L'alternativa a Marchionne e L'abbaglio ideologico.Due articoli di Guido Viale



Riporto stralci di articoli di Guido Viale e Carla Ravaioli apparsi sul Il Manifesto nei giorni del referendum alla Fiat di Pomigliano.

L' alternativa a Marchionne
di Guido Viale
da il Manifesto giugno 2010

................Ma a che cosa non c'è alternativa? Al «piano A» di Marchionne. Un piano a cui solo se si è in malafede o dementi si può dar credito. Prevede che nel giro di quattro anni Fiat e Chrysler producano - e vendano - sei milioni di auto all'anno: 2,2 Chrysler, 3,8 Fiat, Alfa e Lancia: un raddoppio della produzione. In Italia, 1,4 milioni: più del doppio di oggi. La metà da esportare in Europa: in un mercato che già prima della crisi aveva un eccesso di capacità del 30-35 per cento; che dopo la sbornia degli incentivi alla rottamazione, è già crollato del 15 per cento (ma quello della Fiat del 30); e che si avvia verso un periodo di lunga e intensa deflazione.
Quello che Marchionne esige dagli operai, con il loro consenso, lo vuole subito. Ma quello che promette, al governo, ai sindacati, all'«opinione pubblica» e al paese, è invece subordinato alla «ripresa» del mercato, cioè alla condizione che in Europa tornino a vendersi sedici milioni di auto all'anno. Come dire: «il piano A» non si farà mai.
Non è una novità. Negli ultimi dieci anni, per non risalire più indietro nel tempo, di piani industriali la Fiat ne ha già sfornati sette; ogni volta indicando il numero di modelli, di veicoli, l'entità degli investimenti e la riduzione di manodopera previsti. Tranne l'ultimo punto, che era la vera posta in palio, degli obiettivi indicati non ne ha realizzato, ma neanche perseguito, nemmeno uno. Ma è un andazzo generale: se i programmi di rilancio enunciati da tutte le case automobilistiche europee andassero in porto (non è solo la Fiat a voler crescere come un ranocchio per non scomparire) nel giro di un quinquennio si dovrebbero produrre e vendere in Europa 30 milioni di auto all'anno: il doppio delle vendite pre-crisi. Un'autentica follia.
Dunque il «piano A» non è un piano e non si farà. L'alternativa in realtà c'è, ed è il «piano B». Se a chiudere non sarà Pomigliano, perché Marchionne riuscirà a farsi finanziare da banche e governo (che agli «errori» delle banche può sempre porre rimedio: con il denaro dei contribuenti) i 700 milioni di investimenti ipotizzati e a far funzionare l'impianto - cosa tutt'altro che scontata - a cadere sarà qualche altro stabilimento italiano: Cassino o Mirafiori. O, più probabilmente, tutti e tre. La spiegazione è già pronta: il mercato europeo non «tirerà» come si era previsto......

Uno sviluppo con le gomme a terra
di Carla Ravaioli il Manifesto giugno 2010

......Debbo dire però che, se questa denuncia di una situazione-limite, e però radicata su un fatto inoppugnabile e tremendo come l'incombente catastrofe ecologica, mi pare quanto mai utile, un po' meno mi convincono le soluzioni - alcune almeno - che Viale propone. Le fonti di energia rinnovabile come alternativa alle energie fossili, innanzitutto. Non perché non abbiano una loro valenza positiva, e non è un caso che siano nate in ambito ambientale, pensate come alternativa alle energie fossili non solo estremamente inquinanti, e infatti tra le cause prime del mutamento climatico, ma in via di rapido esaurimento. Non può però non sollevare interrogativi il fatto che la proposta con entusiasmo venga fatta propria e rilanciata dal sistema, ai fini di una green economy, capace di imporsi sui mercati come green business, con alta green competitivity, al fine della più robusta "green growth", ecc. Cioè per la continuità dell'attuale logica produttivistica, quella che Viale giustamente indica come causa prima del dissento ambientale. Non intendo negare l'utilità di queste nuove tecniche, ma credo che possano risultare davvero efficaci solo all'interno di una mutata logica produttiva, come quella che appunto Guido Viale auspica.......

......Compito immane, certo, ma forse non impossibile. Che potrebbe (dovrebbe?) far proprio anche quello che Viale indica come primo impegno di riconversione ecologica della produzione: cioè gli armamenti, cui dovrebbe seguire l'automobile. E proprio l'importanza strategica del tema "armamenti" esigerebbe una convergenza di consultazioni e delibere a livello planetario. Come dire, una sorta Bretton Woods del XXI secolo...
Utopia? In qualche modo sì. Ed è quello che sempre si rinfaccia a chiunque avanzi ipotesi del genere. La guerra è sempre esistita: questa è l'obiezione immediata. Ma è anche vero che la storia è fatta di cose che prima non c'erano, e di molte altre, durate per secoli e millenni, poi irrecuperabilmente finite. E poi: una crescita produttiva continua, senza limiti di tempo né di quantità, non è un'utopia? Una tremenda utopia negativa?........

L' abbaglio ideologico
di Guido Viale da Il manifesto 23 giugno 2010

Il Foglio di sabato scorso ha dedicato un'intera pagina a commentare un mio articolo sulla crisi della Fiat di Pomigliano corredando il servizio con il pugno di Lotta Continua, il gruppo in cui ho militato negli anni settanta e che si è dissolto 34 anni fa. Troppa grazia. La cosa ha offerto a molti miei critici l'occasione per dare la stura ai più triti stereotipi sugli anni 70 e sull'ambientalismo, quasi non avessero mai letto o sentito parlare prima di green economy o di riconversioni produttive.
Per Stefano Cingolani: «In certe assemblee gauchiste c'era chi si alzava proponendo che la Fiat fornisse brandine agli ospedali». Che assemblee avrà mai frequentato Cingolani in quegli anni? Non certo l'assemblea operai-studenti di Mirafiori, dove si parlava di cose molto serie, che hanno fatto la storia del paese. Scrive Sergio Soave: «Viale ripropone la tesi dell'imminente crollo del capitalismo». Ma quando mai? E riassume il mio pensiero così: «una nuova sintesi di deindustrializzazione e mangiatori di fragoline di bosco». Francesco Forte mi attribuisce «la teoria per cui il capitalismo è un imbroglio e l'economia di mercato una mistificazione». Magari lo penso; ma non l'ho certo scritto e non sta tra le premesse del mio discorso. Analogamente Gianni Riotta, sul Sole24ore, mi accusa di «dare del venduto a Cisl e Uil e quasi tutta la Cgil», e addirittura, al premio Nobel Paul Krugman, per aver scritto che per dar credito al piano della Fiat per Pomigliano bisogna essere in malafede o dementi. Sul dementi mi attengo al giudizio degli interessati. Ma si può essere in malafede senza essere venduti. Basta dar credito senza dare spiegazioni a cose che non lo meritano. E' quello che fa Riotta e, con lui, quasi tutti i sostenitori del piano Marchionne: non si chiedono se il piano è credibile. Su questo punto diamo la parola al Foglio.
Scrive Ernest Ferrari: «D'accordo, il piano di sviluppo targato Marchionne è irrealizzabile». Risponde Bruno Manghi: «Quella di Marchionne è una scommessa che nessuno può prevedere con certezza come finirà». Ammette Riccardo Ruggeri, uno che conosce la Fiat «dall'interno»: «Sui sei milioni di macchine Viale non ha tutti i torti». E aggiunge: «Magari tra non molto Marchionne chiederà altri sacrifici, perché il mercato non tira. Marchionne l'ha fatto capire più di una volta». Poi precisa: «ho paura che stia tornando la moda dei volumi (di vendite)piuttosto che dei talenti...anche alla Volkswagen hanno sposato la teoria dei volumi; ma ci hanno messo 15 anni, investendo una montagna di soldi». «Insomma, c'è aria di bluff?» chiede l'intervistatore. E lui risponde: «Marchionne fa quel che può».
Anche Cingolani si chiede: «Chi può garantire che le auto non restino sui piazzali? E quanto costeranno i modelli sfornati dalle catene di montaggio?» Domande senza risposta. Cingolani le affronta con un suo personale «piano B»; questo sì, datato agli anni '70: quando i cosiddetti paesi emergenti adottavano le tecnologie abbandonate dai paesi più industrializzati, e questi passavano a produzioni a più alto valore aggiunto (Era la teoria di Hirschmann delle "anatre volanti", che si alzano in volo in ordine, una dietro l'altra). Ma oggi Cina, India e Brasile hanno, sì, costi del lavoro e ambientali più bassi; ma anche livelli tecnologici paragonabili ai nostri e capacità di ricerca e sviluppo superiori (anche perché da noi scuola e ricerca sono state gettate alle ortiche). Inoltre, senza impianti di assemblaggio a portata di mano, l'innovazione tecnologica e organizzativa non ha verifiche. Quindi, perché il distretto automobilistico torinese possa mantenere i suoi atout in campo motoristico e dello styling, una parte del montaggio dovrà comunque restare in Italia. Ma non è detto che tocchi a Pomigliano. Nell'assemblaggio, più che altrove, a contare sono i costi. Lo conferma Michele Magno: «La sorte dello stabilimento campano è legata a un drastico abbassamento dei costi». L'unico a non nutrire dubbi sul piano Marchionne è Francesco Forte. E sapete perché? Perché «il piano è stato valutato positivamente dalle banche e dalla borsa»: due istituzioni che hanno raggiunto la credibilità più bassa della loro storia.

Fatto sta che, se è improbabile riuscire a vendere sei milioni di auto all'anno (un raddoppio della produzione) sui mercati di un'industria sovradimensionata e oggetto di una feroce concorrenza non solo tra gruppi industriali, ma anche tra Stati, l'aumento della produzione in Italia da 600mila a 1,4 milioni di vetture è ancora più improbabile; soprattutto perché questa produzione dovrebbe per due terzi essere smerciata in Europa. Le sorti di Pomigliano sono legate a questi obiettivi. Qualcuno ha provato a spiegare come raggiungerli? O si vuole far credere che l'unico vero problema è l'abnorme tasso di assenteismo e che un maggiore impegno contro di esso rimetterebbe le cose a posto?......


.....Sembra però che la conversione ambientale dello stabilimento di Pomigliano, o di altre fabbriche in crisi, urti contro la centralità della produzione automobilistica (una volta la centralità era della classe operaia, ma i tempi sono cambiati). «E' indubbio - scrive Michele Magno - che il settore automobilistico, pur maturo sul piano merceologico e tecnologico, continui a incarnare lo spirito del tempo»; perché «continua a svolgere un ruolo cruciale sia nella formazione del Pil, sia nella dinamica occupazionale»; e perché «il cuore delle innovazioni organizzative...continua a pulsare qui».

Nessuno però ha proposto di chiudere il settore automobilistico dall'oggi al domani. Basterebbe non strafare con i volumi, come raccomanda anche Ruggero. E non gravare un gruppo già provato con un peso che probabilmente non può sostenere. «E' in gioco - continua Magno - il futuro di quel che resta della classe operaia meridionale». D'accordo. Ma, proprio per questo, non sarebbe bene pensare a delle alternative per uno stabilimento così a rischio?
Per verificare se è vero che l'azienda vorrebbe sbarazzarsi di Pomigliano bisognerebbe poterla mettere di fronte a una alternativa praticabile, esigendo impegni precisi a garanzia del processo di conversione. Non certo di assumerne la gestione, per la quale vanno comunque individuati soggetti, attori e culture aziendali differenti. Bensì la cessione degli impianti e il finanziamento della transizione. Ma oggi un'alternativa del genere non c'è. Nessuno ci ha pensato; e nessuno sembra neanche in grado o disposto a pensarci; anche se l'adozione di un'alternativa praticabile converrebbe sicuramente sia alla Fiat, che ai lavoratori, che al paese. E anche al pianeta.
Ma nessuno potrebbe mai pensare di avviare la riconversione di uno stabilimento industriale alla green economy con una semplice stretta della disciplina di fabbrica, come molti pensano - e sperano - che si possa fare invece trasferendo la Panda a Pomigliano. Perché una conversione produttiva di quella portata e con quelle finalità è proprio l'opposto di quell'idea "larvatamente autoritaria" di chi dice «Farò io il vostro bene» pensando di poter «pianificare le svolte dello sviluppo», come sostiene Bruno Manghi sul Foglio e Riotta ripete sul suo giornale.
Infatti, se non si può pensare di cambiare una fabbrica solo con la disciplina, occorre passare attraverso la mobilitazione delle forze sane del territorio, una discussione sulle ragioni della conversione, un coinvolgimento delle risorse intellettuali delle comunità interessate. Per poi procedere a verifiche di mercato, a progettazioni di massima, e alle battaglie per impegnare i diversi livelli del governo locale e nazionale. Sono cose che non si preparano né in un giorno né in un anno; c'erano però da anni molti motivi per cominciare a lavorarci. Ma non è mai troppo tardi. Perché se il piano Marchionne è un bluff, bisognerebbe evitare di ritrovarsi nella situazione di Termini Imerese, dove ogni giorno si escogitano altri bluff con il solo scopo di «tener buoni» gli operai lasciati sul lastrico.
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