Il business delle risorse minerarie e quello degli aiuti umanitari



Mali, crociata per le risorse - Parigi combatte i jihadisti. Che lasciano le 
città del Nord. Ma minacciano le miniere di uranio, i bacini di gas e 
petrolio. 
http://www.lettera43.it/economia/macro/mali-crociata-per-le-risorse_4367579792.
htm

La Francia continua la sua azione di guerra contro le basi dei guerriglieri 
islamisti in Mali, oramai diventato il «secondo fronte» della Libia, anch’essa 
sostanzialmente instabile dopo le azioni Nato contro Gheddafi. In Repubblica 
Centro Africana i ribelli del Nord hanno sospeso la loro avanzata verso la 
capitale Bangui per partecipare ai colloqui che dovrebbero finalmente portare 
al loro reinserimento nei ranghi dell’esercito governativo, come promesso 
oramai tre anni or sono. In Repubblica Democratica del Congo l’alternanza tra 
scoppi di guerriglia, in questo momento gestita dal movimento M23, e relativi 
cessate il fuoco, destabilizza perennemente la regione dei Grandi Laghi, che 
vanta anche il triste primato della presenza dell’Esercito di Liberazione del 
Signore di Joseph Kony, in continua azione in Uganda.
Il quadro, già preoccupante di per sé, si estende al Sud Sudan e al Ciad, 
creando una vastissima area di crisi permanente in cui le cancellerie europee, 
ma anche quella statunitense, non sembrano aver voglia di intervenire se non 
sporadicamente, e con azioni che risolvono i problemi creati da loro stessi, 
generandone così di nuovi.
E infatti, come detto, la crisi maliana è diretta filiazione di quella libica, 
così come, se ripercorriamo a ritroso le vicende del Congo e della Repubblica 
Centro Africana, troviamo sempre la stessa formula «afgana». In altre parole 
creare un movimento di guerriglia, o sostenere un dittatore, per sconfiggere il 
nemico di turno, per poi doversela vedere con lui qualche anno dopo. Ora la 
domanda è: chi ha interesse a creare questa vasta area di instabilità nel cuore 
dell’Africa sub sahariana? A chi giovano queste continue guerriglie, con il 
seguente corteo di tentativi di colpi di Stato, rifugiati esterni e interni, 
traffico d’armi e via enumerando? La risposta è a molti livelli, tutti però 
strettamente connessi tra di loro.
Il primo livello è certamente quello degli Stati e dei Governi ex coloniali, 
Francia ed Inghilterra in testa, ma anche Belgio, che possono così continuare a 
condizionare le economie delle loro terre d’oltremare attraverso il controllo 
militare dei territori. Anche gli Usa con il Comando Africa (Africom) vorrebbe 
fare lo stesso, ma ancora non sono riusciti a stabilirsi solidamente sul suolo 
africano. I secondi protagonisti di questa tragedia continentale sono le 
multinazionali minerarie, diamantifere e del legno, che possono concludere 
accordi con i gruppi di guerriglia per la fornitura di ciò che vogliono, al 
prezzo più conveniente. Non dimentichiamo che Lumumba, così come Kabila padre, 
furono uccisi proprio perché esigevano prezzi più equi sulle materie prime del 
loro Paese. E poi, ancora, ci sono i fornitori di armi leggere e meno.
Nella crisi maliana, ovviamente in modo propagandistico, viene evidenziata la 
supposta origine iraniana delle armi automatiche dei guerriglieri islamici, 
senza menzionare l’origine occidentale dell’arsenale di Gheddafi e dunque della 
gran parte delle armi usate in Mali. Ultimi «beneficiari» della situazione sono 
certamente gli enti internazionali che gestiscono i rifugiati interni ed 
esterni, e che spingono sui donatori per avere i fondi necessari. Ora se 
pensiamo che le Nazioni Unite sono in deficit permanente di sostegno, e che le 
promesse occidentali per realizzare gli Obiettivi di sviluppo del Millennio non 
sono state onorate, si capisce anche quanto una crisi importante, 
mediaticamente significativa, possa aiutare le esangui casse dell’Onu. Ma non 
finisce qui. In realtà il quadro generale è molto più ampio e ci ricorda che 
questa parte d’Africa è la più soggetta alle ferree leggi della biopolitica, 
cioè alla necessità, come diceva Foucault, del liberismo di governare le nude 
vite al fine di ricavarne la massina plusvalenza. In altre parole, se noi 
europei e nordamericani abbiamo un’impronta ecologica che ci costa il doppio 
della terra di cui disponiamo, dove trovare queste risorse se non nel 
continente africano? E quale modo migliore che la permanente instabilità di una 
zona del mondo estremamente ricca? Certo un po’ di cooperazione e specialmente 
di aiuto umanitario non si nega a nessuno, ma mai tanto da sostenere vere 
democrazie e i diritti umani, sennò da noi la crisi porterebbe i movimenti di 
guerriglia dalle sabbie del Sahara a Place de la Concorde.

Raffaele K. Salinari - il manifesto