[Disarmo] Con le ricette del Fmi l’Ucraina post Maidan è un paese fallito



Con le ricette del Fmi l’Ucraina post Maidan è un paese fallito

Reportage dall'Ucraina. Il sistema sanitario è collassato ma il presidente Poroshenko insiste nel cercare un «casus belli» contro la Russia di Putin. Nel 2014 le barricate a Kiev: destituito l’ex leader Janukovic l’estrema destra è arrivata al governo

Yurii ColomboIl Manifesto

Ieri Petro Poroshenko è atterrato a Washington e ha incontrato Donald Trump. Il presidente ucraino ha dimostrato nelle scorse settimane di voler accelerare, per riportare il Donbass sotto il suo controllo.

PRIMA DI PARTIRE ha fatto mettere ai voti alla Rada, il parlamento ucraino, una direttiva per «reintegrare le provincie di Donezk e di Lugansk nel territorio repubblicano». Poroshenko, secondo le indiscrezioni circolate a Kiev, potrebbe aver chiesto al presidente Usa missili anticarro Javelin e la garanzia che i flussi finanziari americani (oltre 4 miliardi di dollari dal 2014) continuino come durante la presidenza Obama.

KRESHATIK È IL VIALONE DI KIEV che conduce a piazza Maidan. Qui nel febbraio del 2014 c’erano le barricate, su cui garrivano bandiere rossonere. E agli incroci ben ordinati cumuli di porfidi e bottiglie pronte a diventare molotov. Kiev poteva sembrare il Quartiere Latino di Parigi del maggio ’68, ma la rivolta di Kiev era di segno opposto e le bandiere rossonere non erano anarchiche ma di Praviy Sektor, l’organizzazione «banderista» di estrema destra. Janukovic, il presidente ucraino in carica venne deposto, e di lì a poco giunse alla presidenza, Petro Poroshenko, il «re del cioccolato», il padrone del gruppo dolciario Roshen.

L’ANNESSIONE DELLA CRIMEA da parte della Russia e la guerra civile nel Donbass, non hanno certo aiutato un’economia al collasso. Nella capitale si potrebbe pensare che le cose non vadano poi così male ma appena ci si sposta di cento chilometri nella vicina Cernigov, città che diede i natali a Angelica Balabanoff, il panorama cambia.
Carcasse di autobus carichi di operai della locale fabbrica di birra rantolano lungo quella che fu Prospekt Lenin. Oleg, ha 40 anni e ci ha passato la vita in questa fabbrica. «Guadagno l’equivalente di 150 dollari. Ho una moglie malata e una figlia, non pago il condominio da anni…Il sindacato? Qui non esiste, c’è ancora qualche sciopero nelle zone minerarie».

Nei cambiavalute la divisa locale, la grivnia, viene scambiata a 30 contro l’euro; quando se ne andò Janukovic era a 9. I «fondamentali» dell’economia ucraina fanno rabbrividire: salari medi intorno ai 200 dollari, inflazione al 13 per cento, produzione industriale nell’ultimo quadrimestre – 6,2 per cento. Il Pil dovrebbe rimbalzare nel 2017 di 2 punti ma dal 2014 al 2016, il Pil nominale è passato da 183 miliardi di dollari a 87. Il default è stato evitato solo dal Fondo monetario che ha concesso un prestito di 17,5 miliardi di dollari in cambio di una vaga promessa del governo ucraino di combattere la corruzione, di privatizzare e aumentare l’età pensionabile.

LO SCONTRO CON LA RUSSIA prosegue in modo serrato. L’applicazione degli accordi di Minsk, sottoscritti da tutte le parti, con cui si intendeva giungere a un reintegro delle due provincie ribelli di Donetsk e Lugansk nell’Ucraina in cambio dell’ autonomia locale è restata lettera morta. Disattesi dagli ucraini che sono giunti persino a bloccare dal gennaio 2017 le esportazioni di carbone dal Donbass ma anche dai russi che non hanno mai ritirato i dal fronte i loro «consiglieri» militari.

Igor, un blogger di Kiev che ha visitato il Donbass recentemente racconta di un paesaggio desolato. 10 mila morti in 3 anni. L’aeroporto e la stazione ferroviaria di Donetsk sono cumuli di macerie; ponti, strade, acquedotti sono in gran parte in disuso per mancanza di manutenzione. I giovani sono quasi tutti andati a lavorare in Russia e nelle miniere di carbone, nazionalizzate dalle «Repubbliche Popolari», la produzione va a singhiozzo e spesso i salari non vengono pagati.

IL PARADOSSO di queste «Repubbliche» che in ogni modo cercano di mimare il passato sovietico lo si misura nei negozi: sparita la grivnia ucraina, si paga tutto in dollari e solo a malincuore si accettano rubli. Nel Donbass c’è voglia di diventare provincia russa a tutto tondo, ma tutti sanno che questo è solo un sogno.
La guerra, del resto, prosegue seppur a bassa intensità. Quasi cento morti dall’inizio dell’anno. Da quando Poroshenko ha dovuto mettere in soffitta l’idea di una mobilitazione dei giovani di leva, per la netta opposizione dell’opinione pubblica persino nelle regioni occidentali, l’esercito ucraino non è riuscito a fare nessun passo avanti sui teatri del conflitto. Anzi, «i ribelli» avrebbero potuto conquistare agevolmente anche la città di Mariupol, mezzo milioni di abitanti e lo sbocco al mar d’Azov, se il governo russo per evidenti ragioni diplomatiche non avesse posto un deciso «niet».

LE MISURE CONTRO MOSCA prese in questi mesi dal governo ucraino sembrano puntare in una sola direzione: cercare il casus belli per coinvolgere anche la Nato nel conflitto anche se a Bruxelles, si vuole evitare che le tensioni con la Russia crescano ancora.

Così il paese galleggia incerto e a farne le spese sono sempre i più deboli. Il sistema sanitario è collassato e ci si opera, anche negli ospedali pubblici, solo se si hanno i soldi per pagare i chirurghi e gli anestesisti. Spesso contraendo un prestito che da queste parti viene erogato a tassi d’interesse del 30 per cento.

IL LAVORO non è difficile da trovare solo che i salari difficilmente raggiungono i 150 dollari e così molte ragazze preferiscono la sera sostare vicino ai agli alberghi di lusso frequentati da stranieri, in attesa di un mecenate. Oppure decidono di migrare. «Ora che non c’è più il visto per l’Europa, a settembre vado a Berlino» ci dice Olga che ha interrotto gli studi e vende ortaggi al mercato di Kiev. «Forse lì c’è ancora un futuro».