Re: [Disarmo] Quattro stereotipi sulla guerra in Siria



Grazie Rossana per questa utile sintesi delle tesi,gomblotti e stereotipi che abbiamo,purtroppo non tutte godono della stessa forza mediatica(chissa come mai);infatti ti sono grato per quella di Kennedy che non conoscevo affatto,e confesso che la ritengo di gran lunga la più convincente:non sono ovviamente in grado di esprimere sentenze da quì,ma proprio perchè quì sono,mi domando come posso ostacolare l'intervento della NATO.
quello che mi sento di dire riguardo la complessità di interessi che ci sono in campo,ritengo doveroso e onesto analizzare cosa è adesso,l'opposizione dei tagliagole al regime di Assad,e non cosa sarebbe potuto e dovuto essere;su questo vedo molte analogie con piazza Maidan,nessuno mette in dubbio che ci fossero spontanee manifestazioni contro un regime corrotto,ma i conti si fanno con chi ha adesso l'egemonia di quel paese e sono gli USA;quello che manca in questa sintesi e l'ordine superiore che prevale sugli interessi regionali e si chiama guerra contro il mondo multipolare,mi sembra superfluo dire quì chi la fà e perchè.
PS colgo l'occasione per augurare Buona Pasqua tutti:da parte di un fondamentalista Ateo. 

Il giorno 26 marzo 2016 08:42, rossana123 at libero.it <rossana123 at libero.it> ha scritto:
(vedere parte ripresa da qui http://www.politico.eu/article/why-the-arabs-dont-want-us-in-syria-mideast-conflict-oil-intervention/ di Robert F. Kennedy, Jr)

Quattro stereotipi sulla guerra in Siria

 Caroline Hayek, L’Orient le Jour, Libano

Una guerra si combatte su tutti i fronti, in particolare su quello dell’informazione. Il conflitto siriano, che il 15 marzo è entrato nel suo sesto anno, non fa eccezione. I governi, i mezzi di comunicazione, gli analisti forniscono versioni diverse che – volutamente o no – alimentano la confusione sulla natura e gli interessi di questo conflitto. In questo mare di informazioni caotiche, mito e realtà si confondono. Anche teorie che non si basano su alcun fatto concreto sono riprese sui social network e influenzano profondamente la comprensione dell’opinione pubblica.

Ecco quattro stereotipi sulla guerra siriana duri a morire.

1. La guerra in Siria è una guerra di religione

Una guerra di religione è una guerra che contrappone i sostenitori di religioni diverse. Ma anche se l’aspetto confessionale del conflitto siriano non può essere ignorato, non si può parlare di una guerra di religione. La tesi di un semplice scontro tra la maggioranza sunnita, che rappresenta più del 72 per cento della popolazione siriana, e la minoranza dirigente alawita, ramo della religione sciita, non ha alcun fondamento concreto.

Sulla scia delle primavere arabe, la rivolta contro il regime al potere, considerato repressivo e corrotto, è cominciata nel 2011. Alle manifestazioni di protesta hanno partecipato tutte le comunità. Anche i cristiani, spesso presentati come un blocco unitario favorevole al regime, hanno partecipato a queste manifestazioni. A Daraya, città della periferia sud di Damasco per lo più sunnita, dove viveva una comunità cristiana, le prime proteste pacifiche sono state fatte al suono delle campane delle chiese. Alcune personalità provenienti dalla comunità assira hanno subìto la repressione del regime, come Gabriel Mouchi Kouriyed, arrestato a Qamishli il 19 dicembre 2013 e poi condannato per “contatti con personalità dell’opposizione esterna”.

Altre figure dell’opposizione siriana cristiana, come Michel Kilo, giornalista ed esponente della Coalizione nazionale siriana delle forze dell’opposizione e della rivoluzione, e Georges Sabra, presidente del Consiglio nazionale siriano (un’istituzione dell’opposizione in esilio) hanno dovuto subire la confisca dei loro beni da parte del regime. Nel 2011 Sabra è stato il leader del movimento di rivolta della sua città, Qatana, e per questo motivo è stato imprigionato con l’accusa di aver “minacciato il morale dello stato”, di aver voluto “creare un emirato islamista (a Qatana) e di aver ” incitato la gente a manifestare “contro il regime del presidente Bashar al Assad.

Con il protrarsi del conflitto la sua dimensione confessionale ha assunto sempre più rilevanza, a causa delle strategie del regime e dei suoi alleati, ma anche per le politiche delle potenze regionali dome Turchia, Qatar e Arabia Saudita, che hanno sostenuto l’opposizione armata. Questa opposizione armata è oggi composta solo da sunniti. La popolazione che vive nelle regioni ribelli è esclusivamente arabo-sunnita. Anche il reclutamento militare avviene in base a criteri confessionali. I combattenti stranieri a fianco del regime – libanesi, afgani, pachistani, iraniani e iracheni – sono scelti a causa della loro appartenenza alla comunità sciita. I jihadisti dello Stato islamico o del Fronte al nusra (ramo siriano di Al Qaeda) invece reclutano solo sunniti, qualunque sia la loro nazionalità.

Tuttavia non sarebbe giusto presentare il conflitto siriano come una guerra tra sunniti e sciiti. La città di Aleppo ne è l’esempio migliore. Sia parte ovest, controllata dal regime, sia la parte est, nelle mani dell’opposizione, sono abitate soprattutto da sunniti. Qui il principale fattore di separazione è l’appartenenza sociale (borghesia/classi popolari) e non l’appartenenza comunitaria. Allo stesso modo, la provincia di Latakia, considerata come un feudo della famiglia Assad, è oggi per lo più popolata da sunniti che sono fuggiti dalle zone di guerra e si sono rifugiati nelle aree controllate dal governo.

Altri criteri comunitari e sociali si aggiungono al criterio etnico. I curdi siriani (più dell’8 per cento della popolazione) sono per il 95 per cento sunniti, ma questa minoranza non è entrata in conflitto diretto con il potere e non si è neppure unita alla rivolta.

2. L’obiettivo della guerra in Siria sono il gas e il petrolio

Su internet sono numerose le teorie del complotto sull’origine della guerra in Siria. Queste teorie si basano sulle affermazioni di diverse personalità di primo piano, di esperti o di giornalisti. Per esempio Robert Kennedy Junior ha rivelato il mese scorso su Politico le “vere ragioni della guerra in Siria”. Secondo Kennedy “la decisione statunitense di organizzare una campagna contro Assad non è cominciata con le manifestazioni pacifiche della primavera araba del 2011, ma nel 2009 quando il Qatar si è offerto di costruire un oleodotto da dieci miliardi di dollari che avrebbe attraversato l’Arabia Saudita, la Giordania, la Siria e la Turchia”. Molto prima di lui l’ex ministro degli esteri francese Roland Dumas aveva affermato che “i britannici preparavano la guerra in Siria già due anni prima delle manifestazioni del 2011”. Queste tesi accreditano la teoria ufficiale del regime siriano, che si dice vittima di un complotto internazionale. Come ogni teoria del complotto, quella sul controllo degli idrocarburi in Siria ha un fondo di verità, ma la deforma facendone l’unica chiave di lettura di un conflitto dagli aspetti molteplici.

Nel 2009 il Qatar ha effettivamente proposto ad Assad la costruzione di un gasdotto capace di collegare i loro due paesi passando per l’Arabia Saudita e la Giordania e portare il gas dal giacimento North dome nel golfo Persico verso l’Europa. Ma Damasco ha rifiutato il progetto del Qatar e nel 2011 ha firmato un accordo con Teheran per la costruzione di un gasdotto tra l’Iran e la Siria attraverso l’Iraq. Secondo un rapporto dell’agenzia France-Presse (Afp) la motivazione del rifiuto di Assad era quella di “proteggere gli interessi del (suo) alleato russo, primo fornitore di gas all’Europa”. Tutti gli attori esterni del conflitto siriano – cioè l’Iran, la Russia, il Qatar, l’Arabia Saudita, la Turchia e gli Stati Uniti – sono potenze che hanno importanti risorse energetiche, e il territorio siriano ha una posizione strategica per portare il gas dai paesi arabi o dall’Iran in Europa.

Ma anche se la questione energetica è uno dei motivi del conflitto siriano, non è il più importante e non basta a spiegarne l’origine. Lo scontro politico tra l’Iran e l’Arabia Saudita per l’egemonia regionale è più importante della questione energetica.

Del resto i limiti di questa tesi sono evidenti: i russi e gli iraniani, per esempio, hanno interessi contrastanti in tema di idrocarburi, ma cooperano per sostenere Assad. Gli occidentali invece, in particolare Stati Uniti e Israele, che sono accusati di aver fomentato l’insurrezione, sono rimasti relativamente defilati rispetto alle potenze regionali e alla Russia. Gli interventi delle potenze regionali sono stati tutti motivati da considerazioni politiche, strategiche e religiose e non dalla volontà di instaurare la democrazia in Siria. Ma diffondere l’idea di un complotto contro la Siria serve a liberare il regime e i suoi alleati dalle loro responsabilità e a nascondere le reali origini delle manifestazioni del 2011: la lotta pacifica e multiconfessionale contro un regime repressivo.

3. La Siria è uno stato laico

Nel novembre del 2012, in un’intervista concessa alla tv russa Russia Today (Rt), il presidente siriano affermava che il suo regime era “l’ultima roccaforte della laicità in Medio Oriente”. Ma qual è la situazione reale? In una tesi intitolata “La problematica della laicità attraverso l’esperienza del partito Ba’th in Siria” (2012), Zakaria Taha chiarisce bene la presunta laicità del regime siriano. “La laicità è un aspetto importante dell’ideologia del partito Ba’th, al quale sono affezionati molti sostenitori di questo movimento. Con la trasformazione del potere politico in regime autoritario, la laicità è stata oggetto di una strumentalizzazione da parte dei dirigenti, il cui obiettivo principale è quello di mantenere il potere”.

Ma lo stato è veramente separato dalla religione? Secondo la costituzione siriana del 1973 il presidente deve essere musulmano, ma l’islam non è una religione di stato. La famiglia Assad ha sempre potuto fare affidamento su un ministero degli affari religiosi e su un muftì della repubblica per gestire una burocrazia islamica. E come ricorda Jean-Pierre Filiu nel suo articolo sul “Mito della laicità degli Assad”, ogni venerdì gli imam in Siria devono celebrare la gloria del capo dello stato e i suoi successi. Per dimostrare la sua laicità, il regime ha “cercato di promuovere la rappresentatività delle comunità, in particolare di quelle minoritarie, nel governo e nell’esercito. Questo rappresenta un mezzo per ottenere l’appoggio delle diverse comunità e per presentarsi all’esterno come un regime sensibile ai diritti delle minoranze”, osserva Taha. Gli alawiti, da cui proviene la famiglia Assad, occupano i vertici del potere, ma il partito ha sempre garantito una rappresentanza alle minoranze religiose e ha ottenuto il sostegno di numerose personalità sunnite. Taha conclude che “la laicità rimane l’unica carta da giocare per il regime, che si presenta nei confronti delle minoranze come il solo bastione contro la violenza”.

4. Lo Stato islamico è una creazione…

Le origini del gruppo Stato islamico (Is) non sono note. Molte teorie, spesso contraddittorie, attribuiscono la paternità del movimento jihadista a una o più potenze internazionali. Le due tesi più diffuse affermano che l’Is sarebbe rispettivamente una creazione di Assad o degli Stati Uniti e dei loro vassalli in Medio Oriente, Israele e l’Arabia Saudita.

…del governo siriano

La prima tesi si basa su due argomenti: lo stato siriano compra gli idrocarburi dall’Is e (secondo argomento) farebbe solo finta di combattere il gruppo jihadista. Il primo argomento è confermato ed è stato anche oggetto di diversi articoli dettagliati, come quello di Le Monde del 26 febbraio 2016 intitolato “In Siria il regime, la Russia e lo Stato islamico uniti per sfruttare i giacimenti di gas”. Ma il regime non è l’unico a comprare petrolio all’Is. L’organizzazione jihadista si è infatti impadronita di molti giacimenti, e di conseguenza tutte le fazioni del conflitto siriano sono costretti a collaborare con esso per avere gas e petrolio.

Il secondo argomento invece poteva essere sostenuto fino al giugno del 2014. In effetti fino ad allora il regime e l’Is avevano evitato lo scontro diretto e si erano concentrati sulla lotta contro le milizie ribelli. Ma da quel momento in poi i due schieramenti si affrontano un po’ ovunque nel paese. Gli jihadisti inoltre hanno moltiplicato gli attentati contro le posizioni governative, colpendo in particolare in febbraio la città di Homs e il mausoleo di Sayyeda Zeinab. La strumentalizzazione dei gruppi jihadisti da parte del regime di Assad, soprattutto nel momento dell’intervento statunitense in Iraq e la liberazione, nel 2011, dei prigioni islamisti, ha contribuito a rendere popolare la tesi di un’alleanza fra l’Is e il regime. Ma questa idea non tiene conto di un fatto essenziale: l’Is è fondamentalmente un’organizzazione irachena.

…degli Stati Uniti, di Israele e dell’Arabia Saudita

Secondo Kennedy Junior “la Cia ha utilizzato l’Is per proteggere gli interessi degli Stati Uniti sugli idrocarburi e per strumentalizzare le forze radicali in modo da ridurre l’influenza dell’(ex) Unione Sovietica nella regione”. Le affermazioni della presentatrice della tv egiziana Al Hayat, Iman Izz al Din, nel novembre del 2015, vanno ancora più lontano. Per lei, l’Is “è una creazione israelo-anglo-americana e le sue iniziali – Isis – non sono altro che quelle dell’Israeli secret intelligence service (i servizi segreti israeliani). Il capo dell’Is, Abu Bakr al Baghdadi è un ebreo, tale Simon Elliot, sostenuto dal senatore statunitense John McCain. Sui social network si parla molto delle analogie con Osama bin Laden, il cui addestramento militare in Afghanistan da parte della Cia non è certo un segreto per nessuno”.

Gli Stati Uniti hanno senza dubbio una parte di responsabilità nella creazione dell’Is a causa del loro intervento in Iraq. L’Is è in effetti uscito Al Qaeda in Iraq, che ha potuto espandersi grazie all’intervento statunitense. Allo stesso modo anche le petromonarchie del golfo Persico e la Turchia hanno la loro parte di responsabilità nell’espansione dell’organizzazione jihadista. La Turchia, infatti, per molto tempo ha chiuso gli occhi sui jihadisti che volevano andare in Siria e all’inizio l’Is ha potuto contare sui finanziamenti arrivati dal golfo Persico. Ma oggi tutte le potenze della regione, a eccezione di Israele, sono impegnate nella lotta contro l’Is, che costituisce una reale minaccia per loro.

Tuttavia questa lotta non è per loro una priorità e quindi hanno fatto – e continuano a fare – il gioco dell’organizzazione jihadista, che è forte soprattutto grazie alla debolezza o all’ipocrisia dei suoi avversari. Tenuto conto dei legami tra le fazioni del conflitto e della storia dell’organizzazione, fare di una sola potenza la responsabile dello sviluppo del movimento è un’idea semplicistica e per ora impossibile da dimostrare.

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