La «kill list» di Obama



Fonte: il manifesto 
 Autore: Marco D'Eramo 

L´orrore più spaventoso è quando nessuno s´inorridisce più per l´orrore. È quel avviene da 
giorni nei mass media mondiali a proposito della Kill list di Barack Obama. Dove Kill list non 
è un film di Quentin Tarantino che il presidente degli Stati uniti si godrebbe in poltrona nello 
Studio ovale della Casa bianca. 
No, la Kill list è la lista degli esseri umani da uccidere che Obama personalmente redige 
ogni settimana. In quello che il New York Times definisce «il più strano dei rituali 
burocratici», «ogni settimana circa, più di 100 membri del sempre più elefantiaco apparato 
di sicurezza nazionale si riuniscono in videoconferenza segreta, per esaminare le biografie 
dei sospetti terroristi e raccomandare al presidente quale dovrà essere il prossimo a 
morire». 
I burocrati raccomandano, ma l´ultima parola spetta a Obama che firma di sua mano la 
condanna a morte di questi «sospetti terroristi», che essi siano cittadini americani o 
stranieri. Da notare che nessuno di loro è stato mai condannato da nessun tribunale. 
Letteralmente, il presidente degli Stati uniti si arroga l´insindacabile diritto di vita o di morte 
su qualunque essere umano di questo pianeta. Già, perché una volta emanata, questa 
«strana» sentenza è inappellabile, né criticabile (visto che è segreta). 
In fondo, la Bastiglia era stata rasa al suolo per molto meno: i monarchi assoluti dell´Ancien 
Régime si limitavano a firmare lettres de cachet, arbitrari e insindacabili ordini di 
carcerazioni, certo, ma non assassini. 
In fin dei conti il calunniato George Bush jr era stato più fedele allo spirito della costituzione 
americana quando si era «limitato» a ordinare la detenzione arbitraria di qualunque sospetto 
al mondo: se proprio doveva essere ucciso, il malcapitato andava almeno processato da 
una corte marziale americana. Ora invece abbiamo il paradosso di un presidente che è 
stato eletto promettendo di chiudere la prigione di Guantanamo, e di non permettere più che 
i sospetti siano detenuti indefinitamente senza giudizio, ma che conclude il suo primo 
mandato stilando personalmente la lista degli assassini di stato. Detenerli senza processo, 
no. Ma ucciderli senza processo sì. Tenete conto che la lista comprende non solo terroristi 
accertati, ma anche «fiancheggiatori». 
Per dirla tutta: mentre in base al decreto presidenziale di Bush poteva succedere che un 
commando irrompesse all´improvviso in casa mia in Italia, mi portasse in Egitto (o nella 
vituperata Siria) a farmi torturare da regimi più esperti in questa pratica e poi mi trasferisse 
in una base Usa d´oltremare, come Diego Garcia, per farmi processare da una corte militare 
Usa ed eventualmente uccidermi, facendomi così scomparire per sempre dalla faccia della 
terra all´insaputa di tutti, adesso, con i poteri che Obama si è arrogato, mentre io sto in 
Italia, qualcuno alla Casa bianca scorre la mia biografia, decide che sono un pericoloso 
fiancheggiatore, firma la mia condanna a morte; a questo punto in una base militare del 
Midwest un impiegato in maniche corte (che amo immaginare paciosamente obeso) si siede 
a un computer e con lo stick dei videogiochi dirige da 9.000 km di distanza un drone sulla 
terrazza di casa mia e mi spiana con un missile. 
Perfino il sussiegoso New York Times protesta flebilmente che questo «è troppo potere per 
un presidente», ma ipocrita propone solo di «stabilire criteri certi» per includere qualcuno 
nella Kill list. 
Siamo davanti al potere assoluto. Ma, come dicevo, ancora più terrificante del fatto in sé è 
la sua accoglienza da parte dell´opinione pubblica mondiale. Siamo ormai tutti assuefatti, 
non ci stupisce più nulla. Di questo nessun indignato s´indigna! Che altro ci serve per darci 
una sveglia? 
Un primo assaggio della «crudeltà umanitaria», della «ferocia buonista» in cui siamo 
scivolando sempre più anestetizzati ce l´ha dato l´immagine marcante della prima 
presidenza Obama: quella della riunione di notabili e amici invitati ad assistere in tv non alla 
finale del Super Bowl ma all´uccisione in diretta di Osama bin Laden, e a esultare non per 
un gol ma per una pallottola. 
Ma ancora più da brivido è la battuta riferita dal New York Times: dopo aver firmato 
l´uccisione di un cittadino americano che nello Yemen incitava alla jihad, il premio Nobel per 
la pace ha commentato: «Questo qui è stato facile».