nucleare :la morte invisibile



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25 marzo 09
La morte invisibile
di Franco Valentini


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Diventa sempre più urgente trovare una soluzione definitiva per lo 
smaltimento delle scorie radioattive, il cui accumulo negli ultimi sessant’anni 
ha compromesso la vita in intere regioni

 
Lungo le strade nella provincia russa di Čeljabinsk, negli Urali meridionali, 
si notano strani cartelli stradali che esortano chi transita a chiudere 
finestrini e prese d’aria. Fino al 1991 questi luoghi erano severamente vietati 
agli stranieri (in parte lo sono ancora) ed erano sconosciuti al resto del 
mondo. Alcune città della zona non compaiono neppure nelle mappe geografiche 
perché ufficialmente non esistono. L’aria, la terra e le acque apparentemente 
normali della provincia di Čeljabinsk contengono la morte. Una morte invisibile 
fatta di radiazioni.
È qui che sorgono e sono ancora abitati Čelyabinsk-40, Čelyabinsk-65 e 
Čelyabinsk-70, i centri segreti russi dove furono installati, dopo la Seconda 
Guerra Mondiale, i maggiori complessi nucleari dell’Unione Sovietica. 
Čelyabinsk-40, più nota come Mayak, che in russo significa faro, è considerato 
il luogo più contaminato della Terra da rifiuti radioattivi.
Tuttora sede di un impianto per la produzione di plutonio destinato alla 
fabbricazione di bombe atomiche, l’area attorno a Mayak dal 1949 al 1967 è 
stata oggetto di continui e sistematici rilasci di enormi quantità di 
radionuclidi (elementi radioattivi) nell’ambiente, soprattutto nelle acque del 
fiume Techa e del lago Karachy (ormai non più potabili e prive di vita), 
nonostante se ne conoscessero perfettamente i pericoli.
In tutti questi anni la popolazione della zona, formata perlopiù da contadini 
che vivono in condizioni di estrema povertà e ignoranza, è stata esposta ad una 
quantità di radiazioni paragonabile a quella ricevuta dai superstiti di 
Hiroshima e Nagasaki. Centinaia di migliaia di uomini, donne e bambini sono 
morti e continuano a morire per tumori e malformazioni congenite, nell’
indifferenza delle autorità.
La Russia è una bomba nucleare ad orologeria. Nessuno sa con esattezza qual è 
la quantità esatta di scorie radioattive disseminate nell’ambiente in 40 anni 
di guerra fredda (si parla di parecchie decine di milioni di metri cubi tra 
rifiuti liquidi e solidi). Il problema è particolarmente grave perché le 
risorse economiche russe sono insufficienti ad affrontarlo e mancano adeguati 
controlli a causa dello scenario di completo caos nell’amministrazione statale, 
seguito alla disgregazione dell’Unione Sovietica.
Gli altri Paesi che hanno sviluppato attività e programmi nucleari però non 
sorridono. Negli Stati Uniti, esattamente come in Russia, la gestione dei 
rifiuti nucleari è stata in mano ai militari fino a vent’anni fa. Ciò ha 
comportato l’assenza di una supervisione civile e pubblica sulle modalità di 
smaltimento.
Oggi l’eredità della gestione militare americana, non molto attenta all’
ambiente e alla salute dei cittadini, ammonta a 37 milioni di metri cubi di 
scorie radioattive disseminate in vari siti, spesso semplicemente sepolte sotto 
terra senza alcuna protezione (sono 10 le principali aree contaminate). Il 
Dipartimento dell’energia (DOE), che da un decennio sovrintende tutto il 
settore nucleare, compresa la produzione di armamenti, stima un periodo tra i 
70 e i 100 anni, con una spesa da 200 a 1.000 miliardi di dollari, per 
risolvere la questione.
In Europa i rifiuti radioattivi provengono per lo più dal settore civile, non 
essendoci stata la corsa agli armamenti atomici come per gli USA e l’URSS. La 
produzione attuale di scorie nell’Unione Europea ammonta a circa 40.000 metri 
cubi l’anno. La dimensione del problema è variabile nei vari Paesi secondo i 
diversi sviluppi dei programmi nucleari. Francia e Gran Bretagna sono i 
principali produttori, avendo non solo il maggior numero di reattori attivi 
(rispettivamente 59 e 19), ma anche importanti programmi militari.

L’Italia è stato il primo paese industrializzato ad uscire dal nucleare con 
il referendum del 1987, in seguito all’incidente di Černobyl (in Germania nel 
2000 il Governo Federale ha concluso un accordo con le industrie per una 
graduale uscita del Paese dall’energia nucleare entro il 2020; Spagna, Svezia e 
Belgio tra gli anni Ottanta e Novanta hanno avviato programmi simili). Nel 
nostro Paese, perciò, non c’è il problema di una produzione continua di scorie 
dai reattori, però ci sono quelle accumulate nel passato per le quali non è 
stata ancora trovata una soluzione definitiva.
La Sogin, la società subentrata ad Enel nella gestione delle centrali 
atomiche italiane, valuta in circa 60.000 metri cubi il volume complessivo di 
materiale radioattivo da smaltire (comprese le strutture delle vecchie centrali 
chiuse e da demolire), a cui bisogna aggiungere le 500 tonnellate di rifiuti a 
bassa radioattività prodotte annualmente da ospedali, acciaierie e impianti 
petrolchimici, più alcune decine di tonnellate di scorie ad alta radioattività 
che ci torneranno indietro dagli impianti di riprocessamento di Sellafield, in 
Inghilterra e di La Hague, in Francia (gli unici due in Europa). Qui il 
combustibile spento, che contiene ancora una grande quantità (94-95 per cento) 
di uranio e una piccola (2 per cento) di plutonio, potenzialmente 
riutilizzabili, viene ripulito dai cosiddetti prodotti di fissione (3-4 per 
cento), che non sono più utilizzabili e devono quindi essere smaltiti.

Secondo gli ultimi dati dell’International Nuclear Societies Council (INSC), 
ogni anno l’industria nucleare mondiale produce un volume di circa 270.000 
metri cubi di scorie, tra media, bassa e alta radioattività. Il problema, però, 
non sono le quantità, effettivamente non molto elevate se paragonate con quelle 
di rifiuti prodotti dalle centrali a fonti fossili tradizionali (una centrale a 
carbone da 1.000 MegaWatt produce da sola in un anno 400.000 metri cubi di 
ceneri). Il vero problema è l’accumulo nel tempo di sostanze estremamente 
pericolose e che impiegano un tempo troppo lungo, sulla scala dei tempi umani, 
per diventare stabili. Il combustibile spento e scaricato dai reattori ad 
uranio attualmente impiegati (2° e 3° generazione), per esempio, mantiene una 
pericolosità elevata per un milione di anni. Le terre e le acque eventualmente 
contaminate, poi, diventano loro stesse radioattive e lo rimangono per 
centinaia di migliaia di anni.
Gli effetti delle radiazioni dipendono dal tipo e dalla dose ricevuta. 
Possono essere irrilevanti o molto dannosi. La quantità di radiazioni assorbita 
dagli esseri viventi si misura in sievert, un’unità che tiene conto della 
dannosità, a parità di dose, dei vari tipi di radiazioni. Mediamente ogni 
individuo assorbe 2,4 millisievert (un millesimo di sievert) all’anno per 
effetto della radioattività naturale, dovuta ai radionuclidi presenti nelle 
rocce (come il potassio 40, l’uranio e il torio), al radon (gas radioattivo 
presente del sottosuolo) e ai raggi cosmici.
Una dose superiore a 4 sievert è letale. Dosi inferiori possono provocare 
cancro, leucemia e malformazioni nei feti con una probabilità maggiore più è 
alta la dose. L’esposizione ad 1 millisievert all’anno al di sopra della dose 
naturale di radiazioni (limite massimo di dose stabilito dalla legge italiana 
per le persone in luoghi pubblici), corrisponde ad una probabilità di sviluppo 
di tumori mortali dello 0,001 per cento. È chiaro che le persone che subiscono 
un’esposizione prolungata nel tempo (per esempio gli abitanti vicino ad una 
centrale nucleare o a un deposito di rifiuti radioattivi) hanno fortissime 
possibilità di ammalarsi. Alcuni studi condotti dal Centers for Disease Control 
and Prevention, del Dipartimento della Salute degli Stati Uniti hanno 
evidenziato che i due terzi dei decessi per tumore al seno avvenuti in America 
tra il 1985 e il 1989, si sono registrati all’interno di un raggio di 100 
miglia (circa 160 chilometri) dai reattori nucleari.
Al momento l’unico sistema praticabile per smaltire le scorie nucleari è 
quello di depositarle in aree controllate almeno finché la radiotossicità 
diminuisca al valore dell’uranio naturale.
I rifiuti a medio-bassa radioattività, cioè gli indumenti, gli utensili e i 
materiali provenienti dai reparti di radiologia degli ospedali, dagli istituti 
di ricerca e da alcune attività industriali, costituiscono circa il 95 per 
cento dell’intera produzione e sono i meno pericolosi, perciò il loro 
confinamento deve essere garantito al massimo per qualche secolo (in genere 300 
anni sono sufficienti per abbattere di mille volte la radiazione dei 
radionuclidi a vita più lunga come il cesio).
Questi rifiuti vengono confinati in depositi superficiali, tipo trincee, 
silos o tumuli, e l’isolamento viene realizzato tramite barriere in 
calcestruzzo poste in serie, che impediscono la diffusione dei radionuclidi 
verso l’esterno.
I rifiuti ad alta radioattività sono solo il 5 per cento del volume prodotto 
dalle attività umane (tra i 10.000 e i 14.000 metri cubi all’anno), ma 
contengono il 95 per cento della radioattività. Si tratta delle barre di 
combustibile spento dei reattori nucleari e delle scorie solide e liquide che 
si creano durante la produzione del plutonio e durante il riprocessamento.
Le scorie ad alta attività mantengono livelli di radiazione incompatibili con 
l’ambiente per centinaia di migliaia di anni e quindi non è possibile fare 
affidamento su barriere artificiali, che non potrebbero garantire la sicurezza 
per periodi così lunghi. Si prevede così di depositare tali rifiuti, previo 
incapsulamento in matrici vetrose e nei cosiddetti “casks”, ossia contenitori 
cilindrici di acciaio praticamente indistruttibili, in formazioni geologiche 
stabili e profonde centinaia di metri, che possono assicurare, teoricamente, l’
isolamento per milioni di anni, come per esempio le formazioni saline e quelle 
argillose.
I depositi geologici profondi sono ancora in fase di studio o, nei casi più 
avanzati, di realizzazione pilota. In Europa, laboratori sperimentali 
sotterranei sono in costruzione in Finlandia, Svezia, Francia e Svizzera. Il 
progetto più avanzato è quello finlandese che dovrebbe vedere la luce nel 
2020.
Negli Stati Uniti dal 1999 è in esercizio, vicino a Carlsbad nel New Mexico, 
il Waste Isolation Pilot Plant (WIPP), il primo e, per ora, unico deposito 
geologico funzionante al mondo per lo smaltimento di scorie radioattive (in una 
miniera di sale a 700 metri di profondità, per un volume totale di 175.600 
metri cubi). L’impianto, però, non è destinato ai rifiuti radioattivi ad alta 
attività, bensì allo smaltimento di indumenti, utensili e materiali contaminati 
da plutonio e da elementi transuranici, tutti a bassa e media attività.
La realizzazione di un deposito geologico per i rifiuti nucleari non è un’
operazione semplice. Al di là dei costi enormi (finora il WIPP è costato un 
miliardo di dollari), un sito permanente di stoccaggio di scorie radioattive 
solleva problemi di accettabilità sociale notevoli. Inoltre nessuno può 
garantire per centinaia di migliaia di anni l’effettiva tenuta di qualunque 
formazione geologica.
Un anno fa, nel Marzo del 2008, il famoso progetto americano di un deposito 
geologico definitivo per le scorie ad alta attività, posto a 300 metri di 
profondità sotto la Yucca Mountain, nello Stato del Nevada, è stato 
definitivamente abbandonato, nonostante i quasi 8 miliardi di dollari già 
spesi. Il DOE aveva garantito la stabilità del sito e la sua tenuta all’aria e 
alle infiltrazioni d’acqua per 10.000 anni (anche se il picco nelle emissioni 
radioattive si sarebbe verificato dopo 400.000 anni), ma le forti proteste 
delle associazioni ambientaliste, dell’Epa, l’Agenzia federale degli Stati 
Uniti per la protezione dell’ambiente, e dello stesso Stato del Nevada da 
sempre contrari, hanno vinto la lunghissima battaglia (il progetto originale 
risale a vent’anni fa).

Anche in Italia, nel 2003, si cercò di costruire un deposito geologico 
permanente per i rifiuti radioattivi, a Scanzano Jonico, in Basilicata. Il 
progetto venne bloccato quasi immediatamente, non solo per le vivaci proteste 
degli abitanti della zona, provocate soprattutto dal grave errore politico del 
Governo che tentò d’imporre la decisione dall’alto senza consultare le autorità 
locali e informare preventivamente la popolazione sulle caratteristiche del 
progetto, ma anche per la ferma opposizione di autorevoli scienziati (tra cui 
il premio Nobel Carlo Rubbia). Al contrario di quanto affermato dalla Sogin, fu 
rilevato che Scanzano Jonico non ha i criteri minimi di sicurezza previsti dall’
Agenzia Internazionale dell’Energia Atomica (IAEA). Si trova, infatti, in zona 
sismica, è troppo vicino a centri abitati, a fiumi e a falde acquifere 
superficiali, è in un’area soggetta a frane, erosioni ed alluvioni ed è a meno 
di un chilometro di distanza da un giacimento metanifero. Tutte le 
caratteristiche peggiori per costruire un deposito di scorie radioattive.
Date le enormi difficoltà di realizzare un deposito geologico e premesso che 
in seguito ad accordi e trattati internazionali ogni Paese deve smaltire i 
propri rifiuti nucleari e che non è permesso usare come depositi i ghiacci dell’
Antartide e i fondali marini (fino alla Convenzione di Londra del 1995 che lo 
ha vietato, il seppellimento nei fondali marini era uno dei sistemi più quotati 
dai Paesi produttori di energia atomica), in tutto il mondo si stanno studiando 
piani alternativi.
Il progetto più interessante, che vede coinvolta direttamente l’Italia con l’
Enea e il professor Carlo Rubbia, è quello dei reattori dedicati alla 
trasmutazione e degli acceleratori di particelle accoppiati a reattori per la 
trasmutazione, tecnologie in grado di abbreviare notevolmente il tempo di 
radioattività dei rifiuti provenienti dalle centrali nucleari (quelli ad alta 
attività), permettendo un ulteriore recupero energetico. La trasmutazione 
significa trasformare le scorie mediante un bombardamento di neutroni: in 
questo modo, uranio e plutonio diventano sostanze diverse non più radioattive o 
che emettono radiazioni al massimo per 600 anni, cioè un tempo molto più breve, 
nel quale si può gestire agevolmente il loro confinamento.
Un’altra scoperta estremamente importante è stata fatta da alcuni ricercatori 
americani dell’Institute for Genomic Research e dell’Università del 
Massachusetts. Nel 2003 hanno sequenziato il genoma di uno straordinario 
microrganismo del suolo, il “Geobacter sulfurreducens”, un batterio in grado di 
metabolizzare i metalli radioattivi come l’uranio. La sequenza genomica del 
“Geobacter” permetterà la messa a punto di tecnologie di bonifica delle acque 
di falda e dei terreni contaminati.
Per ora, però, non è prevedibile quando queste ricerche potranno avere un’
applicazione a grande scala.
La contea di Hanford, nello Stato di Washington negli Stati Uniti, è un altro 
luogo di morte invisibile. Dal 1943, anno di entrata in funzione dei reattori 
di Hanford (qui fu fabbricato il plutonio per la bomba sganciata su Nagasaki), 
fino al 1989 furono riversati nell’ambiente circostante e nelle acque del fiume 
Columbia ingenti quantità di elementi radioattivi, tra cui il micidiale iodio 
131 (isotopo altamente radioattivo dello iodio), un sottoprodotto gassoso della 
produzione di plutonio. Nonostante i tecnici della centrale avessero registrato 
fin dagli anni Quaranta una diffusione sempre più ampia dello iodio 131 (fino a 
150 miglia dalle ciminiere), non fecero nulla, non modificarono la produzione 
e, anzi, tennero segreti per anni le analisi effettuate sui campioni di acqua e 
terreno.
Soltanto negli anni Ottanta incominciarono a circolare le prime notizie sulla 
reale situazione di contaminazione, quando l’aumento esponenziale dei casi di 
cancro nella popolazione e delle malformazioni dei bambini e degli animali nati 
nelle zone agricole della contea fece preoccupare seriamente il DOE e gli 
stessi funzionari della centrale. Fu anche e soprattutto grazie alla battaglia 
coraggiosa di Michele Gerber, abitante della zona e madre di famiglia con un 
PhD in storia all’Università di New York, se l’impianto di Hanford venne 
definitivamente chiuso. Il suo libro On the Home Front, pubblicato nel 1992, 
denunciò la responsabilità diretta dei tecnici della centrale e il loro 
silenzio omertoso sull’inquinamento radioattivo.
Oggi Hanford è una potenziale nuova Černobyl. Ospita il più vasto deposito di 
scorie ad alta radioattività degli Stati Uniti: 200 milioni di litri di rifiuti 
liquidi derivati dalla produzione del plutonio, 2.100 tonnellate di 
combustibile spento, 4 tonnellate di plutonio, 700.000 metri cubi di rifiuti 
solidi e un miliardo di metri cubi di terra contaminata. Le scorie radioattive, 
conservate per anni in contenitori inadeguati, si sono decomposte in sostanze 
altamente esplosive e sono diventate delle vere e proprie bombe atomiche, 
pronte ad esplodere alla prima scintilla. L’area, contaminata da decenni di 
scarichi scriteriati, è vasta circa 1.450 chilometri quadrati (la metà della 
Valle d’Aosta) e per risolvere il problema sono impiegate 1.240 persone a tempo 
pieno, con un budget annuale di 500 milioni di dollari.
Di fronte a questi luoghi, sorge un dubbio inquietante: quanti cimiteri 
nucleari come Hanford e Mayak ci sono nel mondo? Probabilmente molti più di 
quanti possiamo immaginare, vista la segretezza con cui sono stati condotti gli 
esperimenti atomici durante la guerra fredda.
Per evitare che il nostro Pianeta si trasformi in un deserto radioattivo, 
bisogna trovare al più presto una soluzione. Michele Gerber qualche anno fa ha 
detto: “in fondo non ho mai desiderato altro che un fiume pulito”.