[Disarmo] Latorre: «La lotta al terrorismo è priorità. Ma vogliamo la verità su Regeni»



Latorre: «La lotta al terrorismo è priorità. Ma vogliamo la verità su Regeni»

Italia/Egitto. Il presidente della commissione Difesa del Senato nega: «Nessun patto con Al Sisi». «Non stiamo dando un giudizio sul regime egiziano. Se dovessimo attenerci ai dati delle associazioni dei diritti umani, il 50% dei diplomatici andrebbe ritirato»

Eleonora MartiniIl Manifesto

«Quanto è accaduto a Barcellona conferma l’assoluta priorità della lotta al terrorismo, non solo per il nostro Paese. Sul piano interno con efficaci iniziative di prevenzione, ma contestualmente con forti azioni politiche e diplomatiche volte a stabilizzare il Mediterraneo, perché la destabilizzazione di questa area incentiva l’attività terroristica. In questo senso va letta anche la decisione di rinviare l’ambasciatore italiano al Cairo». Ne è proprio convinto, il piddino Nicola Latorre che come presidente della commissione Difesa del Senato ha guidato un mese fa la missione degli sherpa (insieme con il forzista Gasparri e il pentastellato Santangelo) per la riapertura delle relazioni diplomatiche con l’Egitto. Nella persuasione, evidentemente, che la lotta a questo tipo di terrorismo possa avvalersi di un alleato come il generale golpista Al Sisi.

«Un’iniziativa parlamentare in progetto da tempo e presa in modo assolutamente autonomo. Di cui naturalmente ho informato la Farnesina, spiegando che era finalizzata a rompere lo stallo in cui era precipitato il caso Regeni». «Purtroppo – aggiunge riferendosi alla tempistica da lui ritenuta sospetta dell’articolo del New York Times – quando l’Italia alza la testa nel Mediterraneo, c’è sempre qualcuno che tenta di ridimensionarne il ruolo e alimentare le tensioni».

Sarà per questo, per far freddare gli animi, che i presidenti delle commissioni Esteri di Camera e Senato, Cicchitto e Casini, si sono imputanti sulla data del 7 settembre per convocare il governo a riferire sull’invio ferragostano dell’ambasciatore al Cairo e sulle accuse del magazine statunitense, anziché cedere alle richieste di Si, M5S e soprattutto della presidente Boldrini. La quale prima con una telefonata diretta a Cicchitto e poi con una nota formale, ha chiesto di anticipare l’informativa del governo almeno di una settimana, per «tenere alta l’attenzione sulla tragica fine di Giulio Regeni», facendo notare peraltro che in passato è già successo di riunire le camere anche il 20 agosto.

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Senatore Latorre, quali rassicurazioni ottenne da Al Sisi in cambio dell’invio dell’ambasciatore Cantini?
Non abbiamo avuto alcuna rassicurazione. Questa è una ricostruzione sbagliata. Noi tutti insistemmo col dire che la verità su Regeni era una assoluta priorità e che questo stallo della collaborazione giudiziaria non era più tollerabile. La cosa che mi colpì è che Al Sisi non solo disse che è anche interesse loro conoscere la verità ma a fine incontro si rivolse ai suoi affermando la volontà di invitare presto la famiglia Regeni in Egitto.

Lo aveva già detto nell’intervista a Repubblica che secondo il NYT era stata ispirata dai servizi. Ma cosa promise il generale?
Nulla, fummo noi che chiedemmo di verificare questa sincera volontà di cercare la verità con una ripresa seria della collaborazione giudiziaria. E devo dire che da questo punto di vista quello che è accaduto dopo conferma la giusta direzione.

Lo dice perché ha visto i documenti trasmessi dalla procura del Cairo?
No, mi fido di quello che dice la procura di Roma. Perché ritengo che il governo prima di prendere questa decisione ha valutato con la procura la serietà e la consistenza del materiale probatorio, anche se deve essere ancora tradotto dall’arabo. Però gli interrogatori degli agenti e la promessa di fare analizzare a settembre i video ripresi dalle telecamere della metro sono elementi che evidentemente hanno convinto procura e governo della reale ripresa della collaborazione.

Lei afferma davvero che il rinvio dell’ambasciatore al Cairo è stato deciso dopo aver visionato i documenti?
Le dico quello che ritengo possa essere successo. Come può immaginare è una decisione che non ho preso io.

La procura di Roma non ha espresso un giudizio molto netto in questo senso.
La mia sensazione è che si sia rimessa in moto una cooperazione. Comunque, guardi, lo voglio dire in modo netto: con tutto il rispetto per la posizione della famiglia Regeni io credo che, una volta ripresa la collaborazione giudiziaria, l’assenza dell’ambasciatore diventa un motivo di pressione politica, di propaganda politica, ma non è finalizzata alla ricerca della verità, anzi la preclude definitivamente. Naturalmente io ho il massimo rispetto dell’opinione della famiglia Regeni anche per l’estremo garbo con cui ha sollevato queste questioni. Però abbiamo opinioni diverse.

Ci spiega in cosa consiste questa figura che affiancherà l’ambasciatore – si parla di un magistrato o di un funzionario di polizia giudiziaria – e quale ruolo può avere?
Credo che questa figura avrà un profilo tale da poter partecipare attivamente alle prossime fasi d’indagine.

Cioè quello che non potevano fare né i Ros né gli inviati del procuratore Pignatone?
Se c’è l’autorizzazione degli egiziani.

Sta nel patto raggiunto con Al Sisi?
Non so se c’è stato un patto, presumo che se l’ambasciatore sarà affiancato da questa figura vuol dire che sarà stata autorizzata dagli egiziani a collaborare alle indagini. La commissione Difesa ha solo assunto un’iniziativa per rimettere in moto la collaborazione giudiziaria, auspicabilmente per riprendere anche le relazioni diplomatiche. Tutto il resto lo ha deciso naturalmente il governo.

Il senatore Gasparri che era con lei da Al Sisi ha riferito che la vostra missione «ha sopperito alle inadeguatezze della procura di Roma». Non è in contraddizione con quanto lei riferisce ora?
È un’opinione di Gasparri che non condivido assolutamente. Smentisco che sia stata una finalità della nostra missione. Ritengo invece che la procura di Roma abbia svolto una funzione importantissima e se noi oggi possiamo tenere ancora aperta una speranza di giungere alla verità è grazie al suo lavoro preziosissimo.

Lei si fida di Al Sisi, lo ritiene un interlocutore democratico affidabile?
Ritengo che ci sia una forte minoranza nel nostro Paese che sta utilizzando il caso Regeni per sostenere una, rispettabile, battaglia contro il regime egiziano ma non per la ricerca della verità. Qui non si tratta di dare un giudizio su Al Sisi. Se dovessimo attenerci a queste valutazioni o ai dati delle associazioni dei diritti umani, le cui battaglie sono comunque condivisibili, la metà dei nostri diplomatici dovrebbe essere ritirata.