[Disarmo] R: R: R: R: R: Disarmo nucleare, un'occasione sprecata



Se seguite un po' il Manifesto (fino a prova contraria non è pagato dalla CIA) pare che stiamo per assistere ad una recrudescenza delle atrocità dei "palestinesi" contro i "palestinesi" nella stessa Gaza.
Ovviamente è un errore nominare i "popoli", come se fossero entità politiche omogenee, e non le organizzazioni politiche che li organizzano, spesso in modo non democratico.
Vanno quindi fatti ragionamenti politici ed occorre esercitare supporti politici - i "pacifisti" dovrebbero farlo a fini di pace - che vanno distinti dalle solidarietà e dagli aiuti umanitari alla gente comune.
Ha, a mio modesto avviso, il sapore di una "fissazione"  vedere come risposta a dei post sulla guerra nucleare  discussioni sullo "Stato ebraico" in una lista che dovrebbe focalizzarsi sul disarmo.
E', oltretutto, un bel passo indietro rispetto a quando, ai cortei, si gridava nel '68: Ira, Feddayn, Tupamaros, Vietcong!
Ai soggetti politici richiamati nello slogan si attribuiva perlomeno una tensione alla rappresentanza "rivoluzionaria" dei loro "popoli"!
Ve lo chiedo con sincera curiosità: come mai la resistenza dei Curdi comunisti ( e soprattutto delle curde) a Rojane non suscita in voi altrettanta passione delle varianti di fascismo islamico eterodirette tra cui oggi purtroppo si tratterebbe di scegliere in eventuali gemellaggi politici?

Siccome ho poco tempo, mi permetto però di fare parlare a mio nome Lorenzo Guadagnucci quando interviene sul conflitto israeliano-palestinese ponendo il problema di una strategia nonviolenta nel piccolo sputo di terra coinvolgente, se ci pensiamo bene, una popolazione tutto sommato esigua (mettendo pure insieme "giudei", "musulmani" e quanti altri):

"Ormai molti anni fa Joahn Galtung, uno dei pensatori e attivisti più noti e impegnati in ambito nonviolento, espose in un libro oggi introvabile (lo pubblicò Sonda) la sua proposta di “soluzione nonviolenta” per Israele e Palestina. Era un progetto articolato, che prevedeva alcune reciproche concessioni fra le parti, un ruolo attivo dei paesi confinanti, nuove forme di legami fra stati, uno sguardo attento per le condizioni materiali di vita delle popolazioni e così via. Sarebbe un progetto da riprendere in mano, visto che poggia su un presupposto che dovrebbe interessare, oltre che i cittadini e gli stati di tutto il mondo, in primo luogo chi vive e soffre in quell’area, da entrambi i lati del muro: persone – gli israeliani – al momento private della possibilità di immaginare un futuro personale che non preveda la militarizzazione permanente della società, oppure – dal lato palestinese – costrette in una condizione di oppressione che pare senza fine.
Oggi il sistema politico di Israele sembra bloccato e chiuso in se stesso, vittima del suo oltranzismo militarista. Si continua a parlare di quel paese come dell’unica democrazia dell’area, ma i suoi ministri sembrano assuefatti anche alla prassi di decidere i cosiddetti “omicidi mirati”, cioè condanne a morte senza processo estese ai familiari delle vittime designate oltre che a chiunque si trovi nei paraggi al momento dell’arrivo del missile mortale. (...)
Qualche tempo fa esisteva (in Israele- ndr) una dialettica interna destra/sinistra sulla questione palestinese che ormai è quasi scomparsa: la logica bellica ha travolto dissensi e speranze. Sia alcuni sondaggi sia quel che scrivono commentatori, intellettuali e attivisti del posto, fanno capire che le scelte estremistiche del governo Netanyahu hanno un alto tasso di consenso. Se ne deduce che la società israeliana si sta rassegnando a una condizione di guerra permanente per questa e per le prossime generazioni, visto che l’opzione militare, con l’assedio di Gaza, la colonizzazione della Cisgiordania, la costruzione del muro, comportano una militarizzazione continua della società. Un incubo anche per chi vive al di qua del confine e del muro, in una condizione privilegiata rispetto a chi è sottoposto all’occupazione militare o all’assedio.
Sul versante palestinese lo scenario politico non è meno critico. La divisione fra Al Fatah e Hamas non ha portato alcun miglioramento per le già debolissime prospettive di “liberazione”. Le trattative di pace più o meno dirette con lo stato israeliano, nelle condizioni attuali, hanno un infimo tasso di credibilità, né possono suscitare grandi speranze, in chi ancora creda nell’opzione violenta, i lanci di razzi verso il Sud di Israele o l’avvio di eventuali altre azioni in “territorio nemico”. E anzi possiamo dire che l’estremismo del governo israeliano ha un importante puntello proprio nella possibilità di sostenere che gli interventi militari, ancorché sproporzionati, sono necessari per la sicurezza del paese a fronte dei gruppi armati presenti a Gaza e del pericolo di azioni terroristiche.
Va dunque cercata un’altra via. Sappiamo che nello stato di Israele, così come nei territori palestinesi, esistono minoranze che hanno tenuto viva la fiammella dell’opzione nonviolenta. Pensiamo agli obiettori di coscienza israeliani o agli attivisti riuniti davanti al muro di Bil’in, per citare le esperienze più conosciute. Parliamo di minoranze che non si sono omologate alle scelte compiute dalle rispettive classi dirigenti e che hanno resistito alla rassegnazione e allo scetticismo che ha circondato in questi anni la loro azione. E’ una fiammella preziosa e sarebbe opportuno averne cura, perché da questa fiammella – forse solo da questa fiammella – può derivare una via d’uscita credibile e desiderabile rispetto a un’impasse che induce disperazione.
Il radicalismo dell’attuale governo israeliano sarebbe spiazzato da una stagione di resistenza nonviolenta di massa a Gaza, nei territori occupati e per quanto possibile anche all’interno di Israele. Se poi una simile strategia godesse di un articolato appoggio internazionale, con forme di interposizione, azioni di boicotaggio e campagne d’informazione a vasto raggio, è possibile immaginare l’apertura di una nuova fase politica nel vicino Oriente. Il cieco militarismo israeliano apparirebbe per quel che è: un sistema di potere e di governo autoreferenziale, che tiene sotto assedio la popolazione palestinese e sotto ricatto – un ricatto artefatto – i cittadini israeliani
".
(Per l'intervento completo clicca su: https://lorenzoguadagnucci.wordpress.com/2014/09/30/se-gaza-scegliesse-la-nonviolenza/)

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Data: 5-giu-2015 20.15
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Quindi smettiamo di chiamare stato ebraico quello che  viene definito , dal giusto Ilan Pappe,  un crimine  contro le popolazioni  autoctone.

Sebastiano

 

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Inviato: venerdì 5 giugno 2015 17:39
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Scrive ILAN PAPPE
"C’è un collegamento diretto tra il secolo delle atrocità israeliane contro i palestinesi e l’esplosione di violenza in Medio Oriente. Anche le violenze peggiori sono radicate nel passato coloniale dell’Occidente del quale la fondazione di uno stato ebraico invece che palestinese è stato il peggior crimine agli occhi delle generazioni a venire. Quello che viene oggi contestato violentemente è la struttura colonialista  creata dopo la I Guerra mondiale dalle potenze occidentali. Un pilastro fondamentale di questo edificio è stato la giudaizzazione della Palestina".

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Data: 05/06/2015 17.15
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Se tu chiami  “ stato ebraico “  lo stato di Israele  escludi automaticamente tutti i cittadini  non ebrei, che sono,  adesso purtroppo,  una importante minoranza del loro paese d’origine.  Chiaro ?

Dovresti sapere che le destre ultrareligiose e i sionisti  al potere invitano tutti a  definire “stato ebraico “  l’entità sionista.   Almeno tra di noi usiamo un linguaggio corretto.

sebastiano

 

 

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Inviato: venerdì 5 giugno 2015 09:48
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Lo stato e' dei suoi cittadini? E da quando?

 



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Sebastiano Cosenza <sebastiano.cosenza at fastwebnet.it> ha scritto:

E smettiamola di chiamare Israele  “ stato ebraico”.   E’ quello che desiderano   le destre  israeliane :  definire il loro paese come esclusivo della loro  religione.

Lo stato è dei suoi cittadini .   Il  30% di islamici e cristiani cittadini di Israele  di chi cazzo sono ?

sebastiano

 

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Inviato: venerdì 5 giugno 2015 06:32
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New York, 04 giu 10:55 - (Agenzia Nova) - Gli Stati Uniti e le altre potenze nucleari del globo hanno gettato alle ortiche l'opportunità rappresentata dalla recente conferenza sul disarmo nucleare delle Nazioni Unite, scrive il “New York Times” in un editoriale non firmato attribuibile alla direzione. Il meeting tenuto lo scorso maggio sarebbe dovuto servire a rafforzare la cooperazione internazionale per la limitazione degli arsenali atomici, e si è invece trasformato “in un promemoria delle profonde divergenze tra gli Stati riguardo il futuro delle armi nucleari e la natura degli sforzi che dovrebbero essere compiuti per eliminarle”. L'Onu indice la conferenza ogni cinque anni per verificare l'adesione al Trattato di non proliferazione nucleare del 1970. Il trattato è stato sottoscritto dalle maggiori potenze nucleari e da 186 Stati che si sono impegnati a non dotarsi dell'atomica, ma India, Pakistan e Israele - tutti titolari di arsenali nucleari - rifiutano di aderire al trattato, mentre la Corea del Nord, che lavora attivamente a un programma nucleare militare, ha revocato la sua firma. La conferenza di quest'anno è collassata il 22 maggio dopo quattro giorni di litigi e recriminazioni; i partecipanti non hanno concordato alcun piano d'azione per il futuro, e Stati Uniti, Regno Unito e Canada hanno rifiutato di sottoscrivere la relazione finale. Tra le ragioni dell'insuccesso – scrive il quotidiano Usa – figura anzitutto lo scontro tra Israele ed Egitto: il Cairo premeva per il bando totale delle armi nucleari in Medio Oriente, mentre Israele, che rifiuta di ammettere formalmente l'esistenza del suo arsenale atomico, vede nelle bombe nucleari una imprescindibile assicurazione per la sopravvivenza dello Stato ebraico contro eventuali aggressioni. I problemi della conferenza, però, si sono spinti ben oltre la disputa tra i paesi mediorientali, e sono stati causati in buona misura anche dal grave deterioramento delle relazioni tra Stati Uniti e Russia, che è cominciato ben prima della crisi ucraina, più o meno in concomitanza con l'arrivo alla Casa Bianca di Barack Obama. Mosca ha rifiutato di prendere in considerazione una ulteriore riduzione del suo arsenale atomico proposto dal presidente statunitense Obama, nell'ordine di un ulteriore terzo rispetto a quanto previsto dal trattato New Start del 2010. A completare lo sconfortante quadro emerso dalla conferenza sono state le minacce della Russia di schierare armi nucleari in Crimea, e la decisione a sorpresa della Cina di equipaggiare i suoi missili balistici con testate nucleari multiple in risposta alle rinnovate tensioni con gli Usa nella regione dell'Asia-Pacifico.