[Disarmo] Bentornata a Sarajevo lotta di classe



Tommaso Di Francesco

L'analisi. In Bosnia Erzegovina, nei luoghi della sanguinosa guerra 
interetnica degli anni Novanta, torna la protesta dei lavoratori. E l’Occidente 
minaccia «l’invio di truppe»

Da una set­ti­mana ormai dilaga la pro­te­sta dei lavo­ra­tori in Bosnia Erze­
go­vina, signi­fi­ca­ti­va­mente nelle stesse loca­lità, a par­tire da Sara­
jevo, che poco più di 20 anni fa hanno visto lo sca­te­narsi della guerra inte­
ret­nica che dis­solse nel san­gue la Fede­ra­zione jugo­slava. Ce n’è abba­
stanza ormai per trarne alcune con­si­de­ra­zioni che non riguar­dano solo il 
sud-est euro­peo che, chissà per­ché, ci osti­niamo a con­si­de­rare lon­tano. 
Per­ché quel che accade rimette pro­ba­bil­mente in discus­sione un para­digma 
sto­rico e politico.
Tutto ini­ziò con la crisi economica

Con la pro­te­sta sociale dif­fusa in tutti i Bal­cani — solo a gen­naio è 
ripresa l’iniziativa dei lavo­ra­tori serbi con­tro una dra­co­niana legge sul 
lavoro voluta dal governo di Bel­grado, per non par­lare di altre pro­te­ste in 
Croa­zia, Mon­te­ne­gro, Mace­do­nia e nello stesso ancora con­teso Kosovo — 
assi­stiamo ad una sorta di «ritorno al futuro». La crisi dell’ex Jugo­sla­via 
fu infatti prima di tutto crisi eco­no­mica e sociale e poi arrivò il can­cro 
dei nazio­na­li­smi sepa­ra­ti­sti, anche gra­zie alla debo­lezza della Costi­
tu­zione di Tito e Kar­delj del 1974 che auto­riz­zava il diritto di veto delle 
rap­pre­sen­tanze isti­tu­zio­nali delle varie Repub­bli­che anche equa­mente 
ripar­tite. Quando la crisi eco­no­mica irruppe, a metà degli anni 80, comin­
ciò a sgre­to­larsi il sistema della soli­da­rietà tra le varie Repub­bli­che 
(e regioni auto­nome) che com­po­ne­vano il deli­cato mosaico jugo­slavo. Con 
le regioni più «ric­che» pronte a difen­dere i pro­pri cit­ta­dini, ma invise a 
soc­cor­rere le aree più arre­trate, regioni che spesso cor­ri­spon­de­vano 
quasi strut­tu­ral­mente ad altret­tanti nodi isti­tu­zio­nali e poli­tici 
legati ai diritti delle mino­ranze che lì vive­vano. Come fu il caso del 
Kosovo. Come si può capire, fu quasi un anti­cipo del con­flitto inter-europeo 
che con­trap­pone oggi i vari paesi dell’Unione in equi­li­brio pari­te­tico di 
poteri solo nella rap­pre­sen­tanza di turno nella pre­si­denza Ue. Pro­prio 
come fu per la Jugoslavia.

A quel con­flitto sociale che pun­tava a sal­va­guar­dare la con­di­zione dei 
lavo­ra­tori e il wel­fare garan­tito, minimo, infimo ma impor­tante, invece 
che un’azione auto­noma e indi­pen­dente dei sin­da­cati e un ruolo deci­sivo 
dell’istituzione dell’autogestione — entrambe realtà sostan­zial­mente mar­gi­
nali, senza poteri effet­tivi e subal­terne rispetto all’emergere dei diritti 
nazio­nali — maturò una gestione nazio­na­li­sta della pro­te­sta dif­fusa. Fu 
così per il com­plesso agroin­du­striale dell’Agrokomerc in Bosnia, così per le 
fab­bri­che in Croa­zia, Slo­vena e Ser­bia, così per le miniere in Kosovo e 
per i can­tieri mon­te­grini. Alla fine più che la lotta di classe contò ancora 
una volta lo scon­tro tra inte­ressi iden­ti­tari più o meno masche­rati. Esi­
ziale fu la gestione dell’Unione euro­pea (allora si chia­mava ancora Cee) 
quando, piut­to­sto che sal­va­guar­dare l’unità della Fede­ra­zione jugo­
slava, legit­timò la guerra, intanto esplosa, con il rico­no­sci­mento di Slo­
ve­nia e Croa­zia come nazioni sovrane dopo la loro auto­pro­cla­ma­zione in 
stati auto­nomi sulla base etnica della «slo­ve­ni­cità» e della «croa­ti­
cità». Pre­pa­rando il bara­tro del con­flitto in Bosnia dove ogni nazio­na­
lità, lin­gua e reli­gione erano rappresentate.

Que­sto ruolo di Bru­xel­les — ma anche della Nato, siamo nel 1992 a tre anni 
dall’89 — mostra quale fu da quel momento in poi il ruolo dell’Unione euro­pea. 
Con il mirag­gio dell’ingresso nell’Ue offerto a que­sti nuovi stati nazio­
nali, fu di sostan­ziale com­par­te­ci­pa­zione alla guerra, con l’
accaparramento di influenza con­trap­po­ste: la Fran­cia diven­tava filo-serba, 
la Gran Bre­ta­gna filo-bosniaca, la Ger­ma­nia filo-croata e via dicendo. Il 
tutto con l’avvento nell’area della «diplo­ma­zia» sta­tu­ni­tense. Alla fine 
deci­siva, sia per la riso­lu­zione della guerra in Bosnia con la pace di carta 
di Day­ton a fine 1995, e in seguito con l’intervento armato aereo della Nato 
per la «riso­lu­zione» dell’irrisolta crisi koso­vara nel 1999.
La coa­zione a ripe­tere occidentale

Che c’entra tutto que­sto con la pro­te­sta sociale in corso? Varrà la pena 
riflet­tere sul fatto che l’unica rispo­sta che è venuta in que­sti giorni dall’
Occidente sulle agi­ta­zioni dei lavo­ra­tori e le pro­te­ste sociali in tutti 
i Bal­cani, a comin­ciare dalla Bosnia, sia stata ancora una volta la minac­cia 
dell’uso della forza. L’Unione euro­pea, pare di capire, non può per­met­tersi 
di veder fal­lire la finta sicu­rezza defi­nita nel sud-est — colo­nie d’
oltremare? — con vere e pro­prie occu­pa­zioni mili­tari, pro­prio ora che è 
alle prese con la crisi di senso e di soli­da­rietà del suo sta­tus fon­da­
tivo. E allora che fa? L’Alto rap­pre­sen­tante della Comu­nità inter­na­zio­
nale in Bosnia Erze­go­vina Valen­tin Inzko, preso da un attacco di coa­zione a 
ripe­tere, minac­cia: «Se la situa­zione dovesse peg­gio­rare dovremmo ricor­
rere all’invio di truppe dell’Unione europea».
Lo «spa­zio jugoslavo»

Quel che è sotto gli occhi di tutti è il fatto che, pro­prio gra­zie alla pro­
te­sta dif­fusa dei lavo­ra­tori, sta tor­nando lo «spa­zio jugo­slavo». Per­
ché se tutto è nato dalla crisi eco­no­mica degli anni Ottanta, non fu certo la 
guerra inte­ret­nica a risol­verla. Anzi, la guerra l’ha aggra­vata, i poveri 
sono diven­tati più poveri e ad arric­chirsi sono state tutte le mafie che la 
guerra hanno voluto e ali­men­tato. La massa che la guerra ha com­bat­tuto è 
ferita, muti­lata e senza nem­meno soste­gni, i salari sono di fame, la disoc­
cu­pa­zione vale per metà della popo­la­zione. Una situa­zione se pos­si­bile 
peg­giore della Gre­cia. E nel cen­te­na­rio della Grande guerra che ebbe ori­
gine, uffi­cial­mente, pro­prio a Sara­jevo, men­tre la città resta, come 
allora, sospesa tra le stra­te­gia delle grandi potenze dell’area. Ieri è «occa­
sio­nal­mente» arri­vato in visita anche il mini­stro degli esteri turco 
Davutoglu.

L’Unione euro­pea per legit­ti­mare l’ingresso degli stati bal­ca­nici nel suo 
«allar­ga­mento» insi­ste ad ammi­ni­strarli con il Fondo mone­ta­rio inter­na­
zio­nale che ha avviato da tempo mega-privatizzazioni di tutto, ser­vizi e com­
plessi indu­striali. Che ormai fal­li­scono, dopo avere arric­chito élite e 
mafie locali. E si accende la rivolta sociale. Già la disin­for­ma­c­jia dei 
regi­metti e i corvi ultra­na­zio­na­li­sti arri­vano per ripro­porre l’
ennesima stru­men­ta­liz­za­zione della pro­te­sta, pronti ad impa­dro­nir­
sene, a Mostar, a Banja Luka, a Sara­jevo, dove emerge anche una rot­tura gene­
ra­zio­nale. Ci rac­con­tano da Sara­jevo che molti cit­ta­dini restano sgo­
menti e dolo­ro­sa­mente ammet­tono: «Il palazzo della pre­si­denza noi l’
abbiamo difeso con le armi dai cet­nik, ora i nostri figli lo bruciano…che sta 
acca­dendo?». In piazza a Tuzla gli ope­rai delle cin­que fab­bri­che fal­lite 
dopo la pri­va­tiz­za­zione dichia­rano: «Resti­tuite le fab­bri­che ai lavo­ra­
tori» e il primo giorno hanno scritto sui muri della città «Morte al nazio­na­
li­smo». Nema pro­blema, è dav­vero una buona noti­zia. Ben­tor­nata lotta di 
classe.