la cura della crisi



La cura della crisi
 
La lettera d’invito per l’incontro nazionale di Paestum ci “sfida” ad andare al cuore del problema: vivere nella crisi e trovare il modo per cambiare il sistema.
La rivoluzione è necessaria! 
Il femminismo può determinare questo cambiamento? 
Le firmatarie della lettera ne sono convinte e anch’io ne avverto tutta l’esigenza.
Le piste su cui avviare la discussione e il confronto sono sostanzialmente tre: partecipazione/rappresentanza, economia/lavoro/cura, corpo/violenza.
Mi concentro sulla seconda, “economia, lavoro, cura”, poiché penso che proprio dall’intreccio, dalla reciproca relazione e rilevanza che questi temi hanno, non solo si può cambiare lo sguardo sulla crisi, ma è anche possibile generare il cambiamento. Per cui ordinerei i temi in questo modo:
- cura
- lavoro
- economia
Se privilegiamo la cura, di noi stesse, delle relazioni che abbiamo e del contesto in cui viviamo, allora, ci poniamo in un’ottica in cui la ricerca di armonia e non il PIL è al centro del dibattito e merita, quindi, tutta la nostra attenzione. 
La cura del territorio e delle persone che vi abitano richiama non solo ad un particolare modo di vivere, ma riporta al tema del lavoro.
Non c’è, e non ci sarà nei prossimi anni, lavoro per produrre merci, la nostra è una crisi anche di sovrapproduzione, mentre di lavoro di cura c’è un gran bisogno.
Sappiamo bene che gran parte del lavoro di cura è sulle spalle delle donne e che non solo non viene retribuito, ma neanche riconosciuto.
La cura dei bambini, degli anziani è sulle nostre spalle, appesantite peraltro dai tanti tagli sui servizi. C’è bisogno, invece, di potenziare i servizi alle persone.
C’è bisogno di produrre meno merci che rimangono invendute sugli scaffali o ingombrano (dopo una breve vita nelle nostre case stracolme) le strade o le cosiddette “isole ecologiche”. C’è bisogno di curare il territorio inquinato e degradato da rifiuti e da un’edilizia invasiva che ha cementificato la nostra penisola.
C’è bisogno di produrre cibo buono che cresca su una terra rigenerata e pulita.
C’è bisogno di curare il nostro patrimonio culturale e paesaggistico.

Ponendo al centro il tema della cura e del lavoro di cura, è possibile costruire una buona economia che non produca sfruttamento, disoccupazione, sovrapproduzione, inquinamento?
La mia risposta è sì, si può fare!
Diversi sociologi ed economisti mi confortano in questa convinzione, a partire dal moderato Luciano Gallino.
Ma è necessario intrecciare teorie e pratiche politiche, solo così abbiamo contezza che si può provare a cambiare.
I femminismi hanno sempre sperimentato forti connessioni tra teoria e pratica politica; anche nella vita ho sempre ricercato questo collegamento che mi ha consentito di guardare meglio e con maggiori strumenti quello che stavo facendo insieme alle altre compagne di strada. Inoltre, il fare, la pratica politica modifica le teorie.
Per questo motivo vorrei raccontarvi una esperienza, ancora in corso, relativa al parco sociale che stiamo cercando di realizzare nell’area urbana cosentina.
Questa esperienza locale si inserisce all’interno di un percorso internazionale che in altre città, aree urbane e metropolitane si sta sperimentando.
L’esperienza del Parco sociale di Cosenza, vista dal World Urban Forum che si è tenuto a Napoli i primi di settembre, assume una connotazione ed una luce diversa. E’come se, questo percorso, locale e ancora in progress, dialogasse con modalità assolutamente innovative con un mondo globale che sui processi di urbanizzazione si interroga da tempo. La novità non è soltanto la centralità del tema - gli spazi sociali, il bene comune - ma soprattutto la significatività del contributo da un punto di vista metodologico e la possibilità di replicare il percorso compiuto ed inserirlo all’interno di buone pratiche.
Provo a raccontare come è iniziata questa esperienza che sarà pubblicata nei prossimi giorni sulla rivista Marea.
“Situata al centro della città, l’area abbandonata delle ex officine mostrava tutti i segni del tempo e del degrado. Sede un tempo delle mitiche officine delle ferrovie della Calabria e della Lucania, nei diversi capannoni venivano riparate le antiche locomotive che collegavano valli e monti, nei tortuosi percorsi delle due regioni meridionali.
Un passato glorioso ed un presente di abbandono hanno caratterizzato per anni quella zona nel cuore della città. Tutto intorno, Cosenza cambiava, alti palazzi venivano costruiti ai fianchi dell’area delle ex officine; il vecchio tracciato ferroviario che avrebbe potuto collegare facilmente l’area urbana, veniva dismesso e lasciava spazio ad un imponente viale parco.
Il viale lungo chilometri, alla morte del sindaco, che lo aveva voluto, prese il suo nome: Viale Giacomo Mancini. Ma mentre tutto intorno all’area, il paesaggio cambiava, i volumi del cemento prendevano forma e consistenza, in quella zona che un tempo era popolata da uomini e da locomotive il degrado lentamente, ma progressivamente si faceva strada. Tra l’erba, che cresceva alta, si insinuavano polveri pericolose proveniente dai tetti sconnessi e rovinati dal tempo e dall’incuria. Le coperture dei capannoni delle officine erano stati costruiti quasi interamente in eternit, l’amianto sfibrato per anni ha rilasciato i suoi veleni nel quartiere e nella città.
Le brezze serali che d’estate regalano un po’ di frescura alla città - costruita lungo il fiume Crati e circondata da sette colli che fermano i venti, insieme alla catena costiera e all’altopiano silano - portano con sé polveri finissime d’amianto.
Nonostante questo quadro non proprio confortante, a partire dal 2005 quell’area abbandonata incomincia lentamente a rianimarsi; miracolosamente, prendono forma iniziative positive, si mettono in piedi tante attività di accoglienza e di cura nei confronti di persone in difficoltà.
A volte accade che proprio dal degrado, dall’incrocio di occasioni mancate nasca qualcosa di inaspettato ed imprevisto che rimette tutto in discussione e rilancia proprio da una situazione di marginalità conclamata, su cui nessuno avrebbe scommesso.
Certo, quel tracciato ferroviario proprio al centro della città poteva essere sistemato con un po’ di manutenzione e riutilizzato per collegare l’area urbana da nord a sud. Senza spendere troppo denaro pubblico, si sarebbe potuto garantire un eccellente servizio di trasporto per i cittadini dell’area urbana. Magari, parallelamente al tracciato ferroviario, in tutta l’area pianeggiante si sarebbero potute predisporre piste ciclabili che insieme alla metropolitana leggera avrebbero dimezzato il traffico cittadino. Ma quello che sembra naturale, e soprattutto di facile realizzazione, senza costi eccessivi, per gran parte delle pubbliche amministrazioni e degli urbanisti sembra essere di scarso interesse e quasi impossibile da realizzare. 
In tempo di crisi, queste modalità di governo del territorio andrebbero riviste in modo radicale, a sud come a nord. Inoltre, quelle antiche locomotive sui vecchi tracciati ferroviari, certamente, avrebbero potuto accompagnare su e giù, dolcemente, per valli e montagne, pigri turisti e viaggiatori curiosi, raggiunti nelle loro case europee, magari, da informazioni in rete sulle bellezze calabre e lucane. 
Ma con i se e con i ma non si costruisce la storia! Però, proprio da questo contesto di occasioni mancate e prospettive irrealizzate, accade che a partire dal 2005 quel luogo di degrado incomincia lentamente a popolarsi e a mescolare mondi e culture diverse. Mescolare pensieri e culture diverse, è per me sempre fonte di meraviglia e di azioni innovative!
Vengono ospitati i Rom evacuati dal greto del fiume Crati, si aiutano i bambini rumeni a studiare, si organizza uno sportello legale per il disbrigo di pratiche per gli immigrati, si tengono corsi di lingua italiana per stranieri, si raccolgono mobili ed indumenti usati per il riciclo ed il riuso, nasce il mercatino equo e solidale. Si susseguono attività culturali ed artistiche: presentazioni di libri, spettacoli teatrali, concerti, seminari, assemblee pubbliche, manifestazioni.
Viene allestita una sala Internet gratuita con l’utilizzo di hardware riqualificato, prende forma un centro di ascolto permanente, un dormitorio per i migranti. Periodicamente si organizzano attività per i ragazzi diversamente abili, nasce una sala di registrazione, una palestra popolare, un luogo di culto.
E’ tutto un fiorire di attività, ed in occasione dell’antica festa cosentina di San Giuseppe, che si svolge ogni anno in città, le associazioni dell’area danno accoglienza ai tanti migranti che partecipano come espositori alla fiera: offrono loro cibo, the, servizi e socialità. Per sei edizioni consecutive le associazioni accolgono il mondo con “Fierainmensa”. 
Nel 2008 il Comune di Cosenza istituisce “UrbanLab”, un laboratorio di progettazione partecipata con tutte le realtà presenti nell’area. La città, la stampa incomincia ad accorgersi di questa realtà in fermento. Risulta del tutto evidente, anche ai cittadini più distratti che un’area dismessa, abbandonata della città, è stata rivalutata attraverso il lavoro gratuito di tante-i volontarie-i.
Ma in quell’area oltre ai cittadini ed i migranti attivi, ci sono anche tante particelle di amianto altrettanto attive, e nel 2011 la Procura della Repubblica avvia, tramite l’ASP, la verifica sulle condizioni di pericolosità dei tetti in Etenit; pertanto, alcune associazioni dell’area vengono sentite in Procura.
Nello stesso periodo le associazioni redigono un dossier sulle attività svolte e si tenta di instaurare un dialogo con le istituzioni per promuovere azioni positive tese a sostenere i cittadini e i migranti più deboli e a bonificare l’area dall’amianto. Ma ad un certo punto questo percorso virtuoso viene inaspettatamente interrotto da un’ordinanza di sgombero!
Il dialogo diventa burocratico, bisogna sgomberare per bonificare tutta l’area dall’amianto. In città e nell’area urbana, la presenza dell’amianto è assai diffusa. Come si potrebbero sgomberare interi quartieri per effettuare la bonifica? Inoltre, non esiste un piano di bonifica cittadino.
Da tempo, era stato sollevato dalle associazioni residenti il problema dell’esistenza dell’amianto sfibrato nel quartiere dove sorge il parco, erano state sollecitate le istituzioni competenti, ma nulla era accaduto.
Dopo l’ordinanza di sgombero, le associazioni si preoccupano, temono il peggio, in città serpeggiano chiacchiere sulla presunta occupazione abusiva degli spazi da parte dei volontari. Si riafferma il diritto di proprietà di Ferrovie della Calabria, anche se l’area era stata completamente abbandonata per anni. Si prova la carta ignobile di mettere contro volontari ed operai disoccupati delle ferrovie. Un misto di paura e sfiducia serpeggia nell’aria, ma la guerra tra poveri non funziona, alcune associazioni dell’area prendono l’iniziativa, organizzano un’assemblea pubblica, scrivono un appello, raccolgono firme per dire: 
Via l’amianto dalla città, il parco sociale resta qua!
La cittadinanza risponde, la raccolta di firme ha successo, l’assemblea pubblica di giugno è partecipata, le decisioni prese collettivamente diventano pratica politica. Si insedia una “tavola” di negoziazione coinvolgendo tutti i soggetti istituzionali responsabili della bonifica e del rilancio del Parco sociale. Si creano le premesse per una progettazione partecipata dell’area e non solo, si creano i presupposti per sperimentare una pratica politica trasparente. Questa modalità di risoluzione dei problemi potrebbe diventare un “metodo cittadino”, da diffondere nella provincia.
I sogni si fanno spazio”.
I tetti di amianto potrebbero essere sostituiti con pannelli solari, nelle zone più ventilate si potrebbero installare delle micro pale eoliche. Nel cuore della città potrebbe essere coltivato un orto cittadino, un spazio potrebbe essere destinato al culto e alla convivenza tra le diverse religioni e spiritualità presenti nell’area e nel quartiere. Un iperGAS potrebbe settimanalmente animare la piazza interna, le bambine e i bambini potrebbero discutere della differenza di genere, le attività culturali e sociali, già da tempo avviate, potrebbero consolidarsi ed allargarsi.
Tante le donne attive nell’area delle ex officine, tante donne coinvolte nella tavola di negoziazione per la bonifica ed il rilancio del Parco sociale.
Certo la cultura patriarcale serpeggia ed interferisce nelle relazioni anche tra donne, ma l’esperimento continua, da sette anni a questa parte si sperimentano conflitti e mediazioni.
Raccontare l’evolversi dell’intera vicenda è utile, poiché dimostra che la strada del dialogo costruttivo, in alternativa alle decisioni prese dall’alto, è una strada in grado di assicurare alla progettazione del futuro Parco Sociale caratteristiche di solidità e ricchezza di contenuti. Condivisione e partecipazione: questo metodo potrebbe diventare nel tempo, laddove si riesca a consolidarlo, una buona prassi da ripetere anche altrove, da esportare nel resto d’Italia ed in un’Europa, al momento tutta ripiegata su se stessa e in crisi.

Si tratta solo di un piccolo passo verso la reale salvaguardia del Parco sociale e per un suo decisivo rafforzamento e radicamento sul territorio. Si tratterà nei prossimi mesi di rimanere attenti, difendere l’area e radicarla sul territorio, mantenere viva la vicinanza dei cittadini, per riconoscere così ufficialmente al Parco lo status, già conquistato sul campo, di spazio centrale, non solo in senso fisico ma anche umano e politico, rispetto alla costituzione di una socialità e solidarietà altre all'interno della città. Per avviare, in modo chiaro, un percorso virtuoso di progettazione partecipata che, in quanto tale, dovrà essere aperta alle istanze delle associazioni, delle cittadine e dei cittadini. Ottenere in questo modo una variante al piano regolatore che determina l’assetto urbano e che sancisce che l’area delle ex officine della Calabria non è destinata ad ospitare altri palazzi e/o centri commerciali, ma è area del sociale e della comunanza, sarebbe una vittoria senza precedenti nella storia cittadina, forse, meridionale.
Il percorso è irto di ostacoli, ad esempio come tenere insieme le associazioni residenti, i migranti, le associazioni e i cittadini dell’area urbana? Insieme si vince, ma quando il risultato è a portata di mano l’individualismo e l’egoismo potrebbero farsi spazio. L’esperienza maturata negli anni sulla mediazione dei conflitti sarà d’aiuto per rinsaldare il legame tra le diverse anime.
Sono queste le città che vorremmo?! Inclusive che valorizzano e diffondono esperienze come queste?
Nei prossimi anni non ci sarà lavoro per tutte-i, soprattutto nell’ambito della produzione di merci, la crisi è anche una crisi di sovraproduzione di merci e di edifici, ma ci saranno tanti lavori di cura da fare. La manutenzione di case ed edifici pubblici, la ristrutturazione e la riqualificazione degli spazi pubblici, la cura delle persone non può essere solo una faccenda di donne, una rivoluzione culturale è necessaria. 
Nadia Gambilongo