proprietà essenziali, o “sistemiche”, sono proprietà del tutto, che nessuna delle parti possiede. I sistemi possono essere inseriti in altri sistemi, anzi il reale si compone proprio di reti di sistemi interconnessi che si compongono di sistemi e che compongono sistemi, creando tra l’altro differenti livelli di interazione. In questo quadro ogni cosa assume un significato in relazione al contesto in cui inserita. Questo nuovo approccio scientifico pone la centralità delle relazioni piuttosto che degli oggetti. Si prospettano così due slittamenti di paradigma: dalla parti  al tutto, dagli oggetti alle relazioni. Lo stesso Bateson afferma che il reale è composto da interconnessioni, (relazioni ricorsive), Maturana e Verela parlano di accoppiamento strutturale come forma principale e generatrice nei sistemi organici, in cui gli elementi si modificano reciprocamente, mantenendo ognuno la propria identità. Anche l’indagine sulle origini dell’universo parla di interconnessioni come elementi fondamentali nella creazione di ogni tipo di organizzazione. Morin sottolinea l’importanza delle interazioni come momento centrale nella formazione della physis. Anche la storia del nostro pianeta, al nascita della vita e la storia evolutiva affermano nel loro dipanarsi la centralità dell’interazione ricorsiva. Oggi non si parla più di evoluzione ma di coevoluzione, ed il primo esempio appare nella storia della vita con la costituzione dell’atmosfera ossidante in seguito alla diffusione degli organismi con metabolismi fotosintetici, o forse ancora prima con i batteri, che ci hanno dato una grande lezione di cooperazione, scambiando quotidianamente tra loro parti del DNA, o più avanti con la comparsa delle cellule eucariote per endosimbiosi. In questo quadro anche la teoria evolutiva si arricchisce di una nuova ottica che pone la cooperazione come forza evolutiva altrettanto importante, se non più importante dal punto di vista qualitativo, della competizione. E’ chiaro quanto sia importante per una cultura la visione del dispiegarsi della vita ed è indubbia l’influenza che una visione culturale comporti su uno stile di vita, sulle modalità abitative di una popolazione. Nella visione darwiniana e nelle teorie neosintetiche viene conferita centralità alla selezione naturale, alla tendenza ad una perfezione funzionalistica, ad un optimum. Nella visione della nuova scienza della complessità i cardini del processo evolutivo sono le mutazioni casuali (disordine), gli scambi e la cooperazione (Margulis: la vita non prese il sopravvento dalla lotta, ma istituendo relazioni) e questi tendono alla ricerca della varietà, non al raggiugimento di standard ottimali. In quest’ottica anche il primo confine (le micelle lipidiche) rappresenta il momento propedeutico di un instaurarsi di relazioni e di scambi, non una divisione che crea distanza, separazione, ma solo differenza tra un ambiente interno ed uno esterno, e le differenze sono gli “atomi costitutivi” (Bateson) delle relazioni.

Anche in un piano etico-epistemologico (ogni conoscenza è azione ogni azione è conoscenza), la scienza della complessità conferisce centralità alla relazione ricorsiva allo scambio. In epistemologia la doppia descrizione, in natura l’accoppiamento strutturale sono in un ottica sistemica sistemi organizzativi simili, accostabili per la ricorsività, ma esistenti su livelli differenti. Bateson, Maturana e Verala compiono in questo campo un’operazione culturale fondamentale: la creazione di un ponte tra corpo e mente, ricuciono lo strappo culturale che è all’origine della crisi del rapporto uomo-natura. “I sistemi viventi sono sistemi cognitivi, e il vivere in quanto processo è un processo di cognizione” (Maturana e Verela). Il dualismo cartesiano viene così superato: la mente è natura, la natura mente. La natura pensa e si autoproduce – teoria dell’autopoiesi. La mente non è una sostanza, ma un processo: il processo della cognizione, che si identifica con il processo della vita. Il cervello è una struttura specifica, per mezzo della quale agisce questo processo. Il corpo è la struttura, la mente il processo. L’interdipendenza di processo e struttura ci permette di saldare la spaccatura tra mente e materia. La relazione tra mente e cervello è una relazione tra processo e struttura. L’intera struttura dissipativa dell’organismo partecipa al processo della cognizione, sia che l’organismo possegga un cervello e un sistema nervoso superiore, sia che non li possegga. I sistemi nervoso, endocrino e immunitario formano un’unica rete cognitiva. Un batterio, o un vegetale, non ha un cervello ma possiede una mente. Gli organismi più semplici hanno la capacità della percezione e dunque della cognizione. Essi non vedono, ma percepiscono cambiamenti nel loro ambiente: differenze fra luce e ombra, fra caldo e freddo, fra maggiori e minori concentrazioni di alcuni elementi chimici. Il nuovo concetto di cognizione, il processo della conoscenza, è quindi molto più vasto del concetto di pensiero. Ne fanno parte le percezioni, le emozioni e le azioni, cioè l’intero processo della vita.

Questa nuova concezione, fondamentale per ricucire lo strappo tra uomo e natura, gap che sta alla base della crisi ambientale odierna, può essere sviluppata e diffusa proprio grazie all’educazione autenticamente ecologica. Autenticamente nel senso che il processo dell’apprendimento si dispiega mantenendo un attento e costante sguardo sulle modalità di costruzione e di trasmissione della conoscenza. Solo una modalità che tenga conto delle premesse teoriche ed epistemologiche della scienza della complessità può stimolare un processo formativo ecologico che realmente aiuti a rendere organica la relazione tra corpo e mente, all’interno dell’individuo, e a sentirsi parte di un tutto, che non è somma di parti. Solo a partire da un profondo senso di partecipazione e di appartenenza al mondo gli individui saranno disposti a attuare cambiamenti nel loro stile di vita, ad agire per essere e non a possedere per consumare, e così ad intraprendere le mille scie che conducono alla riconversione ecologica.

Infine, per rendere più chiaro ed esplicito in cosa consista la nuova premessa epistemologica della scienza della complessità, vorrei presentarvi uno schema esplicativo elaborato da Gregory Bateson. Egli pone a confronto due paradigmi epistemologici: quello antiestetico, scaturito dalla cultura newtoniana-cartesiana ed attualmente dominante, e quello estetico, elaborato a partire dai principi cardine della teoria dei sistemi e della scienza della complessità. Vi invito ad una lettura di questo schema, non competitiva, o simmetrica (come direbbe Bateson), ma complementare, nel senso che i due approcci – antiestetico ed estetico -  non si escludono vicendevolmente, ma andrebbero integrati. E’ ovvio, comunque, che oggi quello che manca è l’approccio che scaturisce dal paradigma estetico e che quindi è proprio questo che andrebbe introdotto nelle metodologie di insegnamento e di formazione di tutti i livelli. L’educazione ecologica si propone proprio di applicare l’introduzione dell’approccio estetico batesoniano nei contesti di apprendimento. E’ una scienza giovane ed è ancora necessaria tanta ricerca e sperimentazione in questo campo, ma molti risultati sono già stati raccolti e l’interesse verso questa innovativa concezione dell’apprendimento cresce sempre più. Purtroppo, non c’è lo spazio ed il tempo, in questa occasione per approfondire questo fondamentale argomento, ma per quanti ne siano interessati ed incuriositi, rimando alla lettura del testo Abitare con saggezza la terra di Luigina Mortari.

 

 

Principi del conoscere antiecologico ed ecologico

Il “paradigma antiestetico ed estetico” di G. Bateson

 

 

 

 

Paradigma antiestetico

Cultura dominante con approccio galileiano-cartesiano

 

1.     Pensare atomistico

2.     Prevalere di processi di pensiero che procedono per separazione

3.     Elezione del criterio della quantità a principio distintivo del fare scienza

4.     Dimenticanza di qualsiasi senso estetico che conduca all’apprezzamento della forma

5.     Distanza emotivo-affettiva fra soggetto ed oggetto della conoscenza come condizione di un procedere oggettivamente fondato

 

 

Paradigma estetico

Cultura ecologica con approccio sistemico e complesso

 

1.     Principio di contestualizzazione

2.     Ricerca della struttura che connette

3.     Assunzione del criterio della qualità come presupposto del fare scienza

4.     Il processo di costruzione del sapere non disgiunto dalla ricerca della bellezza

5.     Modalità di ricerca che preveda un accostarsi alle cose con empatia e sentendosi affini ad esse.

 

 

 

 Piergiorgio Pizzuto

Rete di Lilliput per un'economia di giustizia - nodo di Palermo